6

Probabilmente pochi abitanti di Lambrate, anche quelli appartenenti a famiglie che ci vivono da generazioni, sono consapevoli di quanto sia antico il loro “borgo natìo”.

Lambrate, che deve il nome al suo fiume, il Lambro, affonda le radici nella storia. Se ne hanno notizie sin dai tempi dei Romani: per opporsi alla loro dominazione i lambratesi, di origine gallica, si allearono con Annibale nel corso delle guerre puniche.

Il luogo è stato anche citato in opere letterarie in lingua latina: Plinio il Vecchio nella Naturalis historia lo ricorda come mansio ad Lambrum, dove mansio indica una stazione di rifornimento per viandanti e militari.

Testimonianza tuttora visibile dell’esistenza di Lambrate fin dai tempi antichi è una cappelletta sopravvissuta anche alle bombe della Seconda guerra mondiale. Si dice che il piccolo edificio di culto risalga all’epoca dei primi cristiani, I secolo d.C., come provava un’iscrizione risalente alla seconda metà del XII secolo, ora scomparsa.

Lambrate, comune autonomo da sempre, fu retrocesso al rango di rione cittadino nel 1923, quando venne inglobato nella grande Milano.

Il fiume Lambro ha ispirato anche il nome di un’altra gloria locale, la leggendaria Lambretta, lo scooter creato dalla Innocenti intorno al 1946. Nel 1950 nella fabbrica di Lambrate se ne producevano ben 100.000 esemplari l’anno, un numero sufficiente per contendere il primato delle vendite del settore alla Vespa, lo scooter della toscana Piaggio. La rivalità fra le due marche era fortissima, con punte di intransigente partigianeria non inferiore a quella delle tifoserie contrapposte di Coppi e Bartali o di Milan e Inter (nel periodo prebellico e fino alla fine della guerra chiamate rispettivamente Milano e Ambrosiana, in obbedienza alla norma del regime mussoliniano che vietava l’uso di termini anche vagamente esterofili). Le accese e infinite diatribe fra gli appartenenti alle due fazioni Lambretta e Vespa rasentavano il fanatismo, arrivando al paradosso che mai un “lambrettista” avrebbe cavalcato una Vespa, e viceversa, nemmeno se gliel’avessero regalata.

Rita raggiunse l’abitazione dei genitori di Valerio Bongiovanni in leggero anticipo sull’orario del funerale. Aveva evitato di vestirsi in modo troppo raffinato, indossando un semplice abito grigio scuro e un cappello dello stesso colore, ornato della veletta trasparente obbligatoria per chi partecipava a un rito funebre: non voleva dare nell’occhio, in un rione dove gli abitanti erano prevalentemente di condizione modesta.

Sulla strada, davanti al portone, un carro di prima classe trainato da due cavalli bianchi con pennacchio attendeva l’arrivo della salma. Si era già radunata una folla composta da gente di tutte le età, che si avviò al seguito del feretro nella lenta processione verso la chiesa parrocchiale.

A guidare il corteo, in prima fila, vestiti del colore del lutto, i parenti più stretti, fra i quali Rita identificò l’occhialuta sorella, che procedeva sottobraccio a padre e madre. Subito dietro, alcuni giovanotti dall’aria fiera e spavalda, probabilmente i componenti della banda guidata dal defunto.

In chiesa, il parroco diede prova di grande e diplomatica abilità oratoria, centrando l’omelia funebre sul ricordo del vivace ragazzino fanatico del pallone che frequentava l’oratorio e sorvolando sulle avventure meno innocenti dell’adulto. Terminata la funzione, durante la quale non era volata una mosca, i parenti si prepararono ad accompagnare la salma al cimitero. Rita ne approfittò per avviarsi indisturbata verso l’abitazione personale del Bongiovanni, l’appartamento dove era avvenuto il delitto, con l’obiettivo di fare visita alla portinaia.

Varcato il portone e superato l’androne, entrò nel cortile sul quale si affacciavano i ballatoi con ringhiera caratteristici di molte case popolari milanesi. Mentre a naso in su curiosava cercando di individuare l’appartamento del defunto al primo piano, fu assalita dalla portiera, uscita precipitosamente dalla guardiola. Una donna perfettamente in linea con lo stereotipo della categoria nella sua versione peggiore: sulla sessantina inoltrata, bassa e robusta, capelli bianchi poco puliti raccolti alla bell’e meglio sulla nuca in una disordinata treccia, grembiule dal colore indefinibile, calze che scendevano sulle caviglie, e ai piedi ciabatte poco meno antiche della loro proprietaria.

«Cosa vuole lei, dove crede di andare senza neanche rivolgermi la parola? Qui comando io, senza il mio permesso non si va da nessuna parte!»

Rita si rese conto di aver offeso l’orgoglio professionale dell’anziana e bisbetica comare. Per rimediare fece appello a tutta la sua diplomazia, affettando una melliflua e contrita umiltà. «Signora, mi scusi, non avevo visto che era nella guardiola» mentì sapendo di mentire. «Mi chiamo Rita Grande, torno adesso dal funerale del suo inquilino, il signor Valerio Bongiovanni... Chissà che giornatacce sono state queste per lei, con quello che è successo. Nessuno pensa mai alla fatica e alle responsabilità che toccano a voi custodi» continuò constatando che forse aveva invertito la rotta, perché la donna sembrava meno contrariata e battagliera, evidentemente gratificata sia dal riferimento alla durezza del suo lavoro sia dalla definizione di “custode”; generalmente i custodi si occupavano di stabili signorili, mentre i meno prestigiosi “portinai” erano quelli delle case di rango inferiore.

Visto l’effetto positivo del salvataggio in corner, Rita proseguì spregiudicatamente giocandosi la carta di un presunto ricordo personale: «Io lo so cosa vuol dire fare il suo mestiere, perché era quello della mia povera mamma: sgobbava dalla mattina alla sera e la sua unica consolazione, quando se lo poteva permettere, era mangiarsi un cioccolatino». E qui si fermò: alla parola “cioccolatino” la luce del desiderio aveva acceso il viso della portinaia. Rita allora estrasse lentamente dalla borsetta una confezione di praline di una famosa marca torinese che, senza badare a spese, si era premurata saggiamente di portare con sé, proprio in vista dell’incontro con la portiera. «Se piacciono anche a lei, ne ho giusto qui una scatola, di quelli buoni, me li hanno regalati degli amici torinesi. Le faccio compagnia e li dividiamo da buone amiche?»

L’arma segreta aveva colpito nel segno, affondando l’ostilità della vecchia Isolina, sulla quale la doppia “ruffianata” aveva avuto effetto: «E io metto su un bel caffè, cara la mia Rita... si deve accontentare di un surrogato, ma glielo faccio col cuore. Venga, si accomodi».

“Tombola!” pensò Rita, ed entrò nella squallida guardiola prendendo posto su una traballante sedia impagliata, davanti a un tavolaccio coperto da una tovaglia marrone unta e bisunta. “Facciamo finta di niente, non sono qui per una visita di cortesia. E dopo il cosiddetto caffè, che dovrò per forza ingurgitare, vediamo se riesco a cavar fuori qualcosa da questa strega. Intanto, apro la scatola e gliela do in pasto.”

Stese il contenuto della confezione davanti alla donna, che al solo sentire il crocchiare della carta argentata aveva già l’acquolina in bocca... e non solo metaforicamente.

«Meno male che ci sono ancora in giro delle signorine perbene come lei... sapesse cosa mi tocca vedere con i miei poveri occhi!» disse Isolina scartando religiosamente il primo cioccolatino.

«Non lo dica a me, signora, non si sa dove si andrà a finire, continuando di questo passo» rispose Rita imboccando senza pudore lo stesso percorso all’insegna del luogo comune.

«Ma come mai è entrata qui, cerca forse qualcuno?» domandò improvvisamente l’anziana custode, ricordando i suoi doveri professionali.

«Adesso glielo dico, ma prima le chiedo un favore: mi dia del tu, mi farebbe molto piacere, lei mi ricorda la mia mamma» spinse sull’acceleratore Rita, domandando mentalmente perdono alla defunta genitrice per l’irriverente e menzognero utilizzo che stava facendo della sua memoria.

«Come vuoi tu, Rita. Ti dispiace se mangio ancora dei cioccolatini?»

«Ma si figuri, sono tutti per lei. Per rispondere alla sua domanda, sono venuta qui perché sono amica di quella poveretta che hanno sbattuto in galera credendo che abbia ammazzato Valerio Bongiovanni, che era il suo fidanzato. Volevo solo dare un’occhiata in giro...»

«Una bella rossina la tua amica, si chiama Ines, l’ho vista tante volte, veniva spesso a trovare il Valerio, e se ne stavano rintanati nell’appartamento del primo piano per delle ore, chissà che chiacchierate si sono fatti» buttò lì strizzando l’occhio con aria complice. «Mi è sembrata una brava ragazza, gentile e educata, aveva sempre un pensierino per me, una pasta o una fetta di torta... Io ai dolci non so resistere, speriamo che non mi venga il diabete, ma di fare controlli proprio non ne ho voglia, meglio crepare che rinunciare a qualche dolcetto, non ti pare?»

«Ma certo, bisogna godersi la vita finché si può, e al diavolo dottori e medicine! Mi fa piacere che lei abbia avuto una buona impressione della mia amica Ines. L’ha vista arrivare quella sera?» chiese avvicinandosi al vero motivo della sua visita.

«Non ne sono sicura, perché verso le otto, dopo aver lavato i piatti, mi appisolo ascoltando la radio, l’unico svago che mi è rimasto.»

Preso atto che indagando sugli orari di arrivo di Ines non avrebbe cavato un ragno dal buco, Rita cambiò direzione: «Si ricorda invece a che ora è rientrato il Valerio?».

«Questo sì, perché mi ha chiesto se c’era della posta per lui. Sarà stato un po’ prima delle sette... non avevo ancora cominciato a mangiare.»

«È venuto qualcun altro a trovarlo quel giorno?» domandò Rita con noncuranza.

«Non ti saprei dire, perché alla sera c’è stato un po’ di movimento. Stavo dormicchiando, quando mi sono svegliata di soprassalto sentendo una gallina urlare come una matta vicino alla portineria. Mi sembrava impossibile fosse una gallina, nessuno ne tiene in casa qui, se no io lo saprei, dato che sono la responsabile del palazzo. Sono corsa subito a vedere cosa stava succedendo: in cortile c’era proprio una bella gallinotta che correva sbattendo le ali e strillando come una forsennata. Ho cercato di acchiapparla, ma si sa che non è facile prendere quelle bestie lì, cambiano di continuo direzione e ti scappano via da tutte le parti. Alla fine ce l’ho fatta, anche con l’aiuto di un’inquilina... ecco, presa com’ero, e lontana dalla guardiola, se in quel momento qualcuno si fosse infilato su per le scale di sicuro non me ne sarei accorta.»

Immediatamente Rita pensò che lo starnazzare dell’innocente volatile era stato uno strano ma efficace diversivo messo in atto da qualcuno per poter accedere alle scale senza essere visto... Ma come poteva sapere in quale appartamento viveva Valerio? Ecco un particolare da chiarire. Comunque, non c’erano dubbi che il lancio del pennuto faceva parte di un piano predeterminato, perché nessuno va in giro con una gallina al guinzaglio per liberarla nel primo cortile che incontra.

Tirando le somme, Rita concluse che, se un personaggio misterioso aveva fatto visita a Valerio verso le otto, costui aveva avuto tutto il tempo per ucciderlo almeno mezz’ora prima che Ines arrivasse. “Se qualcuno della polizia si fosse disturbato a fare qualche domanda, sarebbe arrivato alle stesse conclusioni. Come minimo, sarebbe nata qualche perplessità sulla colpevolezza della Ines... ma è stato molto più comodo mandare in galera una povera diavola e chi s’è visto s’è visto” pensò amareggiata, approfittando poi del clima cordiale che si era instaurato con la portinaia per continuare: «Signora Isolina, la gallina l’ha distratta dal controllo di chi entrava e usciva dal portone, ma più tardi ha visto qualcuno andarsene?».

«Cara la mia Rita,» rispose Isolina «c’era un tale casino, scusa la parolaccia, tutti gli inquilini erano eccitati dalla novità, si divertivano a giocare con la gallina, e si discuteva: la teniamo per le uova o la facciamo bollire in pentola e ce la mangiamo? Se ti può interessare, non abbiamo ancora preso una decisione, per adesso la bestia è custodita dalla Marcellina, una pensionata che sta al secondo piano. Per rispondere a quello che mi hai chiesto, non so cosa dirti, c’era un sacco di gente che entrava, usciva, saliva o scendeva per le scale, mi ricordo solo che a un certo punto ho sentito un’auto che si metteva in moto fuori dal portone, ma non sono andata a vedere chi era.»

Registrato anche quest’ultimo particolare, Rita si stava preparando a tornare nuovamente alla carica, quando fu la stessa portinaia a riaprire spontaneamente la conversazione, saltando sì di palo in frasca, ma proprio dove voleva condurla Rita: «A proposito di viavai sulle scale, sapessi quante donne venivano a trovare il povero Valerio, a parte la tua amica! E ti dico... mica delle poveracce, donne ricche, eleganti, con tanto di pelliccia, vestiti e gioielli che dovevano costare un occhio della testa. Di uomini se ne vedevano pochi, i soliti amici del cuore, ci siamo capite...» puntualizzò ridacchiando. «Amici che mi sa tanto che erano dei banditi come lui, perché questo si diceva nel quartiere, ma io mi faccio i fatti miei. Se andava in giro a rubare a chi aveva i portafogli gonfi di quattrini, buon per lui... anche perché qualche lira veniva in tasca anche a me: con le mance il Valerio era molto generoso, e io ricambiavo come potevo... Quando la polizia veniva a chiedere informazioni, da me non cavava di bocca niente che potesse fargli danno. Ma adesso purtroppo è finita la pacchia, per lui... e anche per me.»

Rita ascoltò con grande interesse e provò ad andare più a fondo, solleticando astutamente la vanità e la tendenza al pettegolezzo della donna: «Lei è un tipo a cui non sfugge niente, e che fa con coscienza il suo dovere, dunque le avrà ben viste e squadrate tutte, queste donne che andavano e venivano, magari ci ha parlato assieme, ne conosceva qualcuna per nome?».

«Guarda, cara la mia Rita, c’era poco da curiosare con il Valerio, lui era uno che sapeva il fatto suo: quando doveva ricevere una delle sue femmine, mi avvisava prima e mi metteva in tasca qualche biglietto da cento, dicendomi chiaro e tondo: “Lei questa signora la lascia passare senza chiedere niente, capito?”. Quando la tizia arrivava, mi diceva a malapena un secco “Bongiovanni, primo piano” stando bene attenta a coprirsi la faccia, e si imbucava su per le scale. Altro che sapere come si chiamavano!»

«Ma erano poi così tante, queste signore?»

«Non proprio tante, ma neanche poche. Andava a periodi: per qualche settimana veniva la stessa, poi una nuova e quella spariva, anche se capitava che venissero una un giorno e una un altro. Ce ne aveva per tutte il giovanotto, beate loro.»

«Così, tanto per parlare, chi frequentava negli ultimi tempi?» non mollò la presa Rita.

«Ehi, bèla tusa, non è che io passavo le giornate a spiare chi andava a trovarlo. Però ti posso dire che da un paio di mesi saliva da lui sempre la stessa, una signora al massimo sulla quarantina, molto elegante, un po’ più gentile delle altre, si degnava persino di salutarmi con un cenno della mano, ma anche lei si guardava bene dal mostrarmi la faccia. Anche se, da quel poco che ho visto, mi sembrava una bella donna, alta e ben messa. È venuta qua fino all’ultimo, anche due giorni prima che il Valerio venisse ammazzato. Una cosa strana però è successa, proprio quel pomeriggio lì, adesso che ci penso: un attimo dopo che lei aveva iniziato a salire le scale, dall’androne è sbucato un tipo con una faccia poco raccomandabile, che si è infilato in cortile, ha guardato in su e sicuramente ha visto la signora entrare nell’appartamento del Valerio. Gli ho chiesto cosa voleva, e mi ha risposto che si era sbagliato di portone e se ne è andato. Cosa dici, la stava seguendo per scoprire se aveva un amante, magari era uno mandato dal marito?» concluse con un interrogativo non privo di buonsenso.

«E chi lo sa? Può essere» rispose Rita, pensando: “Ecco come il marito tradito ha scoperto dove viveva l’amante della moglie!”.

«Scusami,» riprese Isolina «ma a te che cosa te ne frega di chi veniva a spassarsela con il Valerio? Mica eri la sua fidanzata, no? Infatti, qua non ti ho mai vista.»

«No, certo, ma siccome sono molto amica di quella povera disgraziata della Ines, mi piacerebbe capirci qualcosa di più, di questo delitto.»

«Lascia fare alla polizia, che è il suo mestiere» la ammonì la custode. «Non immischiarti se no rischi di andarci di mezzo anche tu, quelli fanno presto a sbatterti al due1! Ma adesso ti devo salutare, è già passato mezzogiorno, mi lascerai mangiare qualcosa... Oggi mi scaldo un po’ di minestrone avanzato di ieri sera, se vuoi favorire metto un piatto in più, ci vuole un attimo.»

«No, la ringrazio, signora Isolina, lei è molto gentile, ma devo tornare a casa, mia nonna si preoccuperebbe non vedendomi rientrare per pranzo» rispose Rita, che rabbrividiva al solo pensiero di condividere chissà quale minestra riscaldata su un tavolo così sudicio.

«Sarà per un’altra volta, ci conto» insistette la portinaia. «E grazie ancora per i cioccolatini, me li posso davvero tenere tutti?»

«Ma senz’altro, gliel’ho detto, anzi la prossima volta che passo da queste parti gliene porto un’altra scatola. E tante grazie a lei per la bella chiacchierata.»

“Qualcosa porto a casa da questo viaggetto a Lambrate” pensava Rita sul tram diretto a Porta Venezia. “Per cominciare, quello che ha riferito la portinaia taglia definitivamente la testa al toro sull’innocenza della Ines: è chiaro che un paio di giorni prima del delitto qualcuno ha controllato qual era l’appartamento dove l’infedele signora consumava l’adulterio, poi, la sera dell’omicidio, lui o chi per lui è salito al primo piano dopo aver liberato in cortile la povera gallina per distrarre l’attenzione della portinaia. Infine, il marito della bella signora, o un suo sicario, è entrato nell’appartamento e ha fatto fuori il Valerio. Secondo me grossomodo questo è quello che è successo, e la mia non mi sembra una deduzione campata in aria. E benedetta sia la vecchia Isolina... la spesa per la scatola di cioccolatini è stata un ottimo investimento! Quindi la mia idea che il movente del delitto sia il desiderio di vendetta di un marito geloso, e pure cornuto, è stata promossa a pieni voti. Se questo è vero, adesso viene però il difficile: per arrivare all’assassino, bisogna prima scoprire chi era l’ultima amante. Il che significa cercare il famoso ago nel pagliaio, perché figurati se il bel bandito si lasciava scappare nome cognome e indirizzo delle sue conquiste, e il Leonida me lo ha confermato. Ma non fasciamoci la testa prima di romperla, ho ancora in programma altri incontri, e che Dio me la mandi buona, finché c’è vita c’è speranza!”

Messa di buonumore dai primi riscontri positivi della sua indagine, Rita percorse il tragitto dalla fermata di piazza Oberdan a via Spallanzani canterellando Grazie dei fior, la canzone interpretata da Nilla Pizzi che aveva vinto il primo Festival di Sanremo. Veramente lei, che lo aveva ascoltato alla radio, aveva fatto il tifo per La margherita, in onore al suo nome, ma alla fine bisognava riconoscere che la giuria aveva premiato il pezzo migliore.

A casa, la tavola era già apparecchiata e Francesco e Renato, tovagliolo al collo e forchetta in mano, si preparavano a dare l’assalto ai piatti preparati dalla nonna. “Altro che minestra riscaldata!” sorrise Rita, guardando la zuppiera fumante, colma di spaghetti al ragù, che troneggiava sopra la tovaglia a scacchi rossi e bianchi, la grande passione della nonna. Passione che Rita, condizionata dalle raffinatezze della villa in Monte Rosa, non condivideva, guardandosi però bene dal dirlo alla vecchia Angiolina. Dopo una bistecca di scamone con contorno di insalata e una gustosa ciotola di fragole al limone come dessert (una primizia di stagione), una volta sparecchiata la tavola, i gemelli la occuparono con quaderni, penna e calamaio, mentre la nonna si ritirò in camera da letto per un riposino.

Rita invece si immerse nella lettura del giornale, sfogliandolo dalla prima all’ultima pagina. L’abitudine, nata su precisa richiesta della contessa, era diventata ormai una necessità: i suoi interessi spaziavano in tutti i campi, ma in quei giorni dava un’occhiata più attenta alla cronaca cittadina alla ricerca di notizie sull’omicidio di Valerio Bongiovanni, ormai relegato a trafiletti di poche righe. Assodato che la colpevole era la povera Ines, il caso era chiuso per tutti.

Delusa ancora una volta dalla superficialità dei cronisti di nera, passò alle pagine sportive, non tanto per passione personale, ma perché molti dei suoi “amici” di Monte Rosa seguivano l’andamento del campionato di calcio, cosa che l’aveva spinta a un investimento supplementare: l’acquisto, tutti i lunedì, della “Gazzetta dello Sport”, che riportava risultati e classifiche della domenica. Fra i suoi più affezionati clienti c’era un industriale, tifosissimo del Milan, che non perdeva una partita, a San Siro e in trasferta; proprio quell’anno il Milan si avviava a conquistare uno scudetto che mancava ai rossoneri da più di quarant’anni.

A furia di leggere i resoconti delle partite, Rita aveva persino imparato a memoria la formazione titolare della squadra dei “diavoli”, che recitava per la gioia del suo ammiratore tifoso: Buffon (Lorenzo, non l’attuale Gigi!), Silvestri, Bonomi, Annovazzi, Tognon, De Grandi, Burini, Gren, Nordahl, Liedholm, Renosto. “Non bastasse il resto, guarda cosa mi tocca fare per campare! Che non lo sappia il Leonida, che è interista!” pensava commentando fra sé e sé gli strani risvolti della sua nuova professione.

1 In via Filangieri al numero due c’é il carcere di San Vittore, popolarmente detto, appunto, “due”.