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Tutta la famiglia Grande partecipò alla messa nella parrocchia di Santa Francesca Romana, come la maggior parte delle abitanti della porta1. Certo, “delle” e non “degli” abitanti, perché gli uomini, salvo rare eccezioni, disertavano la funzione, preferendo bighellonare in qualche caffè o chiacchierare sul sagrato della chiesa.

Prima o dopo la messa, un appuntamento obbligato per chi teneva all’igiene era la toilette settimanale: non essendo gli appartamenti dotati di un bagno, ci si lavava o in una tinozza casalinga riempita con acqua calda o, per chi poteva permetterselo, a pagamento al Diurno di piazza Oberdan, all’angolo con corso Buenos Aires, uno splendido ambiente liberty multifunzione sotterraneo, cui si accedeva dalla piazza, scendendo alcuni gradini. Il Diurno offriva i più svariati servizi: parrucchiere per uomo e per signora, manicure, pedicure, agenzia viaggi, fotografo e, a volte, persino lustrascarpe. In fondo al grande spazio c’era l’ingresso alle cosiddette “terme”, un complesso con sei bagni extralusso con vasca e diverse postazioni dotate di sola doccia. La tariffa, a prezzi accettabili, comprendeva anche l’utilizzo dei morbidi asciugamani bianchi, dispensati dalle gentilissime inservienti.

Qui si recarono, al termine della messa, la nonna e i due nipoti maschi, per concedersi il piacere di un bagno rilassante... alla salute della contessa Vergani!

Rita non fu della partita, in quanto praticamente tutti i giorni poteva approfittare di una splendida e accogliente vasca in marmo alla villa in Monte Rosa.

A casa, finalmente sola, si sdraiò sul divano e ripassò ad alta voce gli ultimi sviluppi della sua indagine e le conclusioni che ne aveva ricavato.

«Primo: l’ultima amante del Valerio al novantanove virgola nove per cento è la signora Giorgia; costei però non è, per usare le parole dello stesso Valerio, la solita sgarzola di passaggio, ma la protagonista di un legame impegnativo, e del resto basta guardarla in faccia per capire che non è una donna qualsiasi.

«Secondo: la tresca fra la moglie e il bandito era nota al coniuge, come prova il sopralluogo, suo o di un suo emissario, nel cortile dello stabile. Scoperto il nido d’amore adulterino, ecco scattare il piano per togliere di mezzo l’ingombrante terzo incomodo.

«Terzo: non ci sono dubbi che l’omicidio è stato commesso da un marito tradito, in prima persona o attraverso l’opera di un sicario. Il buffo episodio della gallina potrebbe anche far pensare che forse i protagonisti dell’omicidio sono stati due, ma per il momento questo è un dettaglio di poco conto.

«Conclusione: ho superato la fase del buio più pesto, ma perché la mia inchiesta faccia altri passi avanti urge rintracciare questa Giorgia. Per fortuna non comincio a mani vuote, anzi, parto con due assi nella manica: la fotografia e i gemelli d’oro che, non essendo di provenienza illecita, sono di sicuro un regalo suo all’amante.»

Arrivata alla fine del suo ragionamento, Rita si rese conto che la partita era appena all’inizio: «Anche ammesso di riuscire a scoprire cognome e indirizzo della bella signora, non siamo nemmeno a metà dell’opera, perché è necessario prima di tutto che lei confermi la sua relazione col Valerio, e poi, e questa sarà la parte più difficile, dimostrare che l’assassino è suo marito. Ma procediamo per gradi... per intanto, calma e gesso, Rita: devi pensare bene a come muoverti per rintracciare l’acquirente dei gemelli, facendo attenzione a evitare passi falsi».

Il ritorno dei familiari, profumati di sapone e borotalco, pose fine alle sue riflessioni e, mentre la nonna cucinava, gli altri, prima di apparecchiare la tavola, si dedicarono alla buona abitudine della lettura: il quotidiano per Rita e due romanzi di Salgari per i ragazzini, scelti dalla sorella maggiore per avvicinarli gradualmente alla letteratura.

A dire il vero, i due si stavano rivelando instancabili divoratori di libri. “Buon sangue non mente” pensò con una punta di orgoglio Rita, guardando compiaciuta i fratelli; non essendo omozigoti, si somigliavano solo vagamente: mentre Renato ricordava nei lineamenti soprattutto il padre, Francesco era il ritratto in versione maschile di Rita, e forse per questo, nonostante tutti i tentativi di imparzialità, il suo preferito.

Dopo pranzo, mentre la nonna e Rita sorbivano il caffè, i due gemelli si scambiarono uno sguardo d’intesa, e Francesco prese la parola: «Rita, abbiamo un po’ di compiti da fare, ma dopo, se puoi, ci accompagneresti in un posto? Non al cinema però, perché in questa bella giornata non abbiamo voglia di chiuderci al buio».

«Dove vogliono andare i principini? Oggi niente domenica all’oratorio?» chiese Rita, pronta a soddisfarne qualunque desiderio.

«Mi hanno detto che dalle parti di via Plinio, in uno spiazzo libero dalle macerie, c’è un luna park con tanti baracconi. Se non hai altro da fare, ci piacerebbe passarci qualche ora, come premio per i voti che abbiamo portato a casa.»

«Va bene, ve lo meritate, ma non ci staremo tutto il pomeriggio, se no mi fate spendere una fortuna» rispose sorridendo Rita.

«Dagg minga tropi vissi ai fioeu» intervenne la nonna, che in famiglia sosteneva la parte di garante della morigeratezza. «Va ben che te portet a ca’ di bèi danè, ma bisogna minga sbàti via

«Tranquilla, nonna, non è vero che Rita ci vizia, e lo sappiamo anche noi che non bisogna buttare i soldi dalla finestra, ma non sarà qualche ora al luna park a mandarci in rovina» precisò Renato.

«L’argomento è chiuso, oggi si va al luna park, ma con i soldi contati, va bene? Quando son finiti si torna a casa» pose termine alla disputa colei che teneva i cordoni della borsa.

I bombardamenti, soprattutto quelli dell’ultimo periodo della guerra, avevano raso al suolo circa un terzo degli edifici milanesi, lasciando al loro posto montagne di macerie. Molte aree erano state in buona parte ripulite e offrivano uno spettacolo sempre triste ma meno angosciante. In attesa della ricostruzione, questi angoli di città si trasformavano (magra consolazione), a seconda delle dimensioni, in improvvisati e polverosi campetti di calcio dove due pile di mattoni fungevano da pali, oppure venivano occupati da piccoli circhi senza pretese o da piste per autoscontri.

In attesa di ottenere una sede stabile, anche le amatissime attrazioni del luna park si accampavano dove potevano, sfruttando spesso proprio questi spiazzi resi disponibili dal crollo di qualche caseggiato. Nel periodo natalizio a volte riuscivano a piazzarsi per quindici/venti giorni lungo i Bastioni di Porta Venezia, che per l’occasione venivano chiusi al traffico, del resto assai scarso a quei tempi: ai Bastioni, la grande disponibilità di spazio permetteva un’offerta di divertimenti ampia e articolata.

Rita e i fratelli si recarono in un provvisorio luna park di dimensioni medie, ricavato in uno slargo di via Plinio. Le attrazioni tradizionali c’erano tutte: automobiline autoscontro, vetture più grandi autoalimentate che sfrecciavano su una veloce pista di legno con curve e controcurve in discesa e in salita, castello delle streghe, labirinto fra gli specchi, tiro a segno, tiro ai barattoli, pesca miracolosa, bocce con pesci rossi e infine la giostra volante detta “calcinculo”. Per i maschi adulti, un richiamo in più era costituito dalle giovani addette ai baracconi, splendide zingare e giostraie dagli abiti multicolori.

Osservando i ragazzini incantati davanti a quel bengodi, che si gustavano il vaporoso zucchero filato, Rita si commosse, fiera di poter offrire loro un’infanzia meno grama della sua; ma allo stesso tempo rifletteva: “Però... è troppo presto per vestire i panni della vicemamma a tempo pieno, prima o poi dovrò pensare anche a me. Comunque, ho appena ventidue anni, ne mancano otto per avere ufficialmente la patente di zitella, aspettiamo un po’, e quando diventerò io un bel partito ne riparleremo”.

Seguendo i desideri dei fratelli, si imbarcò in alcuni giri sull’autoscontro, una visita al castello delle streghe e dei fantasmi, divertendosi alle urla di terrore dei più piccoli sfiorati dalla scopa della vecchia megera, ma si rifiutò di fare un giro sul “calcinculo”. Invece, incautamente, acconsentì a entrare nel labirinto degli specchi. E mal gliene incolse, perché, essendo totalmente priva di senso dell’orientamento, dopo pochi minuti non riusciva a capire dove fosse e come potesse uscire da quella trappola infernale. In preda al panico, si mise a gridare come una pazza «Aiuto, aiuto, tiratemi fuori di qui», finché un inserviente non venne a rilevarla accompagnandola all’uscita del labirinto, dove trovò i gemelli calmi e tranquilli che la presero in giro per tutto il resto del pomeriggio. “E meno male che non c’erano le montagne russe,” si disse Rita “se no avrebbero sentito le mie urla fino in piazza del Duomo!”

La sera, a casa, contenti per la bella giornata, i tre consumarono una cena a base di avanzi del mezzogiorno, perché anche nonna Angiolina si era concessa un pomeriggio di riposo facendo una scappata a trovare dei parenti a Trezzano sul Naviglio. Fatta fuori anche l’ultima fetta di torta, mentre i gemelli davano un ripasso alle lezioni dell’indomani, Rita si avviò verso una serata tutta per sé al Don Rodrigo.

Da vero amico, ma anche per la curiosità, Leonida “il gatto” si appartò subito con lei e una bottiglia di Fogarino per essere aggiornato sull’andamento delle indagini. Anche se le pesava un po’ il fatto di dover fare tutto da sola, Rita ebbe la tipica reazione di un investigatore professionista: mai rivelare lo stato di un’inchiesta prima di essere giunti a pochi centimetri dal traguardo, cioè la soluzione del caso. A questa più o meno consapevole immedesimazione nel ruolo si aggiungeva l’orgoglio di procedere contando solo sulle proprie forze, ormai conscia del fatto che idee, iniziativa ed energia per andare avanti non le facevano difetto. Perciò si limitò a riassumere, senza entrare nei dettagli, il pomeriggio trascorso con Ivana e la serata nella tana della banda di Lambrate.

«Si sono comportati bene quei banditelli? Se no, vado là e gli rompo il muso» chiese, da autentico spaccone, Leonida.

«Ma no, sono stati bravissimi, lo sanno che sono tua amica, non si permetterebbero mai di mancarmi di rispetto» rispose Rita, solleticando la vanità del ragazzo.

Ma, a costo di apparire persino troppo riservata, non gli parlò di quello che aveva progettato per arrivare all’identità della misteriosa Giorgia. Un po’ deluso per la reticenza dell’amica, Leonida si limitò a un’unica raccomandazione: «Qualunque cosa tu abbia in mente, non strafare e muoviti con cautela».

Al Don Rodrigo una volta al mese la serata della domenica era dedicata alle esibizioni “artistiche” della clientela. L’idea era ispirata alla trasmissione radiofonica Il microfono è vostro, condotta dal presentatore Nunzio Filogamo. Nel corso del programma i partecipanti, uomini e donne che sognavano di entrare a far parte del mondo dello spettacolo, avevano a disposizione alcuni minuti per dimostrare le loro qualità: cantando motivi di musica leggera o arie d’opera, suonando strumenti musicali, raccontando barzellette, recitando poesie o monologhi teatrali. Non mancavano concorrenti stravaganti, come quel ragazzino che era in grado, in un batter d’occhio, di dire qualsiasi parola, eccetto precipitevolissimevolmente, al contrario, lettera per lettera: Milano-onalim, cappuccio-oiccuppac e così via. Ogni trasmissione laureava un campione, che avrebbe partecipato alla finalissima dove sarebbe stato incoronato il vincitore assoluto. In ogni caso, a tutti era garantita una sia pur temporanea notorietà, già di per sé in grado di soddisfare la vanità degli aspiranti artisti.

Al Don Rodrigo la gara, spiritosamente battezzata Dilettanti allo sbaraglio, era limitata al canto e coinvolgeva tutti i presenti, nessuno escluso: il concorrente saliva sul palco e, accompagnato dal chitarrista Pedrini, dava prova delle sue capacità canore interpretando una canzone, non necessariamente in dialetto milanese. Inutile dire che non si contavano gli sfottò e gli ululati da parte degli stessi concorrenti, quando tornavano a indossare i panni dello spettatore.

Rita, per la sua esibizione, scelse la canzone strappalacrime Balocchi e profumi, che intonò con voce allo stesso tempo profonda e aggraziata, gli occhi umidi per la commozione. Dopo l’ultima nota, si scatenò l’entusiasmo dei presenti, sottolineato da un lungo e sonoro battimani. Al termine della serata, la giuria composta dal padrone del locale, da Leonida e da un prestigioso cliente, il professor Perego, insegnante di Lettere al liceo scientifico, decretò all’unanimità la vittoria di Rita, consegnandole una pergamena che la consacrava prima classificata. Premio offerto dal titolare del locale, una bottiglia di grappa mandorlata, che, come da tradizione, la vincitrice condivise con tutti, riservandosene però non meno di tre bicchierini. Dopo i festeggiamenti, con complimenti baci e abbracci, Rita lasciò la compagnia e si avviò verso casa, raggiungendola indenne per miracolo, nonostante l’andatura pericolosamente traballante. Aperta a fatica la porta dopo vari tentativi di centrare con la chiave il buco della serratura, senza accendere la luce si avviò verso la camera da letto, inciampando rumorosamente in sedie e mobili, con l’effetto di interrompere il sonno di tutta la famiglia. Raggiunta la meta, dopo aver farfugliato delle incomprensibili scuse, si buttò pesantemente sul letto, senza nemmeno togliersi i vestiti, cadendo in men che non si dica nel sonno più profondo. E il libro di Anna Karenina rimase sul comodino, in attesa di tempi più sobri.

1 La parte per il tutto: espressione che indicava l’intero stabile.