Il lunedì mattina, alle nove passate da un pezzo, Rita si svegliò solo grazie a ripetuti scrolloni della nonna: la sbronza della sera prima si faceva ancora sentire con un dolore che le stringeva il capo come una morsa.
Nonostante il cerchio alla testa, si ricordò che l’aspettava una giornata piena in Monte Rosa: due appuntamenti, più forse un terzo maturato nel fine settimana, di cui però la signora Vergani non le aveva ancora dato la conferma.
Si alzò procedendo a zig zag sulle gambe malferme, si lavò alla bell’e meglio al lavello del cucinino (si sarebbe sistemata poi con calma alla villa) e consumò di malavoglia una colazione con pane e burro e due tazzine di caffè, senza latte. A stomaco pieno, cercò un analgesico, rovistando nel cassetto che fungeva da farmacia casalinga d’emergenza, e trovò un cachet UT, che ingollò aiutandosi con un bicchiere d’acqua colmo fino all’orlo.
Gli effetti del farmaco cominciarono a farsi sentire solo dopo una buona mezz’ora, quando in tram stava raggiungendo la maison.
Qui si dedicò con cura alla toilette personale, nascondendo le occhiaie con un sapiente trucco e indossando l’elegante mise con cui accoglieva i visitatori. La Vergani le ricordò il programma della giornata: un incontro all’una con un suo habitué, titolare di una ditta di import-export; a seguire un altrettanto affezionato principe del foro, alle tre del pomeriggio; alle cinque e mezzo un altro assiduo cliente, giornalista specializzato nella cronaca cittadina. Tutto andò per il meglio, senza la richiesta di prestazioni particolari, con grande sollievo di Rita, che non era nella giornata giusta per prodursi in recite. Approfittò delle pause fra un appuntamento e l’altro per riposarsi, sdraiata sul letto, senza pensare a niente.
Poco prima di lasciare la casa, subì un interrogatorio da parte della Vergani, che, avendo notato che non era del solito umore, gliene chiese il motivo. La signora si preoccupava della salute delle sue ragazze, un po’ per affetto ma soprattutto per interesse: una ragazza in forma garantiva ottime prestazioni, soddisfacendo al cento per cento i clienti. Rita rassicurò la contessa, inventandosi che si trattava di un mal di testa da indigestione.
Alle sette, dai Grande era sempre pronto in tavola, come in tutte le case popolari milanesi: un retaggio delle origini contadine della maggior parte degli inquilini, infatti in campagna si mangiava ancora più presto, ci si ritirava con le galline e ci si alzava al canto del gallo per andare a lavorare nei campi o a rigovernare e mungere le bestie.
Rita si limitò a spiluzzicare nel piatto, senza bere un goccio di vino, con grande preoccupazione della nonna, che, come la Vergani, investigò sull’origine del malessere: «Cusa te gh’e incoeu? Se te ste mal, ghe pensi mi a metet a post». Al rifiuto di aiuto da parte di Rita, borbottò qualche parola incomprensibile e, dopo aver lavato i piatti, se ne andò a dormire.
Rita non riuscì a trovare la concentrazione necessaria per studiare a fondo la mossa successiva dell’inchiesta, e cioè escogitare un modo per far visita alla gioielleria Wilfreds di via Manzoni senza destare sospetti. Rinunciò dopo un quarto d’ora di occhi e naso puntati sul soffitto all’inutile ricerca di ispirazione. “Niente da fare,” pensò “ho bisogno di una sana dormita e domani, fresca come una rosa, troverò la soluzione giusta. Andrò alla gioielleria domattina stessa.” In men che non si dica si spogliò e, salutati i gemelli, che una volta tanto si sarebbero infilati per ultimi sotto le coperte, entrò nel lettone dove già dormiva la nonna: lei non soffriva affatto di insonnia, come la maggior parte delle persone semplici senza grilli per la testa, che lavorano duro tutta la giornata. Rita, invece, si girò e rigirò nel letto per una buona mezz’ora, pensando, anche contro la sua volontà, alla giornata che l’aspettava, finché, con la visione dei due archi che da piazza Cavour immettono in via Manzoni, finalmente si addormentò.
Il risveglio fu molto più piacevole di quello del giorno prima. Intanto, avvenne a un’ora più decente, poco prima delle otto, consentendo così a Rita di fare colazione con i fratelli.
Inzuppando un biscotto dopo l’altro nella scodella del caffellatte, i due si scambiarono mezze battute sul malessere di Rita. Francesco, furbo come uno scoiattolo, aveva intuito che questo era dovuto a una bevuta fuori dell’ordinario, e si permise di rimproverare la sorella maggiore: «La prossima volta che vuoi alzare il gomito, fallo di sabato sera, così il giorno dopo non hai problemi ad andare a lavorare, e non hai bisogno di prendere una pastiglia. Lo sai che le medicine, se fanno bene da una parte, fanno male dall’altra? Ce lo ha spiegato la professoressa di matematica, che è laureata anche in scienze.»
«E cosa vi ha spiegato di preciso?» chiese Rita, per nulla seccata.
«Ci ha detto, per esempio, che se un cachet fa passare il mal di testa, può creare problemi al fegato o allo stomaco. Dunque, meglio non ubriacarsi e fare a meno delle medicine, capito, cara Rita?»
«È vero, l’ho sentito dire anch’io» si inserì Renato, per non essere da meno.
«Che cos’è, una congiura? Sappiate che non ero per niente ubriaca, devo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male» rispose Rita, rispolverando la solita scusa.
«Va bene, va bene, facciamo finta di crederci» dissero all’unisono le due birbe.
E se ne andarono diretti a scuola, non senza aver ricevuto una bonaria pacca sul sedere (il marchio di fabbrica della famiglia?) dalla sorella maggiore.
La nonna, che aveva assistito al dialogo, se ne uscì con una frase che la diceva lunga sulle sue convinzioni salutistiche: «Io ho mandato giù pastiglie e medicine per tutta la vita e sunt ancamò chì, sana cume un pess a settant’ann sunà. Cosa insegnano oggi a scuola, mah...». E dopo questa affermazione, prese la sporta e uscì per la spesa giornaliera.
Giornaliera, perché a quei tempi, non esistendo i supermercati ed essendo ancora rari i frigoriferi, da un lato non si trovavano tutti gli alimenti che servivano in un solo negozio e dall’altro la loro conservazione era demandata al piccolo spazio di una ghiacciaia, che quasi ogni giorno veniva rifornita di un grande blocco di ghiaccio per mantenere il livello di freddo necessario. Alcuni alimenti finivano invece nella cosiddetta muschirola, un contenitore di legno appeso alla parete, protetto da una rete contro l’intrusione di mosche e altri insetti.
Rimasta sola, Rita si preparò un’altra tazzina di caffè con la napoletana e si rimise a pensare alla visita alla gioielleria.
“Dunque, comincio mostrando i gemelli e chiedo di dirmi il nome di chi li ha acquistati perché glieli voglio restituire... Ma vorranno sapere come ne sono venuta in possesso.”
Si fermò un attimo grattandosi la punta del naso, finché arrivò l’idea giusta: “Li ho trovati per terra, ho visto l’indirizzo sull’astuccio e, da brava ragazza onesta, voglio restituirli al legittimo proprietario: ditemi chi li ha comprati e io glieli riporto subito. E devono cacciar fuori nome, cognome e indirizzo, se no nisba, non li mollo! Quasi quasi ci vado adesso, sono le dieci, dovrebbero essere aperti. Ottimo, Rita, partenza!”.
Aprì l’armadio e rovistò nel guardaroba (ne aveva ormai uno ben fornito anche a casa propria), alla ricerca di un abito adatto all’occasione. Voleva presentarsi al massimo della forma e dell’eleganza, in fondo si preparava a entrare in una gioielleria di via Manzoni, frequentata dal meglio della società milanese.
Scelse un raffinato tailleur blu notte completato da camicetta di seta azzurra, scarpe nere con un minimo di tacco (“È più signorile”) e borsetta dello stesso colore. Trucco limitato all’essenziale (“Tanto sono bella anche al naturale”), e cioè rossetto sulle labbra e un tocco di matita per gli occhi, più un’energica e artigianale “pizzicata” per dare colore alle gote.
Chiusa la porta di casa, scese le scale, dove incrociò il signor Gianni Marosa, un simpatico cinquantenne, un po’ sordo, che abitava al terzo piano: faceva il panettiere in un forno di via Settala e lavorava di notte, per sfornare il pane di prima mattina. La salutò accennando un mezzo inchino, nonostante portasse in spalla la sua bicicletta da corsa verde oliva, marca Legnano. Il Marosa era infatti un fanatico del ciclismo, da praticante e da tifoso, di fede rigorosamente bartaliana, come provava la marca della bici.
L’uomo la guardò con evidente ammirazione, non rinunciando a un colorito apprezzamento: «Sei sempre più bella, cara la mia Rita. C’avessi vent’anni di meno, ti farei vedere io come so lavorare l’impasto per fare il pane... su quel sedere che c’hai che è uno spettacolo!» e concluse la frase con una risata, permettendosi un innocente buffetto sulla guancia della giovane, che rispose per le rime in tono scherzoso, a voce alta per farsi sentire dalle deboli orecchie del fornaio: «Lei è ancora un bell’uomo, signor Gianni, ma è meglio che continui a impastare acqua lievito e farina per fare le michette più buone di Porta Venezia... invece di pensare al mio didietro, se no lo dico a sua moglie che certe idee gliele fa passare col manico della scopa!».
Sul portone, terminato lo scambio di battute, le loro strade si divisero e, mentre il panettiere inforcava il suo cavallo d’acciaio, Rita decise di raggiungere via Manzoni a piedi, attraversando i Giardini Pubblici e uscendo poi dal cancello che dava in piazza Cavour. Percorse così il vialetto su cui, al di là della rete di recinzione, si affacciava la postazione dello zoo occupata dalle giraffe, la cui vista la mise come sempre di buonumore. Attraversando piazza Cavour, si soffermò a curiosare alla bancarella dei libri usati, ma era troppo eccitata per poter dedicare il giusto tempo e la dovuta attenzione alla ricerca di qualche romanzo interessante.
Nel giro di pochi minuti si trovò davanti all’ingresso della gioielleria Wilfreds, come enunciava l’elaborata scritta in caratteri gotici sull’insegna. In vetrina non c’era l’accatastamento di gioielli e orologi, messi un po’ alla rinfusa, delle oreficerie di corso Buenos Aires: qui si offriva all’occhio del passante una sobria esibizione di pochissimi pezzi adagiati su un fondo di velluto blu, ovviamente senza alcuna indicazione di prezzo.
“Questa è classe” pensò la ragazza, ormai altra donna rispetto alla cameriera della trattoria.
La porta a vetri era prudentemente chiusa, ma a Rita fu subito aperto, segno che il suo aspetto e il suo abbigliamento la facevano ritenere degna di essere ammessa in quel tempio del lusso e della ricchezza.
L’interno del locale era all’altezza delle premesse: pareti in boiserie, pavimento in parquet tirato a lucido e, in mezzo alla stanza, un banco in legno chiuso da una spessa lastra di vetro dietro la quale, sopra un panno, sempre di velluto blu, erano esposti bracciali, collane, anelli, orecchini, orologi e altre meraviglie della gioielleria e dell’oreficeria, sempre senza cartellino.
Rita fu accolta da una distinta signora sulla quarantina, sorridente ma severa nel suo abito fumo di Londra, con i capelli corti neri e una frangetta sbarazzina che ne attenuava l’aria austera.
La commessa chiese gentilmente a Rita in che cosa poteva esserle utile, e la ragazza rispose con altrettanto garbo: «Vorrei parlare con il titolare, se possibile, si tratta di una richiesta un po’ particolare».
«Signorina, può rivolgersi a me, sono qui per questo» ribatté, cortese ma un po’ piccata, la donna.
«Mi scusi, non voglio mettere in dubbio la sua competenza» rispose Rita, cercando di rimediare all’involontaria offesa. «Purtroppo ho un problema che posso sottoporre solo al responsabile del negozio, mi dispiace molto ma devo insistere.»
La commessa abbozzò un sorriso ed entrò nel retro, uscendone poco dopo in compagnia di una signora molto più anziana, una donna che, nel viso e nell’atteggiamento, portava i segni ereditati da generazioni di uomini e donne nati e cresciuti nel benessere e nel lusso: classe, stile e un pizzico di alterigia. Si presentò, tendendo la mano: «Piacere, sono Eleonora Wilfreds, la titolare della gioielleria».
Dopo che Rita si fu a sua volta presentata, la signora continuò, con la tipica voce dell’accanita fumatrice: «Alessandra mi ha detto che vuole assolutamente parlare con me, e io sono qui per ascoltarla, mi dica».
Leggermente a disagio per il confronto con una donna appartenente a un mondo a una distanza siderale dal suo, Rita ingoiò un po’ di saliva e raccontò la storia che aveva preparato, esprimendosi in un italiano che, dopo un anno di contatti ad alto livello e di buone letture, era quasi perfetto: «Io abito a Porta Venezia. L’altro ieri passeggiavo in corso Buenos Aires e, poco dopo la farmacia Formaggia, ho visto in terra un astuccio di pelle e mi sono chinata a raccoglierlo» e nel momento stesso in cui vi faceva accenno, lo estrasse dalla borsetta. «Ecco, è questo, dentro ci sono due gemelli d’oro. Siccome non ho pensato nemmeno per un secondo di tenerli per me o di venderli, avevo deciso, senza stare a fare il giro dei negozi della zona e mostrarli a destra e a sinistra, di consegnarli all’Ufficio Oggetti Smarriti, quando l’occhio mi è caduto sulla scritta dorata che compare all’interno dell’astuccio, con l’indirizzo della sua gioielleria. Dunque ho pensato che la cosa migliore fosse venire da lei e chiederle se ricorda chi ha comprato i gemelli, in modo che io possa contattare l’acquirente per restituirgli quello che è suo.»
«Cara ragazza,» la interruppe bonariamente la Wilfreds «lei continua a parlare, ma ancora non mi ha fatto vedere i gemelli. Prima, però, lasci che le faccia i miei complimenti: non c’è tanta gente, soprattutto della sua età, che trova in terra qualcosa di prezioso e non lo tiene per sé. E adesso, mi faccia dare un’occhiata.»
Rita passò l’astuccio alla titolare, che con delicatezza ne esaminò il contenuto. Con il cuore in gola, la ragazza aspettava che la Wilfreds aprisse bocca e passasse alla consultazione dei suoi registri per scoprire l’identità dell’acquirente.
L’attesa durò poco, perché dopo nemmeno trenta secondi la signora emise la sua sentenza: «Cara signorina Grande, mi spiace molto per le sue buone intenzioni, ma non sono in grado di accontentarla».
Durante la breve pausa seguita a queste parole, Rita, pur sudando freddo, ancora sperava assurdamente in un miracolo, ma la conclusione della Wilfreds la gelò del tutto: «Questi non li abbiamo venduti noi, non trattiamo gemelli d’oro di questo tipo... I nostri non sono impreziositi, diciamo così, da vezzosi brillantini: personalmente, al di là dell’indiscutibile valore commerciale, li ritengo volgari e non in sintonia con lo stile dell’oreficeria Wilfreds. Sono dolente, ma ha fatto un viaggio a vuoto».
Una mazzata in testa non avrebbe avuto effetto più devastante. Rita si trovò improvvisamente disarmata: aveva puntato tutto sull’aiuto della Wilfreds, e ora tutta la costruzione strategica basata sull’identificazione della misteriosa cliente crollava come un castello di carte.
La sua delusione era così evidente, e apparentemente spropositata, che la gentildonna si sentì in dovere di consolarla: «Non è il caso di abbattersi, signorina. Il suo tentativo di buona azione l’ha fatto, e l’idea era giusta. Evidentemente qualcuno ha inserito questi gemelli in un nostro astuccio prima di regalarli pensando di fare bella figura, dato che la nostra gioielleria, lo dico senza falsa modestia, è forse la più rinomata di Milano. Mi spiace, dovrà davvero rivolgersi all’Ufficio Oggetti Smarriti, un luogo senz’altro meno piacevole della mia gioielleria. Dove, comunque, una ragazza bella e perbene come lei sarà sempre la benvenuta. E adesso purtroppo la devo salutare, torno a esaminare il campionario che mi ha appena lasciato un rappresentante. Grazie per la visita, buona fortuna e a presto».
Una franca stretta di mano mise fine al colloquio e Rita, mormorando a fatica parole di ringraziamento a titolare e commessa, lasciò il negozio mogia mogia.
Dopo un inizio più che promettente, il mondo le era crollato addosso: la gioielleria era l’unica possibile fonte di informazione per rintracciare la signora Giorgia, personaggio chiave della sua inchiesta. La foto era uno strumento praticamente inutilizzabile... Prima conseguenza: le speranze per Ines di provare la sua innocenza e di uscire di prigione erano ridotte al lumicino, a essere ottimisti.
Scoraggiata, Rita aveva perso la voglia di camminare, così prese il tram e durante il viaggio si rassegnò alla sconfitta: “Io ci ho provato, adesso non so proprio più cosa fare... Sono finita in un vicolo cieco, non si sa da che parte voltarsi: se l’assassino è veramente il marito dell’ultima amante, cioè di Giorgia, dove vado a pescarlo? Basta, è inutile che continui a rompermi la testa, sono arrivata a un punto morto, la mia carriera di investigatrice è finita. Buonanotte ai suonatori, chiudiamo bottega e non pensiamoci più. Adesso non so neanche con che faccia presentarmi alla Ines, che tanto contava su di me... non me la sento di cancellare con un colpo di gomma tutte le sue speranze, ma nemmeno posso darle false illusioni”.
Questo si diceva Rita, seguendo un percorso logico che non faceva una grinza. In realtà nel suo intimo non aveva rinunciato a continuare la sua battaglia, pur non osando confessarlo nemmeno a se stessa.
Forzando un po’ la mano, potremmo forse azzardare l’ipotesi che il suo atteggiamento avesse radici scaramantiche.
Nei giorni seguenti Rita ottenne un nuovo permesso, questa volta grazie all’avvocato d’ufficio, per visitare Ines. Ci andò con il fratello di lei, portandole anche cambi di biancheria e un po’ di cibo preparato dalla madre.
La povera ragazza la guardava con occhi pieni di speranza, come una credente che si aspetta un miracolo, manco fosse santa Rita da Cascia anziché la peccatrice Rita Grande. La quale, stando sul vago, senza mentire ma senza nemmeno dire la verità, ripeté all’amica che la vicenda era molto complicata e richiedeva tempo. Si vergognava come una ladra.
Terminò la visita con un abbraccio, invitando ancora una volta Ines a non perdere la speranza... qualcosa sarebbe successo.
Per finire di bere l’amaro calice, la sera passò al Don Rodrigo e comunicò a Leonida l’esito negativo della ricerca in oreficeria. Il capobanda non si meravigliò più di tanto: «Con tutto l’affetto, ma te lo devo dire: cosa speravi di combinare? Hai fatto anche troppo, è difficile indagare su un caso di omicidio per una dilettante, intelligente e perspicace quanto vuoi, ma senza mezzi e senza potere. Mettici una pietra sopra e facciamoci una bevuta».
«No, non ho voglia di bere» rispose seccata Rita, constatando che sotto sotto il suo migliore amico aveva sempre visto con scetticismo il suo tentativo. Anche se si rendeva conto che le parole di Leonida avevano un senso, in un impeto di orgoglio ribatté, con il tono più agguerrito che riuscì a rimediare: «E sai cosa ti dico? La tua amica investigatrice dilettante non depone le armi: a costo di rimetterci la salute e di dar fuori di matto, non so come, ma questa storia non la lascerà morire così. Che tu ci creda o no».
«Non ti scaldare, non volevo mica offenderti, sei stata tu a dirmi che sei arrivata a un punto morto» ribatté il “gatto”. «Ma siccome ti conosco e so quanto sei cocciuta, se vuoi andare avanti, fallo pure, però stai molto attenta a dove metti i piedi, cerca di non finire anche tu nei guai. E se hai bisogno di me, fammi un fischio e io arrivo.»