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Rita seguiva da lontano le fasi finali dell’inchiesta, in preda a sensazioni contrastanti. Da un lato era felice che, grazie a lei, si stesse concretizzando la possibilità di un ritorno in libertà di Ines, dall’altro soffriva per la forzata inattività, ma queste erano le regole del gioco, e doveva accettarle.

Mentre lei si macerava nell’attesa, Giorgia Vallenera si preparava a incontrare il vicequestore che, a seguito della sua telefonata, l’aveva convocata in Questura per la mattina successiva.

Non gli fosse bastato lo choc provocatogli dalla vista della splendida Rita, il povero dottor Valentiniani ricevette un altro colpo al cuore con l’arrivo della nuova testimone: alta ed elegante, inguainata in un aderente abito verde smeraldo, i bei capelli neri sciolti sulle spalle, Giorgia sembrava pronta per le riprese di un film più che per sottoporsi a un interrogatorio di polizia.

“Questo caso è una vera miniera di belle donne” pensò il vicequestore, mascherando l’apprezzamento per l’avvenenza della visitatrice con un atteggiamento di cortese e professionale distacco.

L’interrogatorio non partì come il Valentiniani si sarebbe aspettato. La Vallenera, ascoltate le premesse del vicequestore (che in pratica erano un riepilogo di quanto riferito da Rita), iniziò con una precisazione che era al contempo, in parte, una obiezione: «Io non nego quanto detto alla signorina Grande, ma ci tengo a chiarire che non ho per questo ipotizzato il coinvolgimento di mio marito nell’omicidio».

«D’accordo, signora,» ribadì cortesemente il Valentiniani «ma resta il fatto che, proprio mentre veniva commesso il delitto, secondo lei il suo gelosissimo consorte non era a casa, dove è rientrato almeno un’ora dopo. Per non parlare di certe sue frasi alquanto compromettenti... Giusto?»

«Tutto questo è vero, ma ciononostante le ripeto che non me la sento di affermare che sia per forza Ottavio l’assassino di Valerio.»

«Signora,» intervenne spazientito il vicequestore «nessuno glielo chiede: a me basta che lei confermi ufficialmente tutto quello che ha dichiarato alla signorina Grandi, e mi pare che più o meno lo abbia già fatto pochi minuti fa. Starà poi a noi trarre le conclusioni, fare le opportune verifiche e, se è il caso, formulare un’accusa di omicidio nei confronti di qualcuno.»

Convinta dalle parole del vicequestore, per un verso vagamente minacciose e per l’altro rassicuranti, la bella Giorgia, dopo aver letto attentamente il documento, firmò senza più discutere la verbalizzazione delle sue dichiarazioni. Il che provocò un sospiro di sollievo nel Valentiniani, che vide così allontanarsi un possibile ostacolo alla continuazione dell’indagine.

La testimonianza della Vallenera diede ufficialmente il via libera alla riapertura dell’inchiesta: la situazione sentimentale “triangolare”, marito moglie e amante, l’assenza da casa del De Rossi all’ora del delitto, cioè in sostanza la mancanza di un alibi, e le frasi da lui incautamente pronunciate giustificavano ampiamente la decisione del vicequestore. A completare l’opera, una ormai remissiva Giorgia diede al funzionario anche il numero di targa della Balilla di proprietà del marito.

Per il dottor Valentiniani, che si riservò la regia dell’operazione, si poneva il problema di chi incaricare sul campo, escluso a priori il commissariato che aveva fatto cilecca nella prima inchiesta.

La situazione di partenza era al di fuori di ogni schema tradizionale: non si cominciava da zero, come a ogni inizio di indagine, ma con un capitale di informazioni che qualcun altro, estraneo all’organizzazione della polizia, aveva provveduto per conto suo ad accumulare. Dunque, in pratica si trattava solo di mettere il suggello finale a un’inchiesta condotta brillantemente nel più assoluto anonimato da una dilettante... Non che l’esito fosse così automatico, perché l’incriminazione del presunto colpevole, cioè il De Rossi, non era per nulla scontata e necessitava di conferme probatorie.

Date queste premesse, si imponeva una scelta oculata dell’uomo che avrebbe preso in mano l’indagine, in modo da stroncare sul nascere malcontenti e pettegolezzi. Il vicequestore si affidò al dottor Alfio Sardotti, un ispettore sulla cinquantina, da anni in forza alla Questura Centrale. A suo favore giocava una miscela di caratteristiche che lo rendevano il funzionario ideale nel caso specifico: collaudata esperienza, ambizione nei giusti limiti e naturale tendenza a non discutere gli ordini dei superiori, oltre a un ottimo rapporto personale con il capo. Il Valentiniani ritenne opportuno giocare pulito, non nascondendogli per quali vie e grazie a chi si era convinto a lavorare su un caso chiuso da tempo con tanto di colpevole in carcere.

Quando fu informato dello strano iter che aveva portato alla riapertura delle indagini, il Sardotti si meravigliò ma non fece commenti, limitandosi a porre l’accento sulle bizzarre sorprese che a volte si incontravano nell’esercizio del proprio lavoro. Prese dunque atto dell’incarico senza dilungarsi a chiedere lumi su dettagli che avrebbero soddisfatto una curiosità morbosa più che offrire un serio contributo al caso.

Chiarito senza problemi il delicato approccio iniziale, i due si misero all’opera partendo da un attento riesame dei fatti, a cominciare dal vaglio del resoconto del commissariato che aveva chiuso il caso.

Una volta messa a fuoco la situazione, concordarono il piano operativo che doveva essere messo in atto dal Sardotti e dalla sua squadra.

Nell’ordine: a) interrogatori della portinaia e degli inquilini dello stabile, con domande centrate prevalentemente sulla presenza o meno in loco della Balilla nera, individuata dal relativo numero di targa, la sera del delitto; b) successiva convocazione del De Rossi e della sua guardia del corpo, quale che fosse stato l’esito dei colloqui con gli abitanti del caseggiato.

Tempo di munirsi delle necessarie autorizzazioni, e l’ispettore e i suoi uomini si mossero alla volta di Lambrate.

L’operazione nacque sotto il segno della fortuna, in quanto non fu necessario sentire tutti gli inquilini per ottenere l’informazione sulla Balilla.

Infatti, dopo un breve, primo colloquio con la portinaia, tale Giovanni Vinarelli, un arzillo e robusto pensionato sulla settantina, dritto come un fuso e dotato di una folta e candida chioma, abitante al secondo piano dello stabile, alla domanda specifica se avesse notato, la sera del delitto, l’automobile nera parcheggiata vicino al portone, rispose senza esitazioni, fra un tiro e l’altro alla sigaretta: «Quella Balilla l’avevo già vista un paio di giorni prima, parcheggiata qui davanti... Ormai di automobili così se ne vedono poche, ed è un peccato, perché a me ricordano i tempi di quando ero giovane. Per farla breve, la sera in cui è successo quel patatrac ero alla finestra che dà sulla strada: stavo aspettando mia figlia e mio genero per andare a festeggiare il loro anniversario di nozze in una trattoria a due passi da qui... Sa, io sono vedovo e loro cercano di starmi vicino e non farmi sentire solo al mondo. Ero lì che mi pippavo una sigaretta... non mi guardi male, alla mia età questo vizio ce l’ho ancora e me lo porterò nella tomba... il più tardi possibile» precisò, come sfida a uno sguardo di larvato rimprovero dell’ispettore, indicando con gesto affettuoso un pacchetto di Nazionali appoggiato sul tavolo. «Dicevo, stavo fumando quando ho visto arrivare una Balilla nera, sicuramente la stessa di due giorni prima, perché anche quella aveva la targa che cominciava con il 33, ma non mi chieda gli altri numeri perché non me li ricordo. Dall’auto sono scesi due tizi, uno con una specie di sacco, ma non ho fatto caso a come fossero fatti o vestiti, anche perché di natura non sono curioso, ma solo buon osservatore, il che è molto diverso. Posso solo dirvi che uno era grande e grosso e l’altro di statura e corporatura media.»

Presa nota del fatto che probabilmente il sacco conteneva la famosa gallina liberata poi in cortile, l’ispettore continuò: «Quando sono arrivati i suoi parenti, l’automobile era ancora in strada?».

«Sì, però mia figlia e mio genero sono saliti e abbiamo chiacchierato un po’ prima di andare in trattoria, ci saremo attardati una mezz’ora abbondante.»

«E quando siete usciti?»

«Quando siamo scesi, la Balilla non c’era più.»

“Dunque,” rifletté l’ispettore “in quella mezz’ora i due gaglioffi hanno avuto tutto il tempo di far fuori il Bongiovanni e andarsene poi alla chetichella, approfittando della confusione seguita all’episodio della gallina.”

Affrontata e superata con successo la prima fase, era giunto il momento di interrogare il De Rossi e il suo autista tuttofare, a maggior ragione dopo la testimonianza del pensionato.

Bisognava però inventarsi un motivo per la convocazione che non mettesse in allarme il probabile assassino, e l’ispettore lo trovò nella testimonianza stessa del vecchio pensionato: “Con una piccola forzatura, posso dire che si tratta di un semplice controllo e di una richiesta di informazioni, in quanto una Balilla nera con un certo numero di targa, che in realtà il vecchio signore non ricorda per intero, ma che noi conosciamo grazie alla signora Giorgia, è stata vista sostare lungo il marciapiede il giorno del delitto”.

Trovato l’escamotage, telefonò al De Rossi prima a casa e poi al cantiere, gli spiegò il motivo della chiamata e lo pregò di presentarsi, l’indomani mattina alle nove, per una chiacchierata informale.

L’uomo, molto gentile e disponibile, accettò l’invito senza alcuna obiezione, chiedendo se poteva essere accompagnato dal suo autista, il signor Messinese. Richiesta accolta dall’ispettore, che si evitava così una convocazione supplementare.

Recatosi in Questura di prima mattina, dopo aver fatto rapporto al vicequestore, il Sardotti si preparò all’interrogatorio davanti a un caffè, mettendo anche in conto il fatto che, se i due effettivamente erano implicati nel delitto, avrebbero senz’altro concordato una comune versione dei fatti. “Ma riuscirò a smascherarli” pensò raccogliendo con un cucchiaino lo zucchero rimasto nella tazzina.

Alle nove in punto un agente avvisò l’ispettore che le persone che aspettava erano arrivate.

Il Messinese fu pregato di attendere in anticamera, mentre il De Rossi veniva introdotto nell’ufficio dell’investigatore.

Il marito della bella Giorgia era un uomo fra i quaranta e i cinquanta, non molto alto, con una rada capigliatura nera, vestito impeccabilmente con un doppiopetto di gabardine beige, camicia azzurra e cravatta regimental... Trasudava denaro e benessere da tutti i pori.

Senza aspettare che gli venisse fatta una domanda, prese l’iniziativa e dichiarò che alle otto di quella sera era a casa a festeggiare il compleanno della moglie. Precisando, sempre con calma olimpica, che se qualcuno aveva parcheggiato la sua Balilla a Lambrate, doveva essere stato il Messinese, che ne aveva la totale disponibilità, giorno e notte.

L’ispettore non batté ciglio, registrando ben due menzogne: secondo la moglie, il De Rossi alle otto non si trovava con lei, ma era rientrato verso le nove; inoltre l’anziano testimone aveva visto uscire dalla Balilla due persone, non una. Per il momento decise di non contestare le contraddizioni dell’interrogato, riservandosi di farlo dopo aver sentito il suo tirapiedi e avere incrociato le rispettive deposizioni. Chiese dunque al costruttore di aspettare fuori del suo ufficio, ma di non andarsene.

Per il colloquio con l’autista, il Sardotti scelse la via più diretta: «Signor Messinese, mi può dire come mai aveva parcheggiato la Balilla del signor De Rossi davanti al portone dello stabile dove, più o meno nello stesso momento, veniva commesso un delitto?» e precisò data e indirizzo. «Cosa ci era andato a fare da quelle parti? Stia bene attento a quello che mi dice.»

«Non ricordo, è passato un po’ di tempo, e poi non è detto che la Balilla fosse la mia, o meglio quella del signor De Rossi...» rispose con voce malferma il Messinese.

«Eppure c’è un testimone che dichiara non solo di aver notato una Balilla nera con il vostro numero di targa, parcheggiata vicino al portone del caseggiato, ma anche di aver visto un uomo, la cui descrizione corrisponde alla sua persona, uscire dalla macchina in questione con in mano un piccolo sacco, ed entrare nel portone della casa dove è avvenuto l’omicidio. Aggiungo che a quanto pare lei non era solo, infatti, sempre secondo il testimone, gli uomini usciti dalla vettura erano due, e la descrizione del secondo personaggio corrisponde a quella del suo datore di lavoro. Sappia che, pur essendo in là con gli anni, il testimone ci vede benissimo ed è pronto a identificare i due uomini» lo incalzò l’ispettore, inventandosi la vista perfetta del pensionato, la sua citazione del numero di targa completo e, dulcis in fundo, la disponibilità a un confronto all’americana.

«Le ripeto, stiamo parlando di diversi giorni fa, forse ero assieme al signor De Rossi, non so...» rispose sempre più in difficoltà il Messinese, disorientato dalla valanga di dettagli che l’ispettore gli aveva implacabilmente scaricato addosso.

«Il signor De Rossi afferma invece che lui era a casa a festeggiare il compleanno di sua moglie, e non sapeva dove fosse la Balilla, che era affidata alle sue cure. Allora, come la mettiamo, signor Messinese, qual è la verità?»

L’interrogato si rese conto di essere finito in una trappola, ed esitò. Il Messinese non era un’aquila, ma solo un poco di buono senza un briciolo di cervello: si trovava chiaramente in difficoltà, non sapendo se dire il vero e mettere nei pasticci il suo padrone, o abbracciare la politica del silenzio a suo rischio e pericolo, sperando che in qualche modo le cose si aggiustassero da sole.

L’ispettore, quasi gli avesse letto nel pensiero, lo tolse dall’imbarazzo, invitandolo a rinfrescarsi la memoria in una stanza della Questura, dove fu scortato e sorvegliato da un agente. Lasciò trascorrere alcuni minuti e poi richiamò il proprietario della vettura, preparandosi ad assestare la stoccata finale.

Senza nessun preambolo, si rivolse al costruttore con poche ma chiare parole: «Signor De Rossi, non capisco perché, ma lei non ci ha detto la verità, me lo può spiegare? Perché?».

Pausa, che diede all’interrogato il tempo per intervenire, con un tono tra l’offeso e il seccato: «Non so a quali menzogne lei faccia riferimento, ispettore, e su quali basi mi accusi di essere un bugiardo».

«Invece lo sa perfettamente. In quanto alle basi della mia affermazione, la prima è che sua moglie, alla quale ho appena telefonato, ha confermato quanto detto in un precedente interrogatorio, e cioè che lei, il giorno del suo compleanno, non ha partecipato a nessun festeggiamento ed è rientrato a casa circa alle nove di sera. La seconda me l’ha appena offerta il signor Messinese, che ammette di essere stato con lei sul posto, quella famosa sera. Peraltro un inquilino, affacciato alla finestra, testimonia di aver visto due persone uscire dalla sua Balilla più o meno alle otto, persone che ci ha descritto e che è in grado di riconoscere. A scanso di equivoci, le dico subito che la descrizione si attaglia perfettamente a lei e al suo autista. Dunque, che cosa mi risponde?»

La baldanza del De Rossi si era in buona parte sgonfiata, mentre lo stava prendendo una sorda ira nei confronti dei due “traditori”, con i quali credeva di aver concordato una versione dei fatti che non gli creasse problemi: la moglie, evidentemente non più terrorizzata dalle sue minacce, e il fedele collaboratore che alla fine tanto fedele non si era rivelato.

“Tutto questo non costituisce comunque una prova del fatto che io abbia commesso un omicidio” pensò senza molta convinzione. A fargliela perdere del tutto ci pensò l’ispettore: «Signor De Rossi, capirà che il suo comportamento ci induce a pensare che lei ci nasconda qualcosa, anche di molto grave, come per esempio il fatto di aver ucciso Valerio Bongiovanni...».

«Un’innocente dimenticanza e un po’ di confusione fra date e orari vi porta a una conclusione del genere? E poi, perché mai avrei dovuto uccidere questo tizio che nemmeno sapevo chi fosse? Non ne avevo alcun motivo» tentò di difendersi il De Rossi, sempre meno spavaldo e sicuro.

«Se ci pensa bene un motivo ce l’aveva, eccome: la vittima era l’amante di sua moglie, la quale lo ha ammesso spontaneamente precisando di esserne innamoratissima. Lei, grazie ai pedinamenti del suo tirapiedi, ne è venuto a conoscenza: motivo più che sufficiente, per un uomo orgoglioso e geloso come un Otello, per commettere uno sproposito, del quale si è anche in qualche modo fregiato parlandone in tono minaccioso con sua moglie.»

Il De Rossi si sentì perduto quando si rese conto che Giorgia aveva raccontato tutto alla polizia, mettendogli praticamente le manette ai polsi. A meno che... e qui si giocò l’ultima carta. Sconfessando tutto quanto aveva dichiarato fino a quel momento, cambiò bruscamente direzione di marcia improvvisando una nuova versione dei fatti: «Ispettore, le dirò la verità. Lo ammetto, quella sera sono salito nell’appartamento del Bongiovanni assieme al mio autista. Ho cercato di convincerlo, da uomo a uomo, a troncare la relazione con mia moglie. Lui ha risposto in modo sprezzante che non ci pensava nemmeno, e la discussione da acceso scambio di idee è degenerata in lite. Eravamo venuti alle mani, cominciavano a volare schiaffi e pugni quando il Messinese, vista la crescente aggressività del giovanotto, da fedele collaboratore è intervenuto in mia difesa, lo ha bloccato e, non so dirle come e perché, lo ha accoltellato. Io non volevo arrivare a tanto, ma purtroppo il mio autista, un pregiudicato cui ho voluto dare una possibilità di riscatto, appartiene a quella categoria di gente che non sa tenere a freno gli istinti più bestiali e ha sempre un’arma in saccoccia. Resomi conto del disastro che aveva combinato, l’ho trascinato via».

«Ammesso e non concesso che questa volta abbia detto la verità,» intervenne severamente l’ispettore «si rende conto, signor De Rossi, di non aver denunciato un crimine, e un criminale, alle autorità competenti? Questo comportamento è un reato, si chiama complicità in omicidio.»

«È vero, avrei dovuto denunciarlo, e sono pronto a pagare per questo, ma non volevo sollevare un putiferio che avrebbe travolto me e mia moglie, e fatto finire in prigione un mio collaboratore. In fondo era stato eliminato solo un delinquente della peggior specie» concluse cinicamente.

«Peccato che il suo silenzio abbia travolto un’innocente, accusata di un omicidio che non aveva commesso. E adesso sentiamo come ce la racconta il suo aiutante» e ordinò al piantone di far rientrare il Messinese.

L’ispettore gli si rivolse con poche ma significative parole: «Il qui presente signor De Rossi afferma che durante la discussione con il Bongiovanni, questi lo ha aggredito, e lei, per difendere il suo principale, lo ha ucciso a coltellate. Confessa?».

«Non confesso proprio niente» rispose l’autista, che non aveva nessuna voglia di tornare nelle patrie galere con un’accusa di omicidio sul gobbo. «È il signor De Rossi che gli è saltato addosso dopo che il tizio ha urlato che non ci pensava proprio a mollare la signora Giorgia. All’improvviso, lui» e indicò il De Rossi «ha tirato fuori un coltello e lo ha pugnalato. Lo giuro!»

«Tu menti, disgraziato, e ne renderai conto in tribunale. E voi, credete a quello che dice un avanzo di galera?» urlò un sempre più esagitato De Rossi.

«Signori, adesso basta!» intervenne con fermezza l’ispettore. «Signor De Rossi, le comunico ufficialmente che lei verrà incriminato per l’omicidio di Valerio Bongiovanni sia perché ci ha più volte mentito sui suoi movimenti all’ora del delitto, e dunque non ha un alibi, sia perché, contrariamente al suo aiutante, ha un valido movente, e non le ripeterò quale. Per non parlare delle frasi con cui ha lasciato intendere a sua moglie di aver liberato il campo da un rivale in amore. Il sigillo finale lo ha messo un minuto fa la testimonianza del suo autista, che ha dichiarato di averla vista uccidere la vittima. Lei sarà poi libero di difendersi scaricando ogni colpa sul signor Messinese, che per quanto mi riguarda sarà invece accusato di complicità nell’omicidio. E con questo, vi dichiaro entrambi in arresto.»

L’inchiesta si concluse dunque con due rinvii a giudizio, senza la necessità di andare alla ricerca di penne e piume di gallina, visto che entrambi gli indiziati avevano ammesso di essere stati sul luogo del delitto la sera in cui questo era stato commesso.

Il Sardotti riferì l’esito degli interrogatori e la loro conclusione al vicequestore, che si complimentò per la rapidità con cui aveva risolto il caso: «Vede, Sardotti, solo un uomo con la sua esperienza avrebbe potuto tirar fuori dal cilindro quei piccoli ma fondamentali stratagemmi che hanno permesso di incastrare il De Rossi e il suo complice. Bravo ispettore!».

Gratificato doverosamente il collaboratore, il vicequestore si affrettò a informare Rita di quanto accaduto: «Signorina Grande, come da sua richiesta, eccole l’aggiornamento in anteprima: l’inchiesta si è conclusa pochi minuti fa e abbiamo ammanettato il colpevole, proprio colui che lei sospettava, Ottavio De Rossi, il marito della signora Giorgia». E il Valentiniani espose in sintesi gli eventi che avevano portato all’incriminazione dei due colpevoli. «Mi spiace che alla stampa non potremo fare il suo nome e dare l’enfasi che meriterebbe il grosso contributo della sua investigazione alla soluzione del caso. Anzi, ma forse la mia è una raccomandazione superflua, la prego di tenere per sé la sua partecipazione privata all’inchiesta...»

«Ma si figuri, dottore, non mi interessa che il mio nome finisca sui giornali, non sono alla ricerca di onori e gloria, non amo le luci della ribalta» rispose, pensando anche: “E poi, meno si parla di me sui giornali e meno si rischia che, frugando qua e là, vengano scoperti certi altarini”. «Sono felice di avervi dato una mano, ma soprattutto di aver contribuito a scagionare la mia amica Ines, che purtroppo un po’ di galera se l’è fatta e a questo non c’è rimedio.»

«Se la può confortare, le posso dire che è già stata avviata la pratica per il suo rilascio: domani potrà tornarsene a casa, con le scuse della polizia e della giustizia, per quel che possono valere. In quanto a lei, mi permette di darle un suggerimento?»

«Mi dica, dottor Valentiniani» rispose Rita, leggermente preoccupata per l’inattesa uscita del vicequestore.

«Non so che mestiere faccia, e non lo voglio sapere. Certo è che lei ha dimostrato di avere doti e talento di prim’ordine e potrebbe intraprendere con profitto la carriera di investigatrice... ma, visto che le attuali normative mi impediscono di assumere agenti di sesso femminile, non posso farla entrare in polizia, come mi piacerebbe. Perciò le suggerisco di aprire un’agenzia privata, una cosa all’americana: le sue capacità e il suo fascino le garantirebbero un gran successo, parola di vicequestore.»

«Ci penserò» rispose sollevata Rita, sorpresa per le belle parole del funzionario, e ben lieta che questi non avesse fatto domande sul suo mestiere. «In effetti mi sono appassionata occupandomi di questa faccenda, anche se l’ho fatto per caso e quasi per forza. In ogni modo, la ringrazio per le sue belle parole e, se dovessi mai decidere di aprire un’agenzia, sarà il primo a saperlo.»

«E sarò il primo a farle una grande pubblicità! Per intanto, le sono debitore di una cena nel miglior ristorante della città, è il minimo che posso fare per compensarla dell’aiuto che ci ha dato. Mi chiami quando vuole, e prenoto subito un tavolo Da Giannino.»

«Non mi perderò questa occasione, non ci sono mai stata e mi dicono che si mangi benissimo» rispose Rita, aggiungendo fra sé e sé: “Se poi dal minimo vuoi passare al massimo, ne possiamo anche parlare, ma se credi di cavartela con una cena da Giannino ti sbagli di grosso!”.

Una cena di ben diverso tenore fu quella offerta da Rita alla Trattoria del Sole, per festeggiare la scarcerazione di Ines.

Presenti: la felicissima ex detenuta con il fratello, Leonida Ciocca e la sua Maria Grazia. Ai commensali, accolti dai titolari con entusiasmo, fu riservato un trattamento di prim’ordine: ottimo cibo e vino di qualità, una frizzante bonarda dell’Oltrepò Pavese. Al momento del brindisi e del taglio della torta, il “gatto” si alzò in piedi e prese la parola: «A nome di tutti, faccio i miei complimenti alla nostra cara amica, che ha condotto e concluso brillantemente la sua personale inchiesta, ottenendo la scarcerazione della Ines. E voglio aggiungere che Rita ha dimostrato che non esistono traguardi impossibili per chi si impegna unendo all’intelligenza la forza della passione. Brava Rita!».

Spentasi l’eco degli applausi, al momento del congedo la signora Rosetta salutò affettuosamente Rita domandandole con aria sorniona se il suo nuovo lavoro andava sempre bene. E concluse la frase con una complice strizzatina d’occhio... alla maniera di madame Giulia Vergani.