IL MONTANTE DEL PARABREZZA

Ma com’è possibile che si producano macchine sempre più tecnologiche, cruscotti che sembrano cloche di aerei, automobili che si aprono con lo sputo perché riconoscono la saliva del proprietario e poi continuiamo ad avere il montante del parabrezza largo come il cranio di Frankenstein, che ci preclude gran parte della visuale?! Mi riferisco a quel pezzo di lamiera rinforzata che tiene su da una parte e dall’altra il parabrezza. Quell’apostrofo in plastica tra le parole “non vedo” e “una minchia”. Quel tocco di zinco e plastica che forma un angolo cieco che o tu sei una delle donne di Picasso, con un occhio più su e uno più giù, e allora riesci a sbirciare qualcosa, oppure ciao.

Mi rivolgo a te, amico motorino che mi sgusci di fianco all’improvviso; a te, simpatico ciclista convinto di vivere ad Amsterdam invece sei a Pinerolo: per quale motivo mi spunti sempre dall’angolo sguercio? Loro, i produttori di automobili, si giustificano dicendo: “Eh, ma fa parte della scocca, ci dev’essere per forza, se no come lo tieni su il vetro?”. Ho capito. Ma tienilo su in modo che si veda la strada, cacchio! Risposta: “Eh ma non è proprio possibile”. Come non è possibile? Ma se facciamo i femori di titanio, le dentiere in zirconio, le rotule in polietilene… non riusciamo a fare un montante trasparente che ci permetta di vedere attraverso?

Non posso comprarmi una decappottabile per ovviare al problema, perché poi a gennaio alle sei di mattina mi devono massaggiare i piedi con l’alcol come nelle spedizioni polari. Ma com’è che non si riesce a risolvere la questione? Non c’è un cervello in fuga che vuole rientrare e disegnarlo lui? Non so, un mastro plasticaio che con le sue magiche manine crea il montante trasparente?

Comunque, mi sono informata: il montante sinistro, per essere il meno pericoloso possibile, deve essere angolato di circa sei gradi. Perfetto. E scusate: come cavolo fai a capirlo? Cioè, quando vai a comprare l’automobile, ti metti lì con le squadrette? Oppure lo chiedi al concessionario: “Guardi, non m’interessano il climatizzatore, i fendinebbia e i sedili riscaldati… mi dica com’è angolato il montante sinistro”…

Sentite. Faccio io. Parlo un attimo con i capi della FCA, la più importante fabbrica di automobili italiane in America. Cortesemente, amici, eliminate sto montante delle balle! Fateci questo santissimo favore. Tra l’altro l’azienda ha un nome fortemente femminile, FCA: vedrete che eliminandolo venderete un sacco di auto in più soprattutto alle donne, che peraltro guidano molto meglio degli uomini. Già. Non so se lo sapete ma, da un nuovissimo studio commissionato dall’Unione Europea, risulta che le donne al volante siano super. Tiè. No. Tiè è poco. Tiè tiè tiè. È statistica eh? Non è che me lo sono inventato. E i maschi sempre lì a dire: “Donne al volante pericolo costante”, e “Donne e motori son gioie e dolori”. Una grandissima mazza, caro mio. Siamo più prudenti, più attente e andiamo più piano. E quindi paghiamo anche meno di assicurazione. “Donna al volante polizza costante”, altroché.

È vero che non prendiamo tanto bene le misure, questo sì, che quando dobbiamo posteggiare diamo un colpo al cerchione e uno alla botte, ma è colpa vostra che ci avete fatto credere che una spanna sono venti centimetri. E a voi maschi rode. Ci detestate d’ufficio. Se al semaforo vedete una donna al volante strombazzate a prescindere, sembra di stare a un concerto di Nek. È come se il clacson fosse la prolunga del vostro walter. Guardate che a usarlo troppo gli altri diventano sordi ma voi diventate ciechi.

LE CALZE DEBOLI

Parliamo di calze. Dunque. Una volta compravi le calze, di cotone, di filo o di lana, e ti duravano anni. Adesso, com’è come non è, tempo quattro giorni si bucano. Fine. Anche se non hai le unghie a sciabola. (Ci sono maschi che al posto dell’unghia hanno una squama di coccodrillo, uno spunzone di Sasso di Matera. Se il creatore, e qui devo fargli un appunto, ci avesse visto lontano, ci avrebbe fatto i piedi senza dita, come le oche.)

Dicevo delle calze. Belle son belle, peccato che non durino niente, sia che le compri a un euro dall’ambulante, che a trenta nel negozio bello. Alla fine esce sempre il ditone. Il grande fratello. La domanda è: ma di cosa le fate ste calze? Di mais come le borse bio? Di bava di ragno e scia di lumaca? Ma scusa. Un paio di calze di lana non può durare mezzora. Allora scrivetelo sopra: come per i fusilli dove è segnato il tempo di cottura, sulle calze metti il tempo di foratura. Si fora in dieci minuti. Bon. Tu lo sai e ti metti il cuore in pace.

Qualche calza per fortuna ti avverte, che si sta bucando. Facendo cosa? La filigrana. La maglia a colino. Ecco. Bene. Ed è qui che deve intervenire il governo. Io vorrei una legge, una regola che ti dicesse fino a quando le calze filigranate possono ancora essere indossate e quando è tempo di buttarle. Perché il mio rovello è questo: quando il calzino non ha ancora il buco ma ha tipo una griglia di prigione, quando lo vedi, che sotto affiora il rosa del ditone, che fa l’effetto flou tipo telecamera di Berlu, si mette ancora, o lo butti via? Gli si dà ancora una chance, o per te, calza smangiata, X Factor finisce qui?

Secondo me è già da buttare. Una calza così se la metti e vai a fare la spesa quanto ti fa ancora? Quanto una Ferrari con un flûte di benzina, te lo dico io. Le più infami cedono di punto in bianco e senti proprio nella scarpa il momento in cui si apre il buco, un freddo improvviso e un raschio sinistro. E se stavi andando dal medico o a comprare gli stivali, sudi freddo. Dal piede, proprio.

Comunque io credo anche di avere capito perché le calze fan così. Perché è venuto a mancare il loro nemico naturale e non lottano più per la sopravvivenza. E sai qual era il nemico naturale della calza bucata? La mamma con l’uovo di legno e l’ago per i rammendi. Le calze un tempo sapevano che se si bucavano c’era qualcuno che le prendeva, gli piantava l’ago dentro e le suturava a bugnone storto e quindi si bucavano di meno. Perché avevano paura. Perché c’era il predatore. Adesso se ne fregano. Tanto sanno che le bagiane di oggi non sanno rammendare. Pensano: Che me ne fotte… tanto quella scema, figurati, al massimo mi usa come straccio per levare la polvere. Mi buco quando minchia voglio, tanto le vecchiacce con l’ago non ci sono più.

LA DOPPIA ZIP

Le zip dei piumini e dei giacconi oggi le fanno doppie, non si capisce come mai. Forse perché puoi lasciare un pezzo aperto sopra e un pezzo aperto sotto. Che tra l’altro non frega a nessuno e se capita è sempre una casualità. E soprattutto, peccato che s’incastrino sempre! Tu cerchi di tirarle su e… trapatan, si incastrano giacca e lampo in un unico blocco, tirandosi dentro piume e piumette, arano tutto quello che trovano, tu tiri isterica facendo il muggito del varano, e loro si incagliano come navi nel ghiaccio. E più il piumino è bello, più è di qualità, e più lo spiumi tirando su la cerniera.

Ma abbi pazienza. Facciamo delle pinzettine microscopiche per tirare il naso ai microbi e non riusciamo a fare due pezzi di ferro che non si mangino la stoffa? E il bello è che le chiamano anche chiusure “lampo”. Ma lampo cosa, che ci metti delle mezzore ad aprirle? Chiamale “tuono”, che è il suono che faccio io con la laringe mentre tiro con tutta la forza bruta che possiedo.

Che poi, noi donne in qualche modo ce la caviamo… ma gli uomini no! Voi uomini avete la manualità delle foche! E allora venite da noi, prigionieri del giubbotto, come se fosse una camicia di forza! Se non ci fossimo noi non sareste mai in grado di liberarvene, rimarreste prigionieri a vita.

LA SCOMPARSA DELLE MERCERIE

E perché non rammendiamo più? Perché… come facciamo a rammendare se sono sparite le mercerie? Dove li compriamo l’ago e il filo? Io capisco che nessuna donna si mette più lì a cambiare l’elastico delle mutande o a fare le asole a mano, qualcuna c’è, sì, ma son rare… ma un bottone sì. Un bottone anche quelle come me ce la fanno. Peccato che dove lo compriamo sto bottone? Da Mediaworld? All’Ikea? Se in una camicetta perdi un bottone sei rovinata.

Come dobbiamo fare per trovare un bottone? Ricavarlo dall’osso del prosciutto? Dobbiamo intarsiare la madreperla, dopo aver comprato mezzo chilo di ostriche in pescheria? Le merciaie si sono estinte come il dodo. Proteggiamole. Le mercerie per noi sono come le ferramenta per gli uomini. Abbiamo bisogno di quei negozi che entravi e… din don c’era la merciaia sepolta sotto torri di scatole e spilli, con le signore anziane che stavano a chiacchierare delle ore sul punto di blu del filo da ricamo, con intorno tutta un’armeria di ferri da calza e uncinetti, dei calatrava di spille e rocchetti.

Appello: rivogliamo le mercerie. Anche solo per entrare e comprare un bottone.

IL TÈ ROVENTE

Vorrei una legge che obblighi i bar a fare i tè a temperatura normale, non a quella del piombo quando fonde. Tu ordini un tè, il barista va alla macchinetta del caffè, aziona un rubinettino dell’acqua calda laterale, e fuaaaaaaaa… esce il diavolo. Una nuvola di vapore che neanche in una tintoria. Il barman ti versa sta tazza di liquido incandescente e te lo serve senza fare un plissé e tu, se lo vuoi bere, o metti in conto di cuocerti le labbra e la lingua per sempre oppure ti devi portare il sacco a pelo e stazionare lì fin dopo l’ora di chiusura.

Appello: io voglio un tè, non la lava di un vulcano! Fatemelo che lo possa bere oggi e soprattutto che non mi leda la mucosa gastrointestinale. Va bene caldo, ma non alla temperatura di fusione del vanadio!

LA TEIERA DA BAR

Vogliamo affrontare il discorso “teiera”? Sai che quando mi metto di punta sulle Piccole Cose Certe non faccio sconti a nessuno. La teiera da bar. Che tu ordini bellamente un tè, ti portano tazza, teiera di ceramica, e tè. Tu metti la bustina, chiudi col coperchio, poi prendi la teiera e dovresti versare il tè. Nella tazza of course. Invece regolarmente spisciazzi dappertutto tranne che nella tazza. Il tè che dovrebbe uscire dal beccuccio esce da tutte le parti tranne che da lì. Cola ai lati della tazzina, straborda e ti allaga il tavolino. Succede come per le padelle che si ribaltano.

Amico. Amico che di mestiere fai le teiere. Non le provi prima? Non ti accorgi che il tè esce da tutte le parti tranne che da quella giusta? E te lo versi addosso sulle mani a novanta gradi, per cui si infeltriscono? Altro che Thé Infré. È buono qui, è buono qui. È buono anche qua, ma anche là, lì sul tavolino, per terra, sul tailleur e sui piedi.

E questo capita a noi donne. Figurati cosa potrebbe fare un uomo. Già fatica a centrare la tazza del water, figurati la tazza del tè.

Io ormai bevo solo tisana alla calendula, almeno mi fa da rimedio naturale alla scottatura da teiera.

I TOVAGLIOLINI DEL BAR

E non solo, ma dopo che hai orinato tè su tutto il tavolino… se provi ad asciugarlo con i tovagliolini del bar è la fine. Perché ne ho da dire anche per i tovagliolini dei bar. Che sono lisci. Il 90 per cento sono lisci come formica… non sono porosi che asciugano. No. Son dei pezzi di linoleum. Fanno l’effetto skate. Ti inzaccheri di marmellata e ti passi quei tovagliolini lì sulla bocca? La marmellata non la asciugano. Te la spostano… ce l’hai a destra? Te la trovi a sinistra. La briciola di brioche? Passi il tovagliolino per pulirti e te la ritrovi sul naso. Pattinano. Domanda: a cosa mi servono dei tovagliolini che non tovagliolinano?

LE FETTE BISCOTTATE OVERSIZE

Amici delle fette biscottate, dico a voi. Che le fabbricate. Siete sicuri di avere preso bene le misure? Secondo voi le persone normali hanno tutte la bocca di Skin degli Skunk Anansie, che riuscirebbe, se volesse, a mettersi nelle fauci tutti i tre tomi della Divina Commedia? Abbiamo l’apertura mandibolare di un pitone reticolato forse? Ma non potete farle a misura umana ste fette? Forse vi sfugge un particolare: che le fette biscottate non si possono tagliare perché si sbriciolano!!! Vi assicuro che mangiare le loro macerie con la marmellata e il burro a brandelli è un’operazione mortificante. Fatele di una taglia normale. Per bocche normali.

Una cosa simile succede con il tappo delle bottigliette di tè, che è una mia fissa da secoli. Perché lo fanno gigante? Perché il tappo delle bottiglie d’acqua è normale e quello del tè enorme? Che devi spalancare le fauci come dal dentista e ti cola tutto sul giubbotto?

È tè, non minestrone a tocchetti!

E due paroline sugli hamburger non vogliamo spenderle? Dunque. Parliamo di pappa e ciccia. Il mondo si divide in due grandi categorie: i devoti dell’hamburger industriale – del più famoso non posso dire la marca ma ve la faccio intuire, comincia con Mac e finisce con Onald – e quelli dell’hamburger artigianale di carne di fassona col pane vero, servito in ristoranti fighetti che sembrano delle boutique…

Di questi ultimi vorrei parlare. Bene il pane tradizionale. Bene l’hamburger di mucca felice. Bene anche le salse non industriali. Ma… mi spieghi come faccio a mangiare il tuo hamburger se per far vedere che sei figo me lo fai alto come una scatola da scarpe? Un panettone. Una villetta su due piani. L’unico che è in grado di tenere in mano un hamburger così è Gianni Morandi.

Ma poi: guardami. Sono forse la rana dalla bocca larga? Ho l’apertura mandibolare di un ippopotamo? La mascella di un coccodrillo? Non so se avete notato anche voi: la nuova moda dei bar è quella di preparare panini o hamburger bellissimi da vedere ma impossibili da mangiare. È più facile mettere in bocca un Parmacotto intero. Sono giganteschi. Mastodontici. Farciti con qualsiasi cosa e conditi con sacche di salsa che al primo morso si disfano e ti schizzano di rimbalzo sulla camicia pulita. Una volta dal rinculo mi sono trovata una foglia di lattuga nel reggiseno. Sapete che ogni tanto rimpiango i nostri cari e vecchi cheeseburger, molli e gnecchi, impacchettati come saponette, ma facilissimi da mangiare?

In più, per trangugiare quegli hamburger lì non ti basta il tovagliolo normale, devi avere il telo per coprire la macchina. Ho visto umani pappare il maxi hamburger con forchetta, coltello, cucchiaio e pinze da forno. Altri scoperchiarlo pezzo per pezzo. Alcuni lo lappano come i cani. Altri lo sfracellano a bocconi o a pizzichi. Come fa a entrarmi in bocca un paninazzo grosso come la mia testa? Ma neanche un piranha ce la farebbe!

Nota che si chiama HAMburger, dove HAM sta per AMMM, mangiato con UN boccone! Non si chiama: AMDGANAMMNKSMburger… Una soluzione sarebbe farli su misura, in base alla tua impronta dentale. Ti porti dietro la panoramica e via.

Allora. Appello agli amici delle hamburgerie fighe: meno. Anche meno. Cercate una soluzione: invece di fare gli hamburger grossi come cuscini fateli lunghi e stretti come clarinetti. Altrimenti dateci la tuta dei RIS di Parma per non sporcarci e noi ci buttiamo sopra i panini come le orche marine sulle foche.

I GUSTI DELLE PIZZE

Non capisco il senso dei menu da pizzeria ciclopici. Una volta c’erano le quattro pizze classiche. Margherita, napoletana, quattro stagioni, marinara. Eventualmente le pizze con i salumi, tipo prosciutto e funghi o salamino piccante, e con dieci pizze un pizzaiolo se la cavava. Poi è cominciato ad arrivare quello che diceva: “Mi leva con cortesia la mozzarella e l’acciuga, e mi mette per favore un gamberetto e un chilo di gorgonzola?”. “Certo” diceva il pizzaiolo. “Senta? Mi sbatte sopra due cozze e una manciata di coriandoli?” “Si figuri!” E così è partito l’embolo. Adesso ti siedi al tavolo, si presenta il cameriere e ti consegna una guida del telefono. Quando arrivi a leggere fino alla fine ti è passata la fame. Per carità, ci mancherebbe, è giusto rinnovare il parterre degli abbinamenti, ma se posso permettermi, senza troppo azzardo. Intanto tocca darsi una misura. Una pizza non può pesare due chili perché c’hai sbattuto sopra la qualsiasi, che ne mangi tre bocconi e ti sembra di avere ingurgitato l’equivalente di una putrella di cemento armato…

E poi tocca darsi una misura con gli accostamenti. Pizza “mozzarella, fontina, robiola, minestrone e olive”, pizza “capperi, spinaci, porcini, cotica e rafano”. Pizza “pinoli, castagnaccio e vongole”. Ma c’è chi davvero esagera con la fantasia: pizza “pomodoro, mozzarella, nasi di porco”. Pizza “non ci sono più le quattro stagioni”, pizza “margherita rinforzata coi peli dei kiwi”, pizza “olive, capperi, con sopra un’altra pizza ai capperi e funghi”. E per chiudere, pizza “ananas, fagioli, cicale e polvere”.

Tu finisci di leggere il menu, mentre tutti commentano: “Ah… guarda, questa ha anche l’uranio arricchito, guarda quest’altra che è farcita alla penicillina…”. Poi arriva il cameriere, ti chiede: “Lei cosa prende?”. “Una margherita.” Bon.

I QUADRI NELLE PIZZERIE

Il nuovo governo dovrebbe abolire, con apposito decreto legge, i quadri delle pizzerie e delle trattorie. Si potrebbe addirittura creare un’Authority e affidarla a Sgarbi. I quadri che vengono appesi ai muri delle pizzerie sono un attentato alla voglia di vivere dei clienti, una sorsata di pura malinconia. Entri che hai fame, vedi il quadro, e ti nutri del tuo sconforto. Tu sei lì, seduto al tuo tavolo che mangi una capricciosa, alzi gli occhi e vedi un Pierrot con la lacrima come il gorgonzola, una natura non morta, massacrata, il vecchio che fuma la pipa austriaca lunga come un clarinetto, e la baita con la neve nella pizzeria di Alassio.

Vi prego… pietà. Levate sti quadri, che fanno orrore! Piuttosto il muro bianco. Oppure, fate così. Mettete solo il chiodo. Il quadro ce lo portiamo noi da casa. “Amore? Stasera andiamo a mangiare la pizza?” “Certo, tesoro. Aspetta che prendo un quadro da appendere in pizzeria.”

I DÉHORS

Non capisco come mai nelle nostre città, soprattutto nella mia, dove viviamo una nuova restaurazione, dove tutto è proibito e ogni minima iniziativa personale viene stroncata sul nascere, si dà il permesso a chiunque di mettere i déhors. Fioriscono i déhors. Spuntano nella notte come funghi. Ogni bar, ristorante, caffetteria, panineria, pizzeria ha il suo. Manca che lo mettano le ferramenta e le farmacie. Anche se non vedrei male sorseggiare un calice di Fluimucil in compagnia di un’amica magari godendosi il tramonto sul Po.

Carini, per carità. È sempre piacevole bersi un caffè all’aperto fino a quando la temperatura lo consente. Io non ho niente, contro i déhors. Meglio fuori che dentro. La mescolanza all’aperto ci riporta a quando vivevamo bradi nelle tribù. Ma i déhors devono essere piazzati in strade che oggettivamente lo permettano. Non in traverse strette, stradine storte e vie a budello di topo. Non sugli angoli dove la macchina che passa ti porta via il caffè di mano o ti sale sul piede se no non ce la fa.

Capisco che le casse dell’amministrazione ne godano perché i costi sono tutt’altro che economici e i proprietari dei locali si svenano, però ci sono déhors davvero pericolosi. Quelli ad angolo sono i peggiori. Ogni pulmino o suv che ci gira li sfiora. Il barista dovrebbe accendere un cero di ringraziamento ad ogni curva azzeccata. In più, grazie a questa moda, non sai più dove parcheggiare, se non dentro al déhor stesso approfittandone per ordinare un Negroni. Appunto. Le strade sono imballate per almeno sei mesi l’anno e per percorrerle devi fare la gimcana. Senza contare che nel déhor ci bevi uno spritz ma ti respiri un mare di sprot sgasato dalle marmitte.

Siamo davvero sicuri? O siamo tutti fuori come un déhor?

L’ACQUA MINERALE AL RISTORANTE

Una quisquilia. Al ristorante. Arrivi con la solita discreta truppa. Tutti trovano la loro collocazione e si siedono. A questo punto si presenta il cameriere che chiede trionfale: “Acqua frizzante o naturale?”. E tutti in coro: “Una gassata e una naturale, una e una grazie”. Sempre sempre sempre. Lasciamo stare le varianti “frizzante temperatura ambiente”, “naturale fredda”, che vabè, sono scelte che lasciano intravedere la decadenza del mondo occidentale. Parliamo solo di gassata o liscia. È l’unico vero momento in cui la par condicio si traduce in tutta la sua valenza morale e democratica. Ma fateci caso. Dopo pochi minuti la gassata è prosciugata e la naturale troneggia ancora con il suo bel tappo sigillato. È tutto un: “Mi passi la gassata per favore?”, “Dove è finita la gassata?”. Servono i primi e già si implora il cameriere di portare un’altra bottiglia. Di frizzante naturalmente. E così fino alla fine del pasto. La naturale resta lì. Sentinella della tavola. Un menhir.

Si beve la naturale solo, e ripeto solo, se si è assunto per via orale un peperoncino diavolicchio calabrese intero. Allora giù con l’acqua naturale, perché se tracanni quella con le bollicine peggiori la faccenda. Perché se il piccante bastona, l’acqua con le bollicine è come sale sulle ferite. Oppure ti rassegni all’acqua liscia se si è a fine pasto e nessuno ha il coraggio di ordinare un’altra bottiglia. Certo, è una sensazione mortificante bere un bicchiere di naturale dopo un pasto consumato a suon di gassata. Come passare da una Ferrari a una Panda.

Diciamolo. Tranne in casi eccezionali sono le bolle a farla da padrone. Persino i devoti dell’acqua liscia di sottecchi si gonfiano di gas. E allora? E allora finiamola con questa ipocrisia. Alla domanda del cameriere: “Liscia o gassata?”, rispondiamo: “Gassata. Gassatissima. Orrendamente frizzante”.

I SACCHETTI DELLA SPESA

I sacchetti della frutta e della verdura nei supermercati adesso si pagano. Li hanno fatti biodegradabili e ora ce li mettono in conto. Domanda logica: prima non ce li facevano pagare? Ma certo che sì, solo non ce lo dicevano. E allora cosa cambia? Cambia. Perché se non lo sai vivi meglio. Come le corna: meglio non sapere di averle. Invece così sono ostentate come se tuo marito tornasse a casa non solo col rossetto sul collo, ma anche con un reggiseno tra i denti.

Poi non è giusto per principio. Seguitemi. Io vado al supermercato. Piglio il guantino. Me lo infilo al contrario col pollice nell’indice e l’indice nel pollice che mi vengono già i nervi. Poi prendo la busta, cerco di aprirla con sto guanto del cacchio senza maledire nessuno perché i fogliolini sono sempre tutti appiccicati. Scelgo la verdura, la metto nella busta, vado a pesarmela. Non mi ricordo il numero, torno indietro, cerco il numero, ritorno al peso, ci appiccico il prezzo e la ficco nel carrello. Poi vado alla cassa, mi scarico di nuovo tutto e voi? Voi che non fate una mazza mi fate pure pagare la busta? Una fettina di culo no? È come chiamare un taxi, guidare tu e alla fine pagare pure la corsa! Siete voi che dovreste pagare me che mi smazzo tutto quanto da sola. Se vado al mercato o in un negozio, c’è sempre qualcuno che mi serve. La verduriera a gennaio stecchita dal freddo me le mette lei nel sacchetto le mele, e io pago.

Perché poi chiediamocelo: ma quante volte lo paghiamo sto sacchetto benedetto? Una volta perché lo peso e lo pago a prezzo di zucchino. La seconda me lo fate pagare a parte, e poi pago la tassa dei rifiuti per smaltirlo insieme all’umido. Scusate ma parte un “minchia” che abbatte le barriere fra mondi paralleli. Certo, puoi trovarti soluzioni alternative. Tipo, se sei maschio, metterti il cetriolo nei jeans, così alla cassa fai anche bella figura, oppure se sei femmina le pesche nel décolleté. E le carote… non mi far dire. Poi, siccome il guantino di plastica non si paga, potresti infilarti i fagiolini uno per ogni dito, e presentarti alla cassa in versione Edward mani di forbice.

Pensate che questa legge l’hanno fatta in agosto! Un mese in cui i nostri politici non fanno leggi su niente, neanche se sbarcano gli ufo o se c’è uno smottamento marino che fa scivolare la Sicilia in Libia, ma sui sacchetti sì.

In sé è una bella idea questa dei sacchetti biodegradabili, una bellissima idea, perché quelli di plastica poi finiscono in mare e se li ingollano i pesci. Così tu credi di farti una tartare di ricciola e invece ti stai mangiando il sacchetto del LIDL che la conteneva. Però fatta così, la lotta alla plastica, è una goccia nel mare visto che poi il petto di pollo ce lo mettete dentro delle vasche da bagno di polistirolo, i salumi in contenitori di plastica grandi come il Molise, e i fiocchi d’avena in scatole enormi tipo l’imballo dei televisori…

Ma perché non prendiamo esempio dalla Svizzera? Possibile che dalla Svizzera dobbiamo prendere solo la Hunziker? Che è patrimonio dell’umanità, ci mancherebbe, ma lì usano i sacchetti a retina, che sono bio e possono essere riciclati all’infinito, come un onorevole del gruppo misto! Altrimenti, se parte sta moda, va a finire che ci fanno pagare tutto, dalla carta dello scontrino alla forfora del cassiere che cade sulla spesa.

LA RACCOLTA PUNTI

Parliamo della raccolta punti al supermercato. Un’altra battaglia sacrosanta del Picicì. Spiego: tu fai la tessera del supermercato e ci metti dentro tutti i tuoi dati: nome, cognome, indirizzo, telefono, lavoro, codice fiscale, sogni nel cassetto, orario dell’andata di corpo, nome dello spirito guida, e quante ciliegie riesci a tenere in bocca senza masticarle. Tutto. Perché in quei fogli da compilare ti chiedono tutto, anche i primi tre numeri del tuo contatore del gas (e poi in banca devi stare dietro la linea gialla per la privacy). Ma vabè.

E poi con questa tessera, ogni volta che fai la spesa, accumuli punti per vincere dei regali, attraverso la distribuzione di minuscoli bollini adesivi che ti camminano random per la borsa e si appiccicano a tutto quello che trovano dentro, dalla carta di credito alla patente, finanche alla tua faccia, tanto che a volte la sera vai a lavarti i denti e te ne trovi uno appiccicato in fronte come un bindi, quel puntino rosso che hanno le donne indiane. Comunque, alla fine, quando arrivi tipo a diecimila punti, equivalenti circa a quindicimila euro di spesa, guardi il dépliant, e vedi cosa ti aspetta di regalo. Mettiamo un minipimer. E a quel punto pensi: Figo, non ne ho bisogno ma figo.

Figo una mazza. Perché se lo vuoi devi aggiungere trentacinque euro. Ma come devo aggiungere trentacinque euro?! Scusa. Sei tu che mi hai detto: “Raccogli i punti che ti facciamo un regalo”. Non io! È un regalo questo? Io non ho bisogno di un minipimer, abbi pazienza. Ti ho forse chiesto io: “Mi regali un minipimer”? No. E se vuoi regalamelo per davvero, non che lo devo pagare. Ho pagato tante di quelle spese che potrei comprare l’Australia e devo anche aggiungere trentacinque euro?! Che poi vai a controllare quanto costa un minipimer online e ne costa trenta. Ora, io sono una signora, però ho una precisa idea di dove potreste mettervi i vostri bollini e se mi scrivete in privato ve lo dico e non voglio neanche i trentacinque euro, lo faccio gratis.

Ma scusa, è come se io andassi a casa di amici con una bottiglia di champagne e dicessi: “Ecco qua, però mi dovete cinquanta euro, se no portavo il vino nel tetrapak”. “Ecco, questa sciarpa di cachemire è per te, tanti auguri… però mi devi dare cinquanta euro!”

E poi se domandi: “Scusi, ma non c’è un regalo per cui non devo pagare niente?”, la risposta è: “Be’, c’è questo pela-ravanello o questo sottobicchiere spiritoso a forma di cacca di mulo con soli tremila punti e dodici euro”. Proprietari dei supermercati: dimenticatevi la raccolta punti. Le cose o ce le regalate o se no lasciateci allo stato brado. La vita è già dura così, senza regali pelosi.

P.S. Ci sono anche supermercati che regalano piatti e posate, e li puoi prendere singoli e senza pagare. Tipo duecento punti un piatto, e cinquanta una posata… peccato che dopo un anno i regali cambino, e ti ritrovi con un servizio di piatti così composto: sette piatti, quattro forchette, due coltelli e un nano da giardino della promozione successiva.

I SIGNORI IN BERMUDA

Per carità, il senso estetico del maschio ha dei canoni assolutamente personali. Non tutti i gusti sono alla menta, diceva mia nonna. Le sopracciglia spinzettate a rondine per dire, il bulbo gelatinato a banana, il jeans a vita bassa e chiappa alta, la crivellatura di piercing. Il senso estetico dell’uomo è un misto frutta. C’è chi si trova bello coi pantaloni alla scagazza, chi si mette dei jeans skinny così attillati che davanti non ha più un pacco, ma una composizione di arte povera, quelli che a sedici anni si fanno crescere le basette fino al collo come l’imperatore Francesco Giuseppe e gente che passati i sessant’anni gira ancora con le borchie e l’anello di bronzo al pollice.

Il bello sta da un’altra parte secondo me, ma tant’è. Però su alcune cose non si transige. E una di queste è l’abbinamento bermuda e gambaletto. Quello no. Quello deve essere proibito dalla Costituzione. Anche l’Europa dovrebbe dire la sua perché tra l’altro è un accostamento che pure i tedeschi non disdegnano, anzi, diciamo che sono maestri. Vedere un uomo andare in giro così è come guardare l’eclissi senza occhiali da sole.

Ti viene da pensare: non ce l’hai una moglie, una compagna, una figlia, un figlio, al limite un nipote che ti dica “no nonno”, “no papà”, “no tesoro della vita mia”, “no cretino, non puoi uscire in questo modo. Bermuda e calzettoni di cotone al ginocchio fanno cagarissimo e tu con loro. Te lo proibisco. Se provi a varcare la soglia del pianerottolo t’azzoppo. Non vedi che sembri un concorrente di Italian Brut Talent? Potresti essere il protagonista di un film horror: l’uomo dalle ginocchia che ridono”.

Fa già pietà il bermuda con il calzino bianco corto, ma è un disturbo della cornea al quale ormai siamo piuttosto abituati. Lo vedi, stai male, ma non perdi i sensi. L’uomo con il calzino bianco corto ha sempre fatto il suo raccapriccio, però è come se nel tempo ce ne fossimo fatta una ragione. Alla fine ti abitui, come per il grattacielo in piazza Castello a Torino, è brutto ma non ci fai più caso. Vedi il calzino, ti sale un po’ di nausea tipo quando fai le curve in macchina ma nulla di più.

Il bermudone e il gambaletto però no. Che poi, detto tra noi, ha anche un suo nonsense. Se metti il gambaletto e poi indossi il bermuda, quanta gamba ti rimane scoperta? Giusto un due centimetri di ginocchio. Resta fuori la rotula. E se c’è una parte del corpo umano che isolata dal resto è un obbrobrio, è proprio la rotula. Somiglia a un cranio. L’uomo con bermuda e gambaletto diventa l’uomo a tre crani. Un mostro. Cosa te ne fai di sto bordino nudo di pelle, cretino? Lo tieni scoperto per darlo in pasto alle zanzare? Dici che da lì ti circola l’aria tipo feritoia di cantina? Falla finita, amico. Per avere tre dita di pelo e carne bianca di fuori… mettiti la braga lunga e il cuore in pace. Anche l’occhio della gente che ti incontra vuole la sua parte.

L’ETÀ DEI PUPI

Non si capisce come mai, ma quando si parla di bambini piccoli l’età si conta in mesi. Va bene fino a un anno, che devi contare in mesi per forza, visto che fai fatica a dire “Mio figlio ha tre quarti di anno” ma dopo no, dopo non capisco il perché. Tu magari incontri la mamma col passeggino per strada e chiedi: “Che carino… quanto ha?”. Risposta: “Diciotto mesi…”. “Ah” e devi fare il conto: 18 mesi fanno 12 + 6, quindi fa un anno e mezzo. Ma bedda madre, non puoi dire subito un anno e mezzo? Che già mi sono rimasti due neuroni e li devo usare per cose più importanti e non per capire che età ha tuo figlio. Quanto ha? Ventiquattro mesi. Non due anni. Ventiquattro mesi. Siamo persone o cosce di crudo di Parma a stagionatura variabile? Chiedimi quanti mesi ho io? 649 mesi.

I CHIOSCHI DELLE EDICOLE

Volevo spezzare una lancia a favore dei giornalai, quei disgraziati che stanno sparendo perché la gente legge i giornali online. I mezzibusti della strada, i Giorgini delle edicole. Io non ho mai visto un giornalaio a figura intera, per me potrebbero anche avere gli zoccoli come i centauri di Harry Potter. Quei poveretti che passano le giornate chiusi in gabbiotti minuscoli, che a luglio brasano col baffino perlinato di sudore, e a dicembre per ripararsi dal freddo azionano le stufe elettriche a palla di fuoco che dallo sbalzo termico hanno poi persino la sinusite alle caviglie.

Ma chi li progetta sti chioschi? Dei sadici… Ma non potete inventarvi delle edicole un po’ più comode, che sti disgraziati per darti il resto tutte le volte devono sporgersi fino al punto di non ritorno? Mettersi mezzi fuori tipo mitraglieri degli elicotteri? Abbiamo una categoria di sciancati. Ho conosciuto giornalai a cui a forza di dare il resto si è allungato il braccio di dieci centimetri e adesso si devono far fare le camicie su misura. Ma diamogli almeno uno di quei bastoni col sacchetto, quelli dell’elemosina in chiesa.

Per fortuna ogni tanto un cliente chiede una di quelle riviste di cui si vendono due copie all’anno, tipo Criceti che passione o Addominali da urlo grazie al tofu e allora gli tocca uscire, e almeno fa due passi. Il giornalaio non può neanche far pipì, infatti spesso lo canalizzano e sgocciola fuori, come succede per i condizionatori.

Lancio un appello umanitario. Fuksas, Renzo Piano, Calatrava… vi prego. Fate qualcosa per gli edicolanti, inventatevi delle edicole comode, pratiche, ergonomiche, dei posti dove queste anime pie possano fare il loro lavoro senza sentirsi una guardia di Buckingham Palace nella garitta…

I CARTELLI STRADALI CHE SCOMPAIONO

Fatemi dire una roba sulla cartellonistica stradale… Mi spiegate come mai le indicazioni stradali ci sono fino a un certo punto e poi improvvisamente spariscono e tu non sai più da che parte devi andare? Nei rettilinei addirittura esagerano, hai duecento chilometri di drittezza assoluta, uno spaghetto di strada senza una minima deviazione e loro te ne mettono a strafottere… un cartello via l’altro – “Ottanta chilometri a Pusterlengo”… “Venti chilometri a Pusterlengo”… “Sei quasi a Pusterlengo”… “Che bella Pusterlengo”… “Pusterlengo comune d’Europa”… “Pusterlengo gemellato al comune di Purterfiuckulen, in Germania” – che tra l’altro non capisci neanche perché, visto che tanto solo dritto puoi andare, non hai alternative, non è che puoi sbagliare… ma attenzione.

Appena arrivi ad una rotonda, ad un bivio o ad un incrocio molto articolato… puf… spariscono. Si vaporizzano. Entrano nella terza dimensione. Hai presente quelle rotonde che hanno centoventinove uscite? Be’, non trovi più una merda di indicazione neanche se piangi in cinese o maledici la viabilità in mongolo. Un cavolo di cartello dove serve davvero non c’è. Oppure, altra alternativa, ti mettono tutta una torretta di indicazioni, con settantasei paesi e paesini che magari distano centinaia di chilometri, tranne quello che cerchi tu! Ti tocca girare come un criceto nella ruota fino a quando trovi poi l’indicazione “Arrivederci da Pusterlengo”.

Conosco gente che è ancora lì da anni intorno a una rotonda cercando l’uscita Pusterlengo, col navigatore che dice “Ricalcolo”. E non solo. Se per caso c’è una sagra, una festa patronale, una corsa ciclistica, una marcia di chissàchecavolo, la confusione sotto il cielo è totale, come diceva Mao Tse-tung. Ti scrivono “Deviazione” e se ne fregano. Non ci pensano minimamente a trovarti un percorso alternativo. Anzi. Se ci riescono i cartelli li mettono al contrario per farti dispetto.

Ho conosciuto gente che si è persa così tanto che l’hanno trovata tre anni dopo con i rampicanti e le more cresciuti addosso, gente che doveva andare da un cugino a Bra e si è ritrovata da un nipote a Tunisi, gente che non è mai più riuscita a tornare a casa e adesso mi legge da qualche bar a Marrakech.

Hai proprio la sensazione che non arriverai mai, che chiameranno la Sciarelli e finirai a “Chi l’ha visto?”, che troveranno le tue ossa sbiancate in una radura dove ti sei spento dopo aver cercato di chiedere indicazioni anche a una mucca frisona.

Appello agli assessori alla viabilità di tutta Italia: amici, non tutti nascono con l’attitudine del boy scout, non tutti sono in grado di orientarsi guardando le stelle, come Tex Willer o Marco Polo. C’è anche gente come me che si perde quando fa il giro dell’isolato… Mettetevi, vi prego, una mano sul cuore, e con l’altra aggiungete due cartelli in più, due, e la gente vi sarà grata a vita. Vi rivotiamo. Lo prometto. Vi ricordo: I CARTELLI NEI BIVI. Mi raccomando, se no siamo daccapo.

IL PARCHEGGIO DAVANTI AGLI OSPEDALI

Domanda. Perché i parcheggi dei supermercati sono gratis e quelli degli ospedali a pagamento?

Davanti ai centri commerciali ci sono spianate di posti, tutti gratis, larghissimi, che ci puoi posteggiare il suv, il camion dei pompieri e una motonave; davanti agli ospedali zero. Anzi. Ci sono pure appostati i vigili sempre. Esistono gli angeli del fango e i vigili dei policlinici. Io capisco che se posteggi davanti all’uscita delle ambulanze non va bene, o peggio ancora davanti all’ingresso dell’ospedale; ma se la mia Cinquecento la metto un po’ sguincia sulla strada con una bava di ruota sulle strisce non è che mi devi torturare. Vado in un cacchio di ospedale, non a ballare il tango in balera. A questo punto ci conviene farci operare di appendicite nel reparto surgelati dell’Esselunga…

La replica di solito è: i posti a pagamento li hanno chiesti i residenti perché non trovano mai parcheggio. D’accordo, però le strisce blu non aumentano i posti, quelli sono sempre gli stessi, solo che paghi. Ottimo. Ma possibile che il buon senso sia una merce così rara nelle amministrazioni comunali? A nessuno viene in mente che la soluzione al problema non è far pagare i pochi parcheggi che ci sono, ma aggiungerne degli altri? Fateli sotterranei, fateli sopraelevati, fateli come volete, ma se c’è un luogo della città dove tutti dovrebbero poter lasciare la macchina velocemente e gratis è proprio vicino a un ospedale.

I PASTI DEGLI OSPEDALI

Volevo aprire una parentesi sui pasti negli ospedali. Che sono una delle robe più tristi del creato. Proprio la melanconia del cuore. Tu sei già lì che non stai bene, con l’umore sotto la linea di galleggiamento, il pessimismo che ti straborda dal pigiama, ti ficcano un termometro in un punto che non vorresti, a un’ora che non vorresti, finalmente arriva il momento del pranzo, tra l’altro alle 11.30 perché bisogna sbrigarsi con tutte le cose che hai da fare, e ti arrivano sti vassoi tinta fango, già unti prima ancora che li unga tu, con sopra piatti di plastica molle, sigillati con un nylon che non riesci manco a togliere, ti tocca pugnalarlo con la forchetta. E dentro c’è: tremolina di spinacio, stelline al brodo di niente, medaglioni in simil pollo, mela cotta così vecchia che probabilmente è stata raccolta nel paradiso terrestre dove le faceva la guardia un serpente.

Ma perché?! Secondo me è una strategia. Così tu cerchi di guarire in fretta e liberi il letto. Ma perché invece di sfracanarci con ste trasmissioni di cucina che non ne possiamo più – e “Ristoranti da sogno” e “Il pranzo è servito” e “La zuppa l’è cotta” – non fate un programma di cucina per ospedali? Guarda, vi regalo il format: i cuochi famosi vanno negli ospedali a migliorare i menu. Lo chiamiamo: “Mensa da incubo”.

E lì si vede se un cuoco è bravo. Perché devi fare con poco. Son capaci tutti di fare bella figura con le aragoste, il mango, i granchi di torrente e il formaggio erborinato… Vai in ospedale, dove hai pochi ingredienti e la fantasia! Scusa, già lì sei pallido di tuo, non può arrivarti un purè ancora più pallido di te.

Appello: Barbieri, studiami un purè arcobaleno! Purè bordeaux con fantasie di finocchio e smitragliata di pinoli liguri! Bastianich: lavorami ben bene la pera cotta. Impasticcamela con chicchi d’anice stellato e mandorle, che hanno il potassio. Per carità, in ospedale devi mangiare leggero, se dai il fritto misto a chi è stato operato allo stomaco sei scemo, ma il semolino sciapo a chi si è rifatto il menisco non dirmi che aiuta la guarigione…

E poi tu non lo vorresti vedere Cannavacciuolo che tira due papagne sulla gobba al cuoco dell’ospedale e lo aiuta a fare di meglio? Che gli infila due semi di coriandolo nel brodo e gli spennella il prosciutto con l’aceto balsamico di Modena, impiatta il cibo con amore, con un po’ di bellezza e gli dice: “Lo vedi adesso come devi fare, minchioncello?”.

Oltretutto in ospedale hai pure i tecnici di laboratorio, hai l’azoto, per cui Cracco mi può fare un’ottima cucina molecolare. Pompa un po’ di ossigeno nei finocchi bolliti e li fa sufflè. Si fa prestare uno di quegli apparecchi per la rianimazione cardiaca, e ci cuoce le uova al padellino. Magari per sfizio la minestrina la fa scendere da una flebo, non so. Cose che ravvivano. Stimolanti.

Fate una trasmissione con una gara fra ospedali, dove Cracco invece di chiedersi cosa ci fa in bagno va a controllare se le sogliole alla mugnaia al Traumatologico sono cucinate come si deve! Sai che share? Ma anche per gli ospedali sarebbe una bella pubblicità. “Dove vai a operarti?” “Al Gradenigo…” “Parlapà, è un quattro stelle Michelin! Pensa che hanno persino il sommelier per le orine…”

LA SCADENZA DEI MANDARINI

Questa è una piccola tigna personale. I mandarini. Chiedo: possiamo smettere di venderli fino a marzo? Perché poi tu, povera balenga, ti fai attirare, li compri perché li vedi belli pagnottosi e lucidi, poi li assaggi e sanno di medicina. Di Cif Ammoniacal. Ovvio. Non è più la loro stagione! A un certo punto ci si deve anche un po’ mettere il cuore in pace. Lo so che fuori nevica e siamo a marzo. Ma il mandarino ha già dato. Si è fatto i suoi tre mesi di trionfo e adesso giustamente ci sta dicendo: “Che volete ancora da me?”. Infatti lo sbucci e dentro è spugna. Il mandarino fuori stagione si fa secco dentro, un alveare abbandonato. Ma la cosa strana è che noi lo compriamo lo stesso. Va’ a sapere perché, siamo attratte, gli spruzzeranno sopra delle sostanze psicotrope… se no non si spiega. Tu senza accorgertene li vedi e ti arrapi… ti metti a gridare: “Mmm ti voglio, mandarino!!!”.

Poi quando ritorni dal verduriere e gli dici che i suoi mandarini facevano schifo lui regolarmente ti risponde: “Eh… sa… cosa vuole, siamo fuori stagione”. E allora non li vendere se sai che fanno pena! O metti un cartello e ci scrivi sopra: “Mandarini di merda”. Una lo sa e si mette il cuore in pace.

Come quando si ostinano a venderti le ciliegie a luglio che son molli, acciaccate e zeppe di vermi. Siamo davvero un paese di pazzi. Vogliamo avere tutta la frutta e tutta la verdura sempre. Dodici mesi su dodici. Importa un tubo se sa di niente. Siamo contenti così. I pomodori? Li vogliamo anche se fuori nevica, che non son più pomodori, sono bucce piene d’acqua. Gavettoni a forma di cuore di bue di cinquanta sfumature di rosso come i maglioni di Missoni. L’altro giorno ho visto dal fruttivendolo delle prugne. La temperatura all’esterno era di meno cinque. E lui sfoggiava in vetrina delle prugne che al tatto avevano la consistenza delle bocce da pétanque. Che già son così d’estate, figuriamoci d’inverno. (Tocca dire che la durezza è proprio una prerogativa delle nostre prugne. Non sono frutti, sono pietre. Figuriamoci a febbraio.)

E vogliamo anche spendere due parole con sta storia dell’uva senza semi o dei mandaranci senza semi? Forse qualcuno non lo sa ma esistono. Credo siano nati per i mangiatori pigri che così non hanno niente da sputare. Solo che, va detto, non è normale. La frutta ha i semi. E meno male, altrimenti a quest’ora non esisteva più. Eppure prova a comprare un grappolo d’uva e pagarlo come se fosse senza semi e trovarne uno? Ti parte il raglio di Satana. Il grido primordiale della scimmia antropomorfa, manco avessi trovato un tafano nel brodo. Che persino tuo marito ha un moto di preoccupazione e ti chiede: “Tesoro? Che ti succede? Sei posseduta?”. “Nooo!!! Un seme nell’acino d’uva… ahhh… com’è stato possibile! Mi era stato garantito!”

GLI AURICOLARI DEL TELEFONO

Vogliamo parlare degli auricolari del telefono? Che le orecchie te li sputano sempre via? Non riesco a credere che migliaia di ingegneri della Silicon Valley non abbiano ancora capito che cacchio di forma abbia un orecchio umano. Forse una soluzione sarebbe farli di diverse taglie, dalla XS per orecchiette tipo capibara alla XXL per padiglioni imponenti alla Berlu. Potrebbero farli in silicone come i tappi, che si possono modellare a piacimento. L’importante è che rimangano dentro l’orecchio, non fuori. Il massimo sono quelli low cost, rigidi e lunghi come gli auricolari di uno stetoscopio.

Adesso sono da poco sul mercato gli auricolari senza filo, che, se posso dire, sono ancora peggio. Perché soprattutto d’inverno, con i colletti e i dolcevita, ciaone. Li perdi al primo starnuto. Prima, legati al cavo, almeno li recuperavi tipo trota appesa alla lenza, adesso li semini come le briciole di Pollicino.

A me, con o senza filo gli auricolari non stanno. Io ho le orecchie di una cavia peruviana, al primo sbraito mi parton via.

LA BATTERIA DEI CELLULARI

Come mai inventano cellulari sempre più sofisticati e non risolvono l’unico vero problema dei portatili moderni, cioè la batteria? Adesso hanno addirittura scagliato sul mercato un nuovo cellulare che ha il riconoscimento facciale.

Al mattino lo prendi, te lo metti davanti al muso, lui ti riconosce e si accende. Domanda alla Apple: con i cinesi come fate, che sono tutti uguali?

E poi pensa che casino con quelle che si rifanno continuamente, che son sempre lì che si disfano, si piallano, si stirano: va a finire che poi il telefono non le riconosce. Si impalla. Devono aggiornarlo almeno una volta al mese… Poi questo nuovo cellulare ha anche il doppio schermo. Quindi sei sicuro che se cade si sfascia. Hai due probabilità su due che si rompa. Eh certo. Perché adesso abbiamo questi cosi delicatissimi che si spaccano con uno starnuto perché son fatti di ostia dei torroni.

E poi son sempre più grossi. Tu me lo spieghi sto fenomeno? Non è che l’evoluzione della specie ci fa le mani sempre più grandi… Io capisco che così puoi vedere meglio le foto della torta di mele che ha messo tua zia su Instagram, però quando telefoni non riesci manco a tenerlo in mano, ti sembra di appoggiare all’orecchio una persiana di casa.

Vi dico cosa ci serve? A NOI SERVE UN CELLULARE CON UNA BATTERIA CHE NON SI SCARICHI DOPO CINQUE MINUTI, CHE FAI DUE TELEFONATE E SEI GIÀ AL 9 PER CENTO. Ormai non fai che vedere schiere di gente che gira con il caricabatterie in mano come un rabdomante, che entra dalla parrucchiera e non dice neanche buongiorno. Chiede solo: “Dov’è la presa?”. “C’è solo quella per il phon.” “Allora stacchi il phon e mi attacchi il cellulare, i capelli me li asciughi a fiato.”

Ci sono telefoni in grado di fare qualsiasi cosa, da accendere il riscaldamento di casa a distanza a dirti quanti maschi disponibili ci siano nel raggio di pochi chilometri, ma non hanno ancora inventato una batteria che duri. “Pronto ciao, finita la batteria ti richiamo.”

Poi ti dicono: “Ah con questo telefono puoi vedere anche un film”. Certo. I primi ottanta secondi, poi ti si scarica. Adesso però pare che i ricercatori inglesi dell’Università di Bristol abbiano sviluppato una nuova tecnologia che trasforma la pipì in energia per ricaricare gli smartphone. Si chiama “pila a combustibile microbico” ed è praticamente una pila alimentata dall’urina umana che trasforma la materia organica e i batteri in energia elettrica… Non chiedetemi come perché non lo so. Quello che è certo è che non devi farla dentro al telefono. Tipo: “Scusa, ho il cellulare scarico, vado un attimo alla toilette a ricaricarlo”. E neanche puoi dire: “Scusa, Aldo, ti scappa mica la pipì? Ho solo due tacche”. O anche: “Mamma mia, Ines, quanto bevi… come mai tutta sta sete?”. “No, Marta, è che devo fare un casino di telefonate.”

Chissà… magari verrà il giorno in cui ci saranno i distributori di urina per cellulari, normale e super. Immagina, puoi. Comunque la pila a combustibile microbico è una trovata geniale. Se metti un raccoglitore all’Oktoberfest ci illumini Las Vegas per sei mesi. E questo succede caricando il cellulare solo a pipì, non oso pensare che energia potente si potrebbe ottenere con lo scarico solido. Fai andare una metropolitana.

Comunque. Mi voglio soffermare. Amiche, amici, approfitto di questo istante per dirvi: se si scarica il cellulare non succede niente. Nulla. No panic. Non è come quando si sta per spaccare la fune della seggiovia o vi si rompono i freni della macchina in discesa. Perché adesso funziona così: che se tu guardi il tuo cellulare e vedi la piletta della carica sul giallo è subito ansia. Ti fai tutta rossa come quando ti dicono che tuo figlio ha tre insufficienze e rischia che non lo ammettano alla maturità. E se sei in compagnia cominci a informarti sui buchi degli altri. Chi ha il buco grosso, chi quello piccolo, e tu devi trovare il tuo. La banda del buco. Ripeto. Se il telefono ha la batteria scarica semplicemente non possiamo telefonare. Stop. Così come non abbiamo potuto telefonare per centinaia di migliaia di anni eppure, guarda un po’, ce la siamo cavata lo stesso e siamo qui. Ancora a rompere i maroni all’umanità.

IL CELLULARE RIGENERATO

Ormai la maggior parte dei piccoli elettrodomestici sono fatti per essere buttati al primo guasto. Bisognerebbe far arrivare i pezzi di ricambio dalla Cina come faceva Marco Polo coi bachi da seta, perché li fabbricano lì. E vale la pena, per un frullatore da venti euro? Alzi la mano chi non si è mai sentito dire: “Fa prima a prenderne uno nuovo, le costa meno”. Diciamocelo pure: oggi una lavatrice dura quanto un matrimonio.

I centri di assistenza chiudono a catena. Se per caso hai ancora un televisore vecchio, di quelli a scatolone, che si rompe, ti conviene tenerlo e farci il nido per le cocorite perché ci sono modelli nuovi a basso costo che però, se ci canta dentro Al Bano, dalla vibrazione si smontano.

Si sgonfiano come i soufflé.

Ormai la cultura del “riparare” non c’è più. Scarpe, tostapane, vestiti, ferri da stiro, tutto usa e getta. Non so quante volte mi sono sentita dire dai tecnici che venivano a riparare una lavastoviglie o una lavatrice rotta: “Eh, non le fanno più come una volta!”. E perché, perché non le fanno più come una volta? Semplice, perché in otto anni te ne vogliono vendere tre invece di una. Vermi. Vermi degli abissi. Vorrei che i canarini vi divorassero come ossi di seppia. Manigoldi.

Questa tecnica si chiama “obsolescenza programmata”, e in Francia è un reato punibile con due anni di carcere e trecentomila euro di multa. Bravi francesi. Sempre in Francia, è in corso anche un’inchiesta su alcuni produttori di stampanti, che segnalano come cartucce da sostituire cartucce che invece hanno ancora un bel po’ d’inchiostro. Questa non è solo obsolescenza, è inganno vero e proprio. Infatti io non faccio un plissé anche quando la lucina rossa lampeggia. Lampeggia rosso? Ah sì? E io aspetto il verde come ai semafori. Anzi stampo di più, stampo come una pazza scriteriata, stampo come se non ci fosse un domani, stampo fino a quando le parole non si vedono ma solo si intuiscono.

Ma vorrei tornare un attimo ai cellulari. Perché lì il circolo vizioso è, secondo me, più vizioso ancora. Quando hai un cellulare che non funziona più, e sei in garanzia, lo ritirano, e te ne danno un altro. Bene? Non tanto. Bene ma non benissimo. Perché non te ne danno un altro nuovo! No, entra in scena il “rigenerato”. Il morto vivente. Dead man walking. Ovvero il telefono rotto di un altro cliente che loro hanno riparato. In pratica, passano gli stessi cellulari da un cliente all’altro, aggiustandoli invece di scucire quelli nuovi. Solo che il rigenerato nella grande maggioranza dei casi, e a me è successo parecchie volte, è una grandissima bufala. Non funziona mai bene, perché magari ha un difetto strutturale che salta sempre fuori, come le macchie di umido, le bollette non pagate e i brufoli se pucci il pane nell’unto delle salsicce.

Così ti tocca andare e tornare venti volte dai centri clienti con grande perdita di tempo. Uno sfinimento. Domanda: ma la garanzia non dovrebbe garantire un telefono nuovo di zecca e perfettamente funzionante?

Apro l’ultima parentesi. Giuro. Se ci fate caso, adesso le batterie dei cellulari le mettono interne. Sono fuse dentro. Una volta la batteria era dietro: la toglievi, la sostituivi e il tuo telefono continuava a vivere ancora per un bel po’. Adesso è inaccessibile, se vuoi fartela estrarre devi andare dai tecnici della Nasa. È come se a una macchina mettessero il tappo del carburante tra i pistoni del motore: per fare benzina ti toccherebbe andare ogni volta dal concessionario.

E fateli che durino, sti cellulari! Rimpiango sempre il mio vecchio resistentissimo Nokia dell’Ottocento. Lo uso ancora per piantare i chiodi nel muro.

IL BRACCIOLO

La questione bracciolo. Al cinema, a teatro, in aereo… io chiedo ufficialmente al governo una regolamentazione del bracciolo. Di chi è la priorità acquisita? Si può sapere? Del gomito più prepotente? Puoi tenerli tutti e due tu, e stare come il papa sul trono, o neanche uno e stare con le braccine al petto tutta la sera? Facciamo una regola universale: a me il destro e il sinistro a quello vicino. Voilà. Oppure mezzo bracciolo per uno. Io voglio conoscere i miei diritti. È gara? Appena l’altro leva il suo… zacchete? Perché ci sono quelli che arrivano e… alé. Tutte e due le braccia sistemate. Che a te sale una rabbia atavica, vai immediatamente in fissa, non riesci neanche a seguire il film tanto ti salgono i nervi… E allora aspetti la mossa sbagliata dell’altro. Tipo che appena gli suona il cellulare, fran… gli prendi il posto. Il braccio violento del bracciolo. Poi, però, sei condannato all’immobilità: devi stare fermo come il muro di Trump fino alla fine del film. Io adesso, per risolvere la questione all’origine, prima di andare a teatro mi metto già il Voltaren sul gomito. Preventivo per i lividi. Perché mi conosco. Io combatto fino alla morte.

Ah, ultima cosa. I colpi di tosse nei teatri, non è influenza, è quando cominci a dare al tuo vicino delle gomitate nelle costole.

SPINGERE O TIRARE?

Vogliamo risolvere una volta per tutte l’annosa questione delle porte con scritto “spingere” o “tirare” che sempre, sempre, SEMPRE, spingi quando devi tirare e tiri quando devi spingere? Tu arrivi davanti alla porta, leggi, recepisci l’informazione ma poi sbagli lo stesso. La volta dopo ti ripresenti davanti alla porta, e pensi: devo fare il contrario di come ho fatto l’altra volta, e sbagli di nuovo. Deve essere un bug del nostro cervello. Meno male che sugli autobus ci sono le porte a soffietto, se no sarei sempre a piedi.

Richiesta: nei locali pubblici non possiamo fare delle porte che si aprano in tutti e due i versi, tipo saloon? O rotanti come nel film Grand Hotel? Così uno evita di sentirsi ogni volta un babbione? Ma parliamo anche delle chiavi elettroniche delle camere d’albergo: riesco a infilare sta cartolina in tutti i modi meno che in quello giusto. Di culo, di fianco, al contrario, la infilo troppo poco, ce la schiaffo fino alla radice, ma mai nel modo giusto.

E gli interruttori della luce in casa? Quale difetto neurologico inguaribile ci porta a schiacciare sempre quello sbagliato? Sfilze di minuti a percuotere i tasti come i dattilografi del tribunale, tic tac ti tic ti tac, il tutto corredato da giochi di luce che neanche alla festa di Santa Rosalia. E non è che abbiamo traslocato da poco per cui ancora non abbiamo preso tanto la mano… magari abitiamo in quell’appartamento da anni. Gli studiosi del cervello ci diano una risposta.

LE BIRO COL CORDINO

Mistero della fede. Come mai in banca legano le biro col cordino? Forse perché se no la gente le porta via? Può essere. Ma mi chiedo: e che sarà mai una biro con tutto quello che rubano loro a noi… Vuoi dire che vanno in rovina per una BIC? Cos’è, se ciulo una penna alla Banca Popolare di Vicenza lei perde altri otto punti in borsa?

Mettete il cordino lungo allora. Otto chilometri. Che poi alla chiusura l’impiegato della banca tira tutti i cordini e se le riprende tutte.

Ma quando io vi porto i soldi in banca, li lego con un cordino? Vorrei una risposta. Avrei più ragioni io, di mettere il cordino ai soldi che vi deposito, che voi a mettere il cordino alle biro, scusate.

I FRANCOBOLLI

Fatemi dire due parole su una questione che mi manda ai matti.

Perché, quando vai dal tabaccaio e chiedi un francobollo per spedire una lettera, lui piomba nell’angoscia, tira fuori un librone impolverato che sembra il registro di Scrooge, e comincia a bofonchiare che non ha i tagli da questo o da quello? Possibile che nel 2018 mandare una lettera di carta sia considerata una sofisticata perversione tipo il bondage?

I BOLLETTINI POSTALI

Fino a poco tempo fa i bollettini postali funzionavano così: tu li pagavi, l’impiegato delle poste… frap… ne strappava un pezzo e ti consegnava una metà come ricevuta. Fine. E siamo andati avanti così per anni e anni e bene che ci siamo trovati. Adesso, com’è come non è, il bollettino non lo tagliano più. Lo paghi e te lo ridanno intero. Unico segno di averlo pagato, un timbrino sbiadito in un angolo, tipo quello dei biglietti dell’autobus, che se provi a leggerlo, dallo sforzo oculare non riesci più a mettere a fuoco a lunga distanza per una settimana. Domanda: ma perché? Cosa c’era che non andava nel metodo di prima? Era facile. Bollettino intero: bollettino da pagare. Pezzo di bollettino: bollettino pagato. Invece adesso mi confondo. Arrivo alla posta col bollettino pagato invece di quello da pagare! Ma perché fai così, Stato? Perché speri che io mi confonda? Così mi fai pagare la mora della sovrattassa della bolletta non pagata? Dal tabaccaio è un po’ meglio, perché ti dà lo scontrino. Che però entra nella quarta dimensione dopo il primo isolato. Io mi sono fatta un’idea del perché non ti danno più la bolletta che si strappa. Perché non sono più capaci di fare la lineetta tratteggiata con lo strappo facilitato…

LO STRAPPO

Fammi dire. Una volta la linea tratteggiata era bella, lunga, tosta, riuscivi a strapparla in un colpo solo… strapppp… ed era un momento di estremo godimento. Adesso no. La fanno ma è finta. Si strappa un pochino e poi bon. I bollettini non si staccano più. Nei sacchetti per la cacca del cane ci metti tre ore a trovare dove si strappa, sulle scatole dei corn flakes schiacci il tratteggiato del cartone e non si buca, i sacchi della pattumiera si staccano fino a un certo punto e poi si sfondano perché la linea tratteggiata non è completa. Ma come si fa a vivere senza strappi?

LE FIALETTE DI VETRO DELLE MEDICINE

Succede anche per le medicine. Spendiamo due paroline sulle fialette di vetro delle medicine. Una volta avevano la seghetta. Tu aprivi la confezione, c’era tutta la cartuccera di fialette e lì di fianco il seghino. Tu ti mettevi lì, e come in Fuga da Alcatraz cominciavi a segare finché non si spezzava il collo. Non il tuo, quello della fialetta. Adesso basta. Il seghetto non c’è più. Bon. Sparito. Ora molto più comodo, sul collo della fialetta, c’è solo un orletto bianco… che chiamano “punto di rottura facilitato”. Peccato che l’unica rottura facilitata sia quella dei tuoi maroni. Perché tu premi con forza il filetto, e ciao. Ti dissangui. Perché il filetto facilitato o non si spacca o si sbriciola, e tu ti fai le dita alla julienne riducendoti pollice e indice come una fiorentina al sangue.

Lo capisci subito chi di lavoro fa le punture. Perché ha tutte le dita tagliate. Se le ha ancora! Ma perché le fate così? Per vendere anche i cerotti insieme? Allora metteteli dentro. Scatola di fialette e cerotti allegati con le istruzioni: premere la fialetta nel punto di rottura facilitato, quindi fermare l’emorragia con l’apposito cerotto allegato. Ma perché ci avete tolto i seghini? Perché pensavate che a forza di usarli diventavamo ciechi?

La stessa cosa succede con le fialette che usi per arrestare senza risultati la caduta dei capelli. Lì è ancora più un casino, perché le fialette te le devi spezzare sulla testa… perciò mentre spezzi ti guardi allo specchio e le rompi male, quindi ti tagli, il liquido medicamentoso ti cola ovunque tranne che dove ce n’è bisogno, e in più ti laceri il cuoio capelluto.

Appello. Rivogliamo le seghette. Hasta la seghetta siempre.

GLI ASCENSORI NEI CINEMA

Amo fare le scale. Detestando la palestra, mi sembra un esercizio fisico a costo zero, per cui lo faccio abitualmente senza pensarci. Ma quest’estate, avendo a che fare con una persona disabile, mi si è spalancato un mondo. Come mai la maggior parte dei cinema non ha l’ascensore? È un luogo pubblico, frequentato dal pubblico, e il pubblico non è composto soltanto da esseri umani con la deambulazione facile. È normale che non sia richiesto ai proprietari l’attivazione di un ascensore? Qualche sala ha montato delle specie di montacarichi, ma quelli sono per le carrozzine. Ci sono anche persone che non usano la sedia a rotelle ma non sono tanto in grado di salire rampe e rampe di scale, che al cinema sono quasi assicurate.

La cosa sorprendente è che, se invece vai nei bagni, tutti, senza eccezione, hanno il bagno per disabili. Ma vi rendete conto dell’incongruenza? A cosa mi serve il bagno se poi non posso accedere alla sala? Cioè io disabile dovrei venire al cinema, e pagare il biglietto, solo per pisciare? Io spero che una legge sensata sia fatta al più presto.

P.S. Anche sulle rampette ci sarebbe da dire. Parlo di quei tre o quattro gradini bastardi che stanno davanti alla maggior parte dei condomini prima del pian terreno. Ti dicono: stabile con ascensore. Bene. Io ho il nonno che non cammina, pensi, quindi cerco solo casa con ascensore. E ti metti il cuore in pace. Poi arrivi e trovi i quattro scalini maledetti. Una vera e propria barriera architettonica. Insuperabile. Cosa me ne frega se poi dentro c’è l’ascensore che va fino al nono piano? Se nonno quei quattro gradini non li fa, dentro ci può essere l’ascensore più figo del mondo, che lui non lo vedrà mai!

Ho sentito tanti architetti, dicono che i quattro gradini sono quasi inevitabili. Io non ci credo. Ne ho visti tanti di stabili senza rampette. No rampette no party. Fate degli scivoli. Almeno da un lato.

FREE WIFI

Altro momento di crisi è quello del Wifi. Nello specifico il cosiddetto free Wifi. Cioè il Wifi libero. Quello che c’è nei locali pubblici, o che si trova negli alberghi o sui treni. Che sarebbe una benedizione divina se fosse davvero: libero. Cioè che tu ti attacchi alla rete come al tram e viaggi sereno. Invece sto liberissimo Wifi è una delle cose meno libere che siano mai esistite. Tanto per cominciare, devi compilare un casellario infinito con tutti i tuoi dati: nome, cognome, indirizzo, calco dentale, analisi delle urine, formazione della Sampdoria nel campionato ’92-’93, vincitore di Sanremo giovani 2016, il nome del somaro nell’antichità, tutti gli alberghi dove ha dormito Garibaldi e gli ingredienti di un budino alla vaniglia Elah.

Poi devi inserire la loro password che appunto non è “pippi calzelunghe” o ancora meglio il nome normale del locale dove ti sei seduto a mangiare la pizza, tipo bellanapoli. No, quelli del free Wifi ti sparano sempre password assurde, roba tipo: amoreecapoeiracashassaelunapiena, più una scarica di numeri senza criterio, un paio di maiuscole che corrispondono al nome del proprietario, una minuscola che corrisponde al suo pisello, e la riproduzione in miniatura dell’ultimo tatuaggio di Fedez. Che non riesci mai e poi mai, di tutto il mondo dei mai, a scriverlo giusto. Con la sequenza perfetta e le maiuscole al posto esatto. L’unica certezza è che quando alla fine l’azzecchi è arrivata l’ora di pagare il conto e uscire dal locale. E comunque senti che i gestori sono seccati. Chiedere una password è come chiedere lo sconto sul cappuccino. C’è un bar che come password aveva: se proprio devi, fottiti-43.

Ma che ci vuole? Se avessi un esercizio pubblico metterei un cartello con la password, invece no. La password se potessero te la nasconderebbero nelle brioche.

Diciamolo una volta per tutte: il free Wifi deve essere FREE. Libero veramente. Come cantava Finardi. Che piace ancora di più perché libera la mente. La politica si adoperi perché il Wifi libero lo sia veramente come quello che hanno a Montecitorio. Tanto per capirci.

I NOMI DELLE VIE

I disagi delle persone sono tanti. Possiamo almeno diminuire quelli che ci arrivano gratis? Possiamo fare un po’ più di attenzione quando tocca dare i nomi alle strade, che in Italia ce ne sono di veramente impegnativi? Se vivi in via Cavour, via Roma, via Garibaldi, via Martiri della libertà, sei tranquillo. Ma se ti capita di andare a vivere in piazza della Passera… come la mettiamo? Guarda qua, esiste. È a Firenze! È toponomastica, anzi, in questo caso, topa-nomastica. E va già bene che piazza della Passera è a Firenze e non a Chiavari.

Io vorrei conoscere le persone che hanno il compito di battezzare le strade, e dirgli: Amico. Amico sindaco, amico assessore che di mestiere metti i nomi alle strade… ci pensi quando dai il nome a una via o lasci che i tuoi neuroni si scontrino a flipper quando sei ubriaco? Dimmi un po’ assessorello, tu ci andresti a vivere in via delle Chiappe Perse o via Smezzalaprugna?

Sì perché ne esistono con dei nomi veramente assurdi: per esempio a Cesena c’è via Chiaviche. Ti sembra un nome da dare a una strada? “Cara, stasera ti passo a prendere: dove abiti?” “Via Chiaviche 58!”… Vai a fare la serenata in via Chiaviche, scrivi che il ricevimento di nozze avverrà a casa della sposa in via Chiaviche. E questo è niente, rispetto a una via che si trova a Torre del Greco, in provincia di Napoli, che si chiama: via Lava Troia. Se abitassi lì, come ti sentiresti tutte le mattine quando fai la doccia? Ora io non lo voglio sapere il motivo del nome, ci saranno sicuramente degli avvenimenti storici che lo giustificano, non discuto, ma perché lo deve scontare un poveraccio che lì ci vive?! Allora scusate: se nell’Ottocento in quella via c’era una casa di appuntamenti, oggi come dovrebbe chiamarsi? Via La Davano?

A Roma c’è via Affogalasino e via di Femminamorta: è proprio il caso di dedicargli delle strade? Tra l’altro via di Femminamorta porta al cimitero e, allo stesso tempo, anche al Paradise Sporting Club. Servizio completo. Dipende se prendi a destra o a sinistra. Sempre a Roma, in pieno centro, esiste via delle Zoccolette che potrebbe essere gemellata con via delle Olgettine a Milano, do un’idea nel caso al sindaco Sala. E c’è anche il Conservatorio che ha un nome che è proprio il top. Conservatorio delle pie povere zitelle zoccolette. E minchia… tanta roba… Che poi delle due l’una. O zitelle o zoccolette. No, magari sono diventate zitelle dopo essere state tanto zoccolette. E poi povere chi? Le zitelle o le zoccolette? Sai te? Entrambe da compatire, ci mancherebbe. Una per difetto e l’altra per eccesso di maschio. E soprattutto le zoccolette che strumento suonavano? A fiato di sicuro.

A Palermo c’è piazzetta della Canna, dove può prendere la residenza Eva Henger, a Novara gli amanti dell’horror troveranno via della Possessione, a Umbertide, in provincia di Perugia, si può trovare Strada Bellona sopra e Strada Bellona sotto. E a Casalabate, in provincia di Lecce, c’è via del Pesce Scazzone. Allora. Vuoi chiamare una via col nome di un pesce? Va benissimo, posso dirti anche “bella idea”, ma guarda che di specie di pesci ce ne sono… dall’acciuga allo squalo bianco… proprio lo scazzone? Vediamolo.

Siamo sicuri che si meriti una via? Non hanno mai fatto una via Moby Dick devono farla dello scazzone?

Dulcis in fundo… a Manerba del Garda c’è una via che sfiora il sublime: via del Gazzo! E con questo passo e chiudo.

I DOSSI

Ma parliamo dei dossi. Dicesi “dosso stradale artificiale”, o “dosso rallentatore”, quello strumento progettato per rallentare la velocità dei veicoli nei centri abitati. Bella idea. È giusto frenare le intemperanze automobilistiche dei piloti mancati. Ma adesso scusate se mi permetto. Chiedo umilmente: non è che state un po’ esagerando? Ci sono strade che sembrano tagadà. Tutte un salto e una balza. Un sussulto e uno zompo. Ma non roba da niente. Si parla anche di quindici centimetri! Che se ti distrai un secondo ti sdereni. Tu e la macchina.

Ma li fanno così alti perché se ci arrivi in velocità puoi saltare i pedoni?

Se hai bambini a bordo e passi sul dosso, dallo zompo che fanno, con la testa suonano la batteria contro la capote. Possiamo diminuire la dosseria per favore, almeno nelle strade poco trafficate, e magari mettercela dove davvero le auto pensano di essere nel circuito di Imola?

Avete idea di quante dentiere ingoiano gli anziani alla guida? Si parla di migliaia ogni anno.

I dossi possono essere considerati un’ottima pratica digestiva. Se ti sono rimasti sullo stomaco i peperoni sali sulla Panda e fai il giro dell’isolato. Al terzo dosso sei a posto. Pronta per il pasto successivo.

Persino il ciclista quando si appropinqua al dosso diventa attento. Si alza dal sellino e se ne sta bello su eretto come Coppi sul Tonale. Altrimenti… marmellata di marroni.

IL LAVATESTA

Perché non abbiamo ancora trovato il modo di fare un lavatesta morbido che quelli che ci sono dai parrucchieri sono fatti del materiale più duro che esista in Natura? Che il diamante, al confronto, sembra un cuscino ortopedico? L’altro giorno sono andata a fare la tinta perché ero tipo Crudelia Demon, e ribaltata a faccia in su mi sono chiesta: “Ma come mai scopriamo il bosone di Higgs, tiriamo le sonde su Marte, abbiamo capito che i dinosauri erano di pianta larga, e non abbiamo ancora trovato il modo di fare un lavatesta che non ti sbricioli la cervicale?”. E oltretutto ti devi sedere alla Fosbury, di schiena, con la testa ribaltata all’indietro che sembri Anna Bolena prima della decapitazione.

Ma perché non li fanno di silicone, come gli stampi delle torte? Di gommapiuma impermeabile? Ti dicono: “Chi bella vuole apparire un po’ deve soffrire”… ho capito, ma se devo soffrire così tanto allora alla fine pretendo di essere almeno Sharon Stone! E vogliamo parlare del miscelatore che non riesce mai a far scendere l’acqua a temperatura normale? O ti brasa la testa e ti viene la pelle come quella dei würstel bolliti, o ti si congela e ti rimane dura tipo calzini messi a stendere a gennaio a meno otto? Che poi tra l’altro tu fai tutto sto casino, ti ledi le vertebre cervicali, ti fumi il cuoio capelluto e poi torni a casa e il tuo boy non si accorge di niente. Una mazza. Tu sei uscita mora e torni rossa, sei uscita liscia e torni frisé, sei uscita rasata e torni con delle extension lunghe come liane, lui ti fissa e ti chiede: “Cosa si mangia stasera?”.

LA MUSICA NEI NEGOZI

Perché nei negozi mettono la musica a un volume micidiale, che tu entri e dopo due secondi ti sanguinano le orecchie? Senti proprio le tempie che si crepano e il timpano che esce dalle trombe di Eustachio a chiedere se si può fare meno casino? Prova ad andare in uno di questi negozi tipo H&M, Intimissimi, Bershka… batti i coperchi. Mettono la musica a un volume inumano. C’è un tale fracasso che la cellulite entra in vibrazione e sembra la polenta quando bolle e fa i crateri.

Ma scusate. Io devo comprare una maglia, non trovarmi un lavoro come cubista! Io non voglio un rave, voglio una felpa! Con la musica a un volume del genere per farti capire dalla commessa devi fare i gesti come le signorine del telegiornale per non udenti, o altrimenti parlarle a un centimetro dal naso come dovessi limonarla. Fai prima a mandarle un messaggio. Pensa sti poveri commessi che passano tutto il giorno in un bordello del genere. Secondo me dovrebbero mettersi le cuffie isolanti come i meccanici di Formula Uno.

Mi convinco ogni giorno di più che a lungo andare subiranno una mutazione genetica, verranno anche a loro le orecchie minuscole come quelle di Shrek. Io provo un sottile senso di pena. Vedi ste giovani e belle ragazze rovinate per la vita, che non sognano più il calciatore con la Ferrari ma una baita con la stufa a legna o l’eremo dei Camaldolesi. Dopo otto ore di Bob Sinclar a palla quando devono sussurrare parole d’amore al fidanzato urlano: “Amore ti amo tantisssssiiimooo!!!”.

Se ricevono in regalo uno di quei biglietti di Natale che li apri e parte la musichetta prendono i voti e vanno in clausura. Ma perché fanno così? Vogliono rincoglionire i clienti perché sperano che col cervello in pappa comprino di più? Guardate che siamo già ben bene rincoglioniti da soli. Ve lo dico io. Sappiate che c’è una grande fetta di umani che esce dal negozio e si butta fuori sul marciapiede cercando di salvarsi la vita. Piuttosto compra su internet, o si mette il vestito da sposa della trisnonna morta, pur di non entrare in quella Geenna di musica sparata a mitraglia.

E il profumo? Ci sono certe catene che, oltre a Giuliano Sangiorgi che strilla come se lo portassero a castrare, sparano anche il profumo. Quegli effluvi sintetici che nebulizzati si impregnano ai vestiti e non vanno via neanche se li lavi con l’acquaragia. Ma perché? Io voglio comprare una maglietta normale, non quella di Malgioglio che è scivolato su una pozza di Chanel. A volte passi davanti a sti negozi, che stanno con le porte spalancate anche a meno dieci, così i commessi oltre che sordi diventano bronchitici, e senti dei tanfi pazzeschi, che poi si mischiano con quelli del kebabaro vicino, così si crea l’effetto panzerotto al gusto Calvin Klein… Allora, va bene creare un’esperienza sensoriale a 360 gradi con suoni e profumi, però se proprio devo essere travolta almeno voglio una caipirinha e Gabriel Garko che mi balla la lambada sulla schiena.

IL CHECK-IN

La verità è che ormai sta diventando sempre più difficile portare in aereo qualcosa come bagaglio a mano. Finirà che come bagaglio a mano tra un po’ passerà solo la mano. Oppure la borsa ma vuota. Non si possono imbarcare: bagnoschiuma, deodoranti, profumi, rasoi, spray, pinzette per le sopracciglia. Che io non ho mai capito. Cosa fai? Minacci il pilota con le pinzette? Come fai a dirottare un aereo con il deodorante… che fai, ti avvicini alla hostess e le dici: “Dica al pilota di dirigersi verso Dubai, sennò lo deodoro con l’Acqua di Giò”.

Ma parliamo del metal detector. Sai la serpentina di gente che poi infila la roba nel catino di plastica e passa sotto l’arco? Allora: passi tu e suona tutto. Campanelli, trombette e fischioni. Suona anche il citofono di quello che abita di fronte all’aeroporto. E tu subito cominci a farti il film: “Ecco qua, la gente mi sta guardando, penseranno che questa nel girovita non è pancia ma dinamite”… poi passa quella dietro di te che ha ai piedi gli stivali dei cowboy di Brokeback Mountain, una cintura in vita che neanche Elvis Presley, con una fibbia di ferro che pesa come un’ancora da diporto… niente. Non un frinir di cicala. Nulla. Il silenzio degli innocenti.

Passi tu con in testa una forcina lunga tre centimetri e parte la filarmonica di Vienna. E se dimentichi in tasca la chiave della buca delle lettere? La filodiffusione ti spara a tutto volume “Quando la banda passò nel cielo il sole spuntò” cantata da Mina.

L’ARIA CONDIZIONATA SUI TRENI

Due parole due sull’aria condizionata. Come mai sugli aerei ma soprattutto sui treni è sparata a una potenza in grado di ibernarti in pochi secondi? Ci sono delle escursioni termiche che manco nel deserto. Io non posso salire sul treno a Catania, con una temperatura che sfiora i quaranta gradi, e trovarmi in meno di un minuto a Plateau Rosa. Dài. Mi rifiuto di passare dall’Africa subsahariana alle montagne della Patagonia. Perché ormai è così. Dai bocchettoni esce una tramontana che sembra di essere sul Passo del Tonale. Sali sul treno e in meno di dieci secondi ti si forma la brina sul collo, tipo busta di piselli quando la tiri fuori dal congelatore, e in cinque minuti i piedi ti diventano due calippi.

Almeno fate dei vagoni intermedi di scongelamento prima di scendere, tipo microonde, così lo scarto termico è meno violento. Quello sui treni ormai non è più un viaggio, è una seduta di crioterapia. Aiuta a mantenersi giovani. E se un attimo prima dell’assideramento chiedi al controllore: “Scusi, non si può alzare un po’ la temperatura?”, è certo che lui ti risponderà: “No, non si può. Impossibile”.

Cioè volete dirmi che in treni superveloci, supermoderni e supercostosi non c’è un regolatore di temperatura? Solo on e off? Non ci credo. Nei nostri appartamenti abbiamo il riscaldamento autonomo, possiamo accendere o spegnere la caldaia di casa a distanza, solo con una app del cellulare, in auto abbiamo mille regolazioni di termostato, persino la manopola che ci indica, piedi, fronte, faccia, faccia e piedi, fronte e faccia, faccia e culo che a volte coincidono, e in treno abbiamo solo un unico pulsante che attiva o blocca l’aria fredda?!

Se è davvero così siete scemi, non c’è altro da dire. Avete proprio toppato. Ormai i passeggeri sono rassegnati, viaggiano col passamontagna anche a luglio, pashmine d’angora a tre piazze e mezzi guanti alla Silvio Pellico. Sali sul Napoli-Torino che sei sano, e scendi col mal sottile, i geloni e l’otite cronica. Ma scusa. Ci sono offerte di qualsiasi tipo per qualsiasi prodotto in commercio, migliaia di gusti di gelato, centinaia di modelli di telefono, tonnellate di tipi di scarpe, ferri da stiro, yogurt e bon bon e per l’aria condizionata sui treni solo due opzioni? On e off?

Facciamo così, vi do un’idea: i treni a temperatura variabile. Ogni vagone un microclima. Ognuno da casa si prenota il posto a lui confacente e siamo tutti più felici.

Vuoi battere i denti così forte da spaccare le noci? C’è il vagone coi sedili di brina. Sei in menopausa e lotti ogni giorno con le caldane? Vagone freezer. Sei reduce da una brutta influenza e ti si gelano i piedi anche in spiaggia a Ferragosto? Vagone tiepidarium. Vuoi ustionarti anche se hai passato le ferie a Milano? Prendi il vagone Sahara coi sedili barbecue. Oppure fate così. Aggiungete una nuova opzione di snack. Quando servite gli snack dite: “Dolce, salato o Augmentin?”.