Antonio Canova, il Fidia di Possagno

Sin dall’antichità la pittura è considerata da Plinio la più nobile tra le arti figurative. Leonardo da Vinci eleva la pittura a “discorso mentale”, anche perché l’artista non deve sottoporsi al labor fisico che comporta la scultura e il cantiere nell’architettura: ne esalta la dignità di conoscenza considerandola superiore alla scultura e la colloca tra le arti liberali. Tra le arti figurative non esito a confessare la mia inadeguatezza nell’accostarmi alla scultura. Nel corso di una vita ormai lunga, assai di rado ho scritto di scultura anche se sempre ho visto e ammirato sculture di ogni tempo e in ogni dove. Comunque qualche eccezione c’è e ho vinto questa mia ritrosia quando ho avuto occasione di scrivere di Antonio Canova, protagonista della stagione neoclassica. Paginette inadeguate di certo, ma sollecitate da un libro o una mostra, e ancor più dalla personalità poliedrica di questo grande scultore che mi sembra essere un suggello ineguagliato di un ciclo dell’arte europea. Suggello ineguagliato dicevo, perché dopo di lui la storia dell’arte sarà altra cosa, ma con questo non intendo dire che la sua opera non ebbe le sue rilevanti conseguenze nel tempo. Soprattutto se si guarda ai suoi mirabili bozzetti e alla sua felicissima grafica.

Mi venivano questi pensieri salendo verso Possagno quando si scorgono le colline d’argilla, solcate dalle file ordinate dei castagni, da cui Antonio traeva la materia prima per i bozzetti. Sul fondo baluginano tra le nuvole le creste rosate delle Dolomiti. Il paesino che gli diede i natali è in terraferma, consustanziale a Venezia dove ci sono tanti segni della sua arte. Basta attraversare le sale del Museo Correr, percorrerne le stanze, sostare nel sontuoso salone da ballo per darsi conto di quanto sia stata importante la città e la laguna per la sua arte. Quel continuo dolce oscillare delle acque che la circondano e baciano le nere gondole è parte di un imprinting che il giovane dové sentire profondamente, forse assai più della scuola di nudo all’Accademia, l’attenzione ai calchi nella galleria di Filippo Farsetti o lo studio di originali greco-romani di cui sono ricche le collezioni archeologiche di Venezia. Fu il senatore Giovanni Falier a commissionargli le prime opere: dapprima il marmo del Canestro con fiori e frutta, poi Euridice a cui seguì Orfeo. Negli stessi anni del suo arrivo a Venezia ebbe studio nel chiostro di Santo Stefano nell’omonimo campo, e qui scolpisce il più maturo gruppo di Dedalo e Icaro (1778) – opere tutte al Correr – che acquista Vettor Pisani: il generoso compenso gli consentì di raggranellare quanto bastava per lasciare la laguna e prendere la via per Roma. A essa s’accosta con molte resistenze e preconcetti, perché riteneva che a Venezia c’era già tutto quanto a cui agognava la sua tumultuosa e ferma intelligenza. Malgrado questa burbanzosa intemperanza, qui si compirà il suo destino. Il credito riscosso nell’ambiente veneziano gli apre le porte dell’ambasciata di Palazzo Venezia: Girolamo Zulian non solo ospita questo giovane sconosciuto ma l’inserisce nel milieu più prestigioso della città dominata da Johann Joachim Winckelmann. In questo denso clima non indugia, certo non si distrae e assorbe come una spugna tutto quanto gli può offrire la città: nel 1780 va a Napoli e visita la Cappella Sansevero dove ammira il Cristo velato (1753) di Giuseppe Sanmartino, stupefacente scultura della declinante cultura artistica tardobarocca. Va a visitare il museo provvisorio allestito da Carlo di Borbone nella Reggia di Portici, da cui provenivano i reperti rinvenuti a Ercolano e Pompei, si spinge fino a Paestum. Un breve soggiorno fu quello napoletano ma dagli esiti molto rilevanti nella sua opera. In più riprese ritornerà su questi temi e circa vent’anni dopo la scoperta di queste meraviglie, dipinse una serie di tempere su tela con fanciulle che danzano.

Una fortuna senza confini

C’è da chiedersi come e perché il più cospicuo serto di opere dello scultore di Possagno – ben quindici marmi – sia giunto in Russia: quantunque Canova fosse stato invitato sia da Caterina II che da Alessandro I, mai fece il viaggio a San Pietroburgo. Fu lo zar Alessandro, amico e ammiratore invaghito di Josephine de Beauharnais, moglie di Napoleone, ad acquistare quattro opere alla morte dell’ex imperatrice nel 1815. Esse sono l’Amore e Psiche stanti, la Ebe, la Danzatrice con la mano sui fianchi e il Paride: una quinta, Le Grazie, sulle quali ha scritto belle pagine foscoliane Gianni Venturi, commissionata nel 1813 da Josephine, giunse per altra via con la Maddalena nelle collezioni dell’Ermitage. Il museo possiede l’Amorino alato e l’Amore e Pische giacenti grazie alla mediazione a fine Settecento del principe Jusupov e provenivano dalla Malmaison del principe Eugenio de Beauharnais, figlio unico del visconte Alessandro e di Josephine. L’Ermitage possiede inoltre alcuni busti e teste di assoluta politezza. Questi brevi cenni servono a dire che Canova fu amato e ammirato ovunque, e la sua fortuna non conobbe confini di cultura e di nazioni: la Grande Caterina e Alessandro I, fieri nemici – come Napoleone e Wellington – furono dei devoti ammiratori dell’artista. Il cui genio sembra levarsi in terra veneta come risoluto controcanto alla voga dominante del tardo rococò. Canova annunciava una stagione di cui divenne il più grande e indiscusso protagonista: questo accade a partire da quando si trasferisce definitivamente a Roma. Come già il veneziano cavalier Piranesi trovò nell’Urbe l’ubi consistam della sua arte nel clima arcaizzante del ritorno all’Antico, Roma era certamente il suo luogo d’elezione. Nel 1783 infatti terminò il Teseo sul Minotauro (Victoria & Albert Museum), un’opera in cui già si percepisce un alito nuovo, volto a una dimensione della forma che travalica la tradizione barocca. E in effetti l’unico punto di riferimento che si ha nella scultura italiana per capire fino in fondo Canova è proprio Gian Lorenzo Bernini: così lontani nel tempo e nelle forme, ma pur così autenticamente capaci di attingere alla grande fonte dell’Antico. Nel Teseo sul Minotauro (1783), che gli fu commissionato dall’ambasciatore della Serenissima a Roma Girolamo Zulian, questo guado è esemplato nel mostro trattato con gusto barocco e nell’eroe rivisitato come l’Ares Ludovisi. Nel grande gruppo Canova scelse per soggetto non lo scontro cruento, ma il trionfo etico dell’eroe sulla forza bruta. Mentre la grazia della Danzatrice con le mani ai fianchi è autenticamente originale, per la dolcezza del sorriso, per la movenza del corpo, da indurre a credere che essa possa essere stata scolpita solo dopo che a Ercolano e Pompei erano stati scoperti vasi dipinti con scene di danze e i disegni di questi vasi avevano fatto il giro del mondo grazie al volume di Sir William Hamilton, ambasciatore di sua maestà britannica a Napoli. Roma era così vicina e non ci volle molto perché alcune delle opere più degne giungessero, attraverso le illustrazioni a stampa dello splendido volume Vases and Volcanoes, sotto gli occhi del Canova che poi le conobbe de visu nel viaggio a Napoli del 1780. Bernini dunque, quello di Apollo e Dafne in primo luogo e le silhouette dei vasi pompeiani: al centro di tutto ciò, la lezione e l’ammonimento di Winckelmann, la sobria sapienza di Raphael Mengs, ben oltre dunque la tenebrosa, severa e vichiana romanità di Piranesi. Nelle figure muliebri il marmo è morbido come carne e quasi traspira come pelle, si ha la netta convinzione che Antonio Canova sappia trasformare in dolcezza e grazia quanto di secco e rigido c’era nella dottrina e nell’insegnamento del prussiano che aveva assorbito nella sua definitiva trasferta romana. «Non c’è passione» è stato detto da qualcuno «in queste statue»: ma le passioni più tenaci sono quelle che non esplodono e sono come contenute da un supremo controllo della forma. E di questo supremo e severo controllo Canova fu decisamente un testimone grandissimo: vorrei che si indugiasse sulla Ebe, sulle sue vesti, che sembrano scosse appena dal vento, così come una luce leggera si effonde sul volto di Paride che sembra persino alludere ai grandi giovani della scultura più alta del Rinascimento e del Barocco: da Donatello a Bernini. Questa linea sotto pelle vien fuori in ogni sua opera.

Danzatrice con il dito al mento scomparsa e ritrovata

Capita spesso che in un catalogo d’arte si trovi scritto “collocazione sconosciuta”: perché non si sa in quale caveau sia finita l’opera, in quale esclusivo deposito di museo sia sepolta, quale gorgo della storia l’abbia risucchiata nel suo oscuro grembo. Tale era il caso della Danzatrice con il dito al mento che nel 1835 era partita da Roma con il suo proprietario, l’ambasciatore russo Nicolaj Dmitrievich Guriev, che fu un appassionato collezionista d’arte. Giunto a San Pietroburgo, Guriev certamente collocò l’opera in un posto privilegiato della galleria del suo palazzo: la scultura era seducente e la fanciulla ritratta porta con una grazia ammiccante il dito della mano destra al mento e incrocia le gambe tornite tenendo la destra sollevata da terra in un passo elegante di danza. La straordinaria felicità di questo marmo s’evince pure nel morbido fraseggio che si realizza tra il nudo anatomico e il peplo che lo copre. Il modellato della veste e le trasparenze che si realizzano hanno una sottile carica erotica che è come sottolineata dalla movenza del capo appena girato e reclinato sulla spalla. È un’opera certamente ispirata ai modelli delle pitture di Ercolano e Pompei. Canova, che era a quel tempo uno dei più celebri scultori attivi in Europa, aveva già privilegiato il tema della danza, e il movimento è sempre una sfida per uno scultore, sia con la Danzatrice con le mani ai fianchi che con la Danzatrice con i cembali. Tuttavia la scultura di Guriev la si conosceva soltanto attraverso una copia che il principe di Torlonia si era premurato di farsi riprodurre per la sua galleria a Roma dallo scultore Luigi Bienaimé, un allievo dello scultore danese e romanizzato Bertel Thorvaldsen. Ma una copia, quantunque fedele, è soltanto una copia: anche se essa è stata spesso confusa (e continua a esserlo) con l’originale di cui non si sapeva più che fine avesse fatto. La copia di Bienaimé era in Palazzo Corsini alla Lungara da quando – demolito Palazzo Torlonia in piazza Venezia sul finire dell’Ottocento per la costruzione del Vittoriano – fu donata allo Stato italiano assieme a una collezione cospicua e collocata in Palazzo Corsini sede dell’Accademia dei Lincei. Questo serto di marmi, oggi nella Galleria Nazionale d’Arte moderna a Roma, fa felicemente ala al monumentale ed eroico gruppo canoviano di Ercole e Lica, degnamente sistemato nel nuovo allestimento della galleria.

Ma torniamo all’originale di cui s’erano perse le tracce: Enzo Borsellino, attento studioso di Palazzo Corsini e delle sue collezioni, nel corso di un viaggio a San Pietroburgo nel 1996 lo riconobbe nell’androne di un ufficio postale antistante all’Ermitage ed ebbe subito la cortesia di informarmene. Un ritrovamento che, considerate le vicende che San Pietroburgo ha vissuto come epicentro della rivoluzione sovietica e della seconda guerra mondiale, fu salutato come un piccolo miracolo da molti specialisti: in primis Antonio Pinelli e Hugh Honour, che poi cambiò opinione per non dispiacere gli amici dell’Ermitage che avevano avuto sotto gli occhi la statua da sempre, considerandola una copia russa di modesta qualità. Così non era: Borsellino dedicò uno studio analitico a questa opera, consentendoci di accostarci a essa, attorno cui si sono aggrovigliate nel corso dell’Ottocento vicende umane altamente drammatiche e poco conformi alla leggerezza e all’eleganza del soggetto. La Danzatrice fu commissionata al Canova da un ambiguo e ricco uomo di affari, Domenico Manzoni di Forlì: spregiudicato nei commerci e nella finanza, aveva presto guadagnato una posizione sociale che doveva esser onorata da un’opera d’arte che lo nobilitasse. Infatti aveva chiesto al suo amico, il letterato Pietro Giordani, di scegliere una scultura nell’atelier canoviano. Il Giordani rimase colpito dal modello in gesso della danzatrice. Intanto, ordinato il marmo, Domenico Manzoni aveva disposto che fosse il decoratore e fine pittore Felice Giani ad allestire nel suo palazzo di Forlì una sala in cui collocare la danzatrice. Tuttavia la spregiudicatezza del proprietario non investiva solo i suoi affari: dapprima carbonaro e legato ai moti risorgimentali, aveva maturato nel tempo altri propositi. Certo che la sua Danzatrice, terminata nel 1814, non poté vederla nel suo palazzo, perché prima che fosse consegnata, nel 1818, all’uscita dal teatro della sua città fu assassinato. Sulla sua morte grava l’ombra di un’accusa infamante: essere stato delatore dei suoi ex compagni carbonari. La statua gli era costata ben 4400 scudi e in sovrappiù il Canova, morto il Manzoni, ebbe la commessa dalla vedova del monumento funebre nella cattedrale di Forlì, dove su una stele è raffigurata una donna piangente. Ma le sorti della vedova doverono in pochi anni rapidamente declinare ed essa nel 1830 vendette la Danzatrice all’ambasciatore russo. Guriev fu collezionista di larghe vedute e certamente fiero del suo rango di diplomatico e di amateur d’arte: così ce lo mostra il suo ritratto, oggi all’Ermitage, dipinto da Jean-Auguste-Dominique Ingres che in quegli anni era in Italia e tra i più celebri ritrattisti del tempo. Come la Danzatrice sia finita in un ufficio postale di San Pietroburgo ce lo dice lo studio di Borsellino che, con l’ausilio dei canoviani più solerti e il dissenso di altri, ci narra nei dettagli la storia dell’opera dopo che ebbe lasciato l’Italia. Nelle danzatrici Canova, con ineguagliata maestria, si libera dalla soggezione della gravitas: Canova aveva ben studiato il Laocoonte in Vaticano, aveva letto l’omonimo testo di Lessing e aveva avuto per anni sotto gli occhi le prodigiose sculture del cavalier Bernini in Villa Borghese e non solo.

Tra i capolavori del Museo e Gipsoteca di Possagno, si conservano tutti e tre i gessi originali delle Danzatrici. Il gesso della Danzatrice con i cembali (187 × 80 × 55 cm) fu gravemente mutilato nel 1917, perdendo le morbide braccia che, alzate sul capo reclinato della fanciulla, avevano tra le mani i cembali, piatti cavi originariamente in bronzo da usare a percussione. Canova affidava la trasposizione in marmo ai suoi collaboratori, e su di essa interveniva alla fine nell’intento di rappresentare “la vera carne”. Attorno alle tre fanciulle, ruotò la bella mostra Canova e la danza, a cura di Mario Guderzo, ma la Danzatrice con i cembali fu la vedette della rassegna. Dall’originale in gesso fu tratta la scultura in marmo, eseguita per l’ambasciatore russo a Vienna Andrej Razumovskij, ora patrimonio inamovibile del Bode Museum. Il museo di Berlino per l’occasione della mostra del 2012 consentì che si ripristinasse il gesso originale.

Le tecnologie adottate dai restauratori sono un’eccellenza dell’Italia che andrebbe coltivata e incoraggiata assai più di quanto non accada. Girando attorno alle tre figure muliebri ci si avvede che esse sono delle fanciulle colte felicemente in una danza su un’aia: esse non scendono dal monte Parnaso, non sono dee come Ebe (1796), ancora legata al revival neoclassico e, nella perfezione delle sue movenze, irraggiungibile, come nel bassorilievo della Danza con i figli di Alcinoo (1790-92). Non sono neppure associabili ai sofisticati tableaux vivants che Emma Lyon, nel Palazzo Sessa residenza di Sir William Hamilton, metteva in scena a Napoli per spettatori ammirati come Goethe. C’è piuttosto in esse la grazia spigliata della giovinezza, sono fanciulle gioiosamente spontanee nelle loro movenze, e mi spingerei a dire che Canova – il più grande scultore cesareo del suo tempo – qui sfiora un’aura protoromantica, la stessa che aleggia nel Foscolo delle Grazie e nel Goethe delle Elegie romane. Perché esse non sono menadi sfrenate in danze dionisiache e, nell’inudibile musica che ispira i loro movimenti, risuona l’eco dei loro giovanili anni: «Quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi» dice Leopardi di Silvia. Le gambe e i panneggi del gesso hanno un moto rotatorio che parte dal piede sollevato, mentre le braccia lo bilanciano in virtù della loro disposizione asimmetrica. Il capo reclinato s’accosta alla spalla e lo sguardo volge in basso, mentre tutta la figura si libra da terra in elevazione. Un equilibrio sapiente che alita nell’idea stessa della danza. La storia della scultura l’ha ricamata a modo suo Alvar González-Palacios. Ma del maestro a Possagno si videro anche il gesso del suo busto del 1812 e la testa della Danzatrice con i cembali, attorniati da quaranta tempere e dalle incisioni dedotte. L’ala del museo costruita da Carlo Scarpa è tutta bianca, ha due lucernari in alto: da uno di essi si scorge un edificio attiguo con intonaco rosso che lede l’armonia di questa splendida sala e incombe su di essa. Non potendo demolire l’edificio conviene dipingerlo in bianco e ciò eviterebbe almeno un’assai sgradevole dissonanza cromatica.

Amore e Psiche: scultura e pittura a confronto tra Canova e Gérard

Mettere a confronto due opere dello stesso soggetto quale Amore e Psiche di Antonio Canova e di François Gérard, di uno scultore e di un pittore, è idea felice in sé, ma anche o soprattutto per la specifica e singolare pertinenza del marmo e della tela in oggetto. Lo scultore di Possagno aveva già realizzato tra il 1789 e il 1792 una Psiche stante con una farfalla in mano, da questa prima idea sboccia il gruppo con le due figure giacenti che si abbracciano tra loro. Mentre i due bozzetti, al Museo Correr di Venezia e al Museo e Gipsoteca di Possagno, fissano la prima idea: «rapidissima, striata con la stecca sull’argilla per cogliere un istante della rappresentazione che sarebbe stata sviluppata nel primo modello al naturale ed in argilla», come ben scrive felicemente Mario Guderzo. Dal bozzetto fu tratta la forma per la realizzazione del modello in gesso definitivo, che è nella Gipsoteca. Il marmo, alto 145 cm, ha un’intenzionalità che per la modulata finezza è proprio definire pittorica; come in un inconsapevole specchio, Gérard dipinge una tela il cui modellato è proprio definire scultoreo. Ciò detto, le due opere, accomunate da questo sottile gioco del ribaltamento dei ruoli formali, non hanno nulla in comune nel rappresentare il mito di Amore e Psiche.

Canova a partire dal 1796 per alcuni anni lavorò a questo gruppo su commessa del colonnello inglese John Campbell che aveva incontrato a Napoli, ma l’opera non giunse mai in Inghilterra per la difficoltà del trasporto e fu acquistata dal maresciallo Gioacchino Murat, futuro re di Napoli, che la collocò nel Castello di Compiègne: ed è questo l’esemplare posseduto dal Louvre, mentre la seconda versione con variazioni sul panneggio di Psiche fu commissionata da Jusupov ed è all’Ermitage di San Pietroburgo. Il soggetto di Amore e Psiche risale ad Apuleio, ma Canova nell’iconografia attinse a un dipinto di Ercolano con Fauno e Baccante, e già s’è detto quanto fu importante per lo scultore la visita agli scavi delle città vesuviane dissepolte. Quel che va sottolineato è il pensiero che ispira il gruppo: non è né grazioso né eroico, poetiche congeniali a Canova e al Neoclassicismo, è piuttosto una riflessione sul concetto di anima, cioè “psiche” in greco, che assume le sembianze della farfalla che la fanciulla regge per le ali. Il dio sembra quasi farsi proteggere dalla fanciulla, è visto di profilo e reclina il capo sulla spalla di lei, un braccio la cinge ponendole la mano sulla spalla. L’altra mano di Amore sembra voglia custodire la farfalla che l’amata ha in mano: Psiche è raffigurata frontalmente e c’è un arcano senso di mistero in questo gruppo che s’evince dall’amorosa intesa tra i due che è pura, esaltata questa purezza dalla straordinaria venustas con cui sono modellati i corpi dei giovani. Che il referente sia la statuaria antica è fin troppo evidente.

François Gérard, nato a Roma nel 1770 dove visse fino a dieci anni, aveva madre italiana e sposò un’italiana, ritornò a Roma dal 1782 al 1786, e poi ancora tre anni dopo all’Accademia di Francia, per essersi guadagnato il secondo posto al Prix de Rome, dopo Girodet. A Parigi nel 1786 era stato ammesso nell’atelier di Jacques-Louis David che lo protesse evitandogli la coscrizione e lo considerò sempre tra i suoi allievi più dotati, tra i quali figurano Girodet, Serangeli, Chaudet e Prud’hon, e Ingres che entrò nello studio di David nel ’97. È questo il clima culturale in cui matura Amore e Psiche che viene presentata al Salon del 1798, suscitando reazioni contrastanti. Sylvain Laveissière ce ne dà conto nei suoi scritti, ricordando il tema del primitivismo e la consonanza con l’antico che furono evocati. Quantunque avesse uno studio al Louvre, Girodet si guadagnò da vivere facendo per anni l’illustratore per opere di lusso dell’editore Pierre Didot, assieme ad altri allievi di David, che era il regista di questa prestigiosa collana. Infatti Gérard aveva illustrato lo stesso tema per Les Amour de Psiché et de Cupidon di La Fontaine: ma l’iconografia è assai diversa dal dipinto. I due giovani sono in piedi e si abbracciano con una certa voluttà. Pierre-Paul Prud’hon aveva presentato al Salon del 1793 L’unione di Amore e Amicizia, che è una variazione sul tema, ma in tal caso dio e fanciulla sono seduti e inseriti in un contesto paesistico non esente da reminiscenze rocaille.

Dunque il dipinto di Gérard è l’esito di una ricerca innovativa e nell’iconografia prescelta ha una variazione molto sensibile rispetto al gruppo di Canova: Psiche è seduta su un sasso, Amore si accosta a lei in piedi, le bacia la fronte e ha due vistose ali. La tela, che misura 186 × 133 cm, fu esposta al Salon dell’anno VI nel 1798 e incarna un’idea di bellezza raffinata e sublime, che evoca la pittura rinascimentale. Psiche ci guarda con il suo bellissimo volto di raffaellesca eleganza, mentre il giovane è visto di profilo col corpo reclinato per accostarsi all’amata. In questa tela alita un’intenzionalità metafisica e neoplatonica, così diffusa in età rinascimentale e resuscitata in età neoclassica, vale a dire l’unione dell’anima umana e dell’amore divino. In tal caso la farfalla volteggia sul capo della fanciulla e non è tra le sue mani. La tela, che era stata preceduta dal gruppo di Canova di alcuni anni, esprime originalmente la sottile mescolanza tra una contenuta sensualità e una certa freddezza. La fanciulla è nuda, solo un velo ricopre gambe e bacino, ha uno sguardo sognante. Il paesaggio, in cui sono immersi gli eroi di questo dolce mito amoroso, è idillico, forse con un’inclinazione poussiniana.

L’epistolario specchio di una vita

A leggere le Memorie di Antonio Canova (1864), scritte dall’amico e biografo Antonio D’Este, gli stereotipi dell’artista nato sotto il segno di Saturno ci sono tutti: a tre anni resta orfano del padre Pietro, scalpellino morto a soli ventisei anni, la mamma si risposa e lo affida alle amorevoli cure del nonno Pasino, scalpellino anche lui, e questi lo manda a farsi le ossa in una cava di marmo. Come Giotto pastore e pittore prodigio dipinge sui sassi, il piccolo Antonio modella ancora bambino un leone nel burro alla mensa del senatore veneziano Falier, così dice la leggenda che lo circonda e, come Michelangelo, è allattato dalla moglie di un cavapietre. Dopo l’umile nascita il riconoscimento del precoce talento e, in un crescendo di successi, il trionfo come artista cesareo e diplomatico di rango.

Canova già in vita è infatti un mito, celebrato come il Fidia del suo tempo: ha per committenti Napoleone I, Giorgio IV re d’Inghilterra, lo zar Alessandro I, Carlo di Borbone e Ferdinando IV re di Napoli, Luigi I di Baviera, l’imperatore Francesco II e numerosi pari d’Inghilterra, per non dire dei pontefici romani. I primi due tomi disponibili dell’Epistolario (1816-1817) – quando leggeremo l’opera completa? – curati con impareggiabile maestria da Hugh Honour e Paolo Mariuz, testimoniano la straordinaria qualità dei suoi interlocutori. A contatto con amici quali gli architetti Giacomo Quarenghi e Giovanni Antonio Selva, l’incisore Giovanni Volpato, radicato a Roma con una celebre impresa calcografica e suo sostenitore in impegnativi incarichi. Questi erano tutti parte della diaspora veneziana nel caput mundi. Ma tra i suoi amici e ammiratori come non ricordare gli storici Leopoldo Cicognara e Quatremère de Quincy, i pittori Gavin Hamilton e Pompeo Batoni, Sir William Hamilton, i cardinali Consalvi e Pacca: a loro contatto lo scultore affina il suo sapere e lo elabora alla luce delle pagine di Winckelmann eletto a sacerdote di una nuova religione dell’arte. Molte lettere di Canova sono state assai spesso in esposizione ed è importante riprendere l’indagine sulla qualità della sua scrittura, visto che il maestro era un autodidatta e un illetterato. Sui suoi testi intervengono Leopoldo Cicognara, Antonio D’Este o altri del suo circolo artistico e letterario: la stesura finale e polita dei Colloqui con Napoleone è condotta da Guglielmo Missirini, uno dei suoi primi biografi. Un fine letterato qual è Francesco Bruni ha ben messo a fuoco il rovello di Canova nel tradurre i suoi pensieri in scrittura: «...il silenzio vince sulla comunicazione, la dinamica della crescita concettuale abortita è sottratta al documento, il movimento che porta l’incolto o il semicolto a un primo sforzo di superamento ed elevazione, se si inceppa viene autocensurato».

Nel 1815 a Londra, dinanzi ai marmi del Partenone Canova dirà che essi sono «vera carne», uno stilema che ben definisce la lingua di uomo «incolto o semicolto» che cerca di esprimere i concetti di una teoria dell’arte del quale da autodidatta si fece promotore. L’Antico scoperto a Roma gli apparve in nuova luce quando nel 1781 visita il provvisorio Museo di Portici dove il buon re Carlo aveva riposto quanto veniva tratto da Ercolano e Pompei. C’è a partire da queste esperienze una radicale svolta nella sua scultura.

Il suo primo grande successo è la conclusione del sepolcro di Clemente XIV Ganganelli ai Santi Apostoli nel 1787: partito da un impianto berniniano, Canova lo scarnifica, dispone il papa in alto su un sepolcro e un basamento con ai piedi la Temperanza e l’Umiltà. Il volto ben esprime la personalità di un pontefice che condusse una politica liberale e riformista, scontrandosi con la Compagnia di Gesù. Infatti a commissionare il monumento non fu la Curia pontificia ma la famiglia del papa, e la sede ove fu collocato non fu San Pietro.

L’impaginazione architettonica assume un’assoluta rilevanza nel sepolcro di Clemente XIII in San Pietro dove papa Rezzonico, veneziano anche lui, è in ginocchio orante, ai piedi, su un più basso registro, la Fede e la Morte. Dagli studi mirabili per il monumento a Tiziano deriva il più solenne e innovativo sepolcro scolpito dal Canova. È quello per la duchessa Maria Cristina d’Austria dove il maestro riprende il tema illuminista della piramide, caro a Ledoux e a Boullée. In alto il ritratto in bassorilievo della duchessa, cinto da un serpente che si morde la coda (simbolo di eternità) e retto dall’allegoria della Felicità e da un putto; sotto si apre un oscuro varco verso cui incede la Pietà con l’urna delle ceneri tra le mani seguita da due ancelle; ai lati estremi della piramide, da un lato la Beneficenza conduce alla stessa meta un vecchio, dall’altro il genio del Pianto si appoggia a un leone. Un leone a riposo, forse simile a quello che la leggenda apocrifa vuole avesse modellato nel burro da bambino.

Non v’è dubbio che al tempo dell’Impero napoleonico e della Restaurazione Canova si leva come un gigante capace di interpretare le pulsioni del suo tempo dando vita a un universo mitologico, a una serie di gruppi di giovani che appena si sfiorano, di figure femminili e di eroi che sono espressione di una bellezza in cui la grazia non è disgiunta dal sublime. Ciò nonostante Carl Ludwig Fernow, un filosofo allievo di Immanuel Kant, nel 1806 pubblicava un volume di oltre duecento pagine nel quale s’industriava a demolire l’opera di Canova a maggior gloria del suo amico Thorvaldsen, al quale – per la verità – si possono ritorcere molte delle critiche del tedesco. Fu solo l’inizio di una critica sfavorevole di matrice romantica che ha sepolto Canova per oltre un secolo: salvando a denti stretti solo bozzetti e disegni. L’anatema di Roberto Longhi nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946) è senza appello: «Spogliare il Tiepolo della sua prodigiosa retorica della sua prospettiva spericolata del suo illusionismo scenico era farlo perire nelle sue tasche d’aria fredda, senza più nulla da sostituirgli; era lasciar libero, ma deserto, il campo agli svarioni cimiteriali di Antonio Canova, lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove. Da quel momento, più nulla da fare. E l’arte italiana, per più di un secolo, è finita». Non meno clemente fu Cesare Brandi che giudica le opere canoviane «fossili e repulsive». Insomma se non fosse stato per Mario Praz che da rabdomantico indagatore del Neoclassicismo s’accostò a Canova con la sua spregiudicata intelligenza, per Elena Bassi, per Giulio Carlo Argan e più tardi per Hugh Honour, staremmo ancora a disseppellire il genio di Possagno dal cenotafio nel quale l’aveva rinchiuso l’occhio fallibile di Longhi. Ma si dice – ed è vero – che anche Omero sonnecchia.

L’epistolario di Canova è una lettura di grande importanza non solo per l’arte ma anche per la storia degli anni che visse e lo si vede subito aprendo il primo tomo pubblicato: la lettera è del 3 gennaio 1816 ed è diretta al cardinale Consalvi, segretario di Stato di Pio VII, che gli aveva affidato il delicatissimo compito di portare a Roma le opere d’arte trafugate da Napoleone ed esposte al Louvre. Canova, movendosi con diplomatica intelligenza tra le teste coronate d’Europa, otterrà la restituzione di molti dipinti, sculture, manoscritti sottratti non solo a Roma ma ad altri Stati italiani. E dire che il suo interlocutore francese era Dominique Vivant Denon, fondatore del Musée Napoléon, poi Louvre, che assai male accolse Canova che aveva accettato questo gravoso compito dopo molte resistenze. Tanto male lo accolse Denon che Canova rispose che non era quello il modo di trattare un ambasciatore, al che il vecchio barone Denon acido rispose: «Ambassadeur! Allons donc vous voulez dire emballeur, sans doute!» Lo scultore fece esemplarmente il suo lavoro e si adoperò perché si adottassero provvedimenti legislativi per la tutela del patrimonio artistico: sostenuto anche dal suo amico ed estimatore Quatremère de Quincy che aveva apostrofato aspramente nelle Lettres à Miranda la politica di spoliazione napoleonica.

Canova aveva già dialogato con Napoleone da pari a pari, il papa gli conferì il titolo di marchese d’Ischia, l’imperatore d’Austria l’ordine di Leopoldo, mai concesso a un artista: onusto di gloria Canova visse da benestante, si pagò un segretario, ebbe una bella casa su via del Corso e un ampio studio non lontano. Ricoprì l’impegnativo ruolo d’ispettore delle Antichità nello Stato della Chiesa e scrisse migliaia di pagine. C’è da chiedersi con qualche stupore come trovasse anche il tempo di scolpire la Naiade o la Venere Hope (1817-20) a Ledds o le insuperate metope per il tempio di Possagno: una sorta di Pantheon fuori scala nel minuscolo paesino che gli diede i natali. Ma se questa architettura riflette un ego ipertrofico, le metope sono stupefacenti per la straordinaria finezza del modellato. È significativo che Canova le modellò solo per il proprio piacere, senza alcuna commessa, e quantunque gli specialisti più agguerriti si siano industriati a stabilirne la cronologia, di esse si può dire con certezza che le realizzò negli anni novanta del Settecento nel corso dei suoi non frequenti ritorni alla sua casa d’origine.

Bassorilievi e rilievi

Aggiungo ancora qualche riga sui bassorilievi che mi fanno pensare che davvero Canova fu il Fidia del suo tempo. Tutto qui non può essere più lontano dalla temperie barocca di Roma e rococò di Venezia e più prossimo ad Atene. Essendo problematica la cronologia, dico dei bassorilievi con soggetti attinti dall’Iliade: i temi omerici sono rinvenibili solo nella pittura vascolare a mio sapere e Canova la resuscita dopo millenni. Lo scultore nei suoi rilievi adotta un fondo piano senza alcuna profondità in cui modella le scene: in Ecuba guida le troiane all’altare di Atena (1790-92) la sposa di Priamo è l’unica che ha il capo fieramente levato e, aprendo il mantello in un gesto di pietas, guarda verso l’altare della dea ed è Ecuba, per l’accentuato rilievo, il centro non geometrico ma visivo della composizione. Le troiane che seguono hanno tutte il capo chino in un atteggiamento di mestizia: la sporgenza del rilievo è minima nella parte destra del corteo e s’accentua all’altro estremo dove si leva il trono di Atena. Il pathos della scena non ha nulla del fregio d’origine classica ma esalta la narrazione in una modulata sequenza che è il segno di una resa al destino che incombe su queste donne. Nella Consegna di Briseide agli araldi di Agamennone (1787-90) il bassorilievo è più sostenuto. Fermo restando il fondo piatto, Achille leva il braccio energicamente in un gesto che indica il suo furore: tra i due araldi è la schiava che volge un ultimo sguardo girando la testa verso il suo eroe. Un moto di sentimenti che ricorda il memorabile stiacciato di Orfeo e Euridice del Museo nazionale Archeologico di Napoli che Canova deve (o può) aver visto. Patroclo lievemente accompagna con il gesto delle mani Briseide verso l’araldo che tende la mano sulla spalla di lei: il suo braccio e quello di Achille sono gli unici elementi orizzontali, in una composizione scandita da una sequenza di figure verticali. L’ultimo araldo, che chiude la scena, è a capo chino, quasi mestamente consapevole della crudeltà di questa separazione. Nella Morte di Priamo (1787-90) la scena è contenuta in una formella più raccolta, chiusa da un fronzuto albero sulla sinistra. La modellazione è più sostenuta per il dramma che rappresenta: le donne imploranti si volgono verso il carnefice che brandisce il ferro, il corpo di Priamo è disteso nella fissità della morte e il rilievo è modellato appena, figure di donne seguono in gesti di disperazione, una porta le mani al capo. Nel Ritorno di Telemaco a Itaca (1787-90) la scena in movimento si svolge in tre tempi: Telemaco a sinistra incede verso Penelope, tre ancelle fanno da giunzione tra figlio e madre e sono appena modellate. Una porta scorciata prospetticamente s’intravede appena sulla sinistra e il centro della scena è vuoto, quasi a indicare l’emotiva tensione dell’incontro tra i due. Canova qui sperimenta ancora un’altra soluzione nella compositio ad accentuato sviluppo orizzontale. Nella Danza dei figli di Alcinoo (1790-92) i giovani sono librati nell’aria e un panno forma un cerchio che esalta le movenze del passo a due: ai lati due gruppi di figure che vanno dal rilievo all’evanescenza delle figure più prossime ai danzatori e tra esse c’è un bimbo che leva le mani in una movenza gioiosa. Nella serie ispirata alla morte di Socrate Canova celebra la virtù del saggio e anche la professionalità di Socrate in quanto scultore come voleva la tradizione: una tenda delimita la scena, e dietro la tenda si nascondono i testimoni che accusano il saggio. Questi è al centro, dinanzi a una pedana con due gradini su cui siede il tribunale: ma Socrate leva un braccio al cielo e non si rivolge ai giudici; Alcibiade, il suo allievo prediletto, ha in capo un eroico elmo, è una figura imponente ma del tutto impotente nel fermare il corso degli eventi. In Socrate congeda la famiglia (1787-90) il saggio è in carcere e una finestra con sbarre sta a indicarlo, la figura si replica con Socrate che sfiora con la mano il figlio maggiore per dargli in consegna la famiglia: due donne a capo chino sono disposte tra due bambini, uno dei quali s’aggrappa alla tunica della mamma, l’altro piange portando le mani al viso. Nelle formelle che seguono si consuma il dramma: Socrate beve le cicuta (1787-90) e due gruppi lo attorniano nel suo isolamento, coloro i quali contengono il loro dolore gli sono più prossimi e trattati con un maggiore spessore, oltre sono coloro i quali in un sottilissimo rilievo sono affranti in gesti di disperazione. Altamente drammatica la Morte di Socrate: questi giace supino, uno ne bacia la fronte un altro inginocchiato gli bacia i piedi; tre sottilissime figure attorniano il cadavere, una porta il sudario sul corpo, due sul fondo levano le braccia rivolti verso la salma. Una finestra con sbarre e una nicchia con la ciotola della cicuta sono gli unici segni architettonici che indicano la prigione. Sono il simbolo dell’indifferenza degli ateniesi alla morte del saggio. A questa serie va associata anche la composizione con Socrate che difende Alcibiade nella battaglia di Potidea che Canova donò all’Accademia di San Luca nel 1797, quando ne divenne membro. È una composizione assai impegnata nel quale lo scultore narra un episodio in cui erudizione e sensibilità scultorea hanno una forza cromatica e chiaroscurale rara quantunque tutto sia bianco.

Bibliografia minima

M. Praz, Gusto neoclassico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1954.

G.C. Argan, Studi e note. Dal Bramante a Canova, Roma, Bocca, 1970.

F. Licht, Canova, foto di D. Finn, Milano, Longanesi, 1984.

Alle origini di Canova. Le terrecotte della collezione Farsetti, a cura di S.O. Androsov, catalogo della mostra, Roma, Fondazione Memmo, Venezia, Marsilio, 1992.

Antonio Canova, a cura di G. Pavanello e G. Romanelli, catalogo della mostra, Venezia, Museo Correr e Possagno, Gipsoteca, Venezia, Marsilio, 1992.

E. Borsellino, Una “Danzatrice” di Antonio Canova dispersa in Russia, «Paragone», a. XLIX, n. 19 (579), maggio 1998, pp. 2-29.

A. Canova, Epistolario (1816-1817), 2 voll., a cura di H. Honour e P. Mariuz, Roma, Salerno editrice, 2002-2003.

Canova, a cura S.O. Androsov, M. Cuderzo, G. Pavanello, catalogo della mostra, Bassano-Possagno, Milano, Skira, 2003.

Canova e la danza, a cura di M. Guderzo, catalogo Terra Ferma, Vicenza, 2012.