Attraversarono, senza fermarsi, il grande salone buio e gelido; il caffè veniva servito in quello che un tempo era stato il fumoir, e che conservava qualche vestigia del passato: una chaise longue, un tavolino da bridge e due poltrone Chippendale.
Christophe e Philippe ne bevvero parecchie tazze ciascuno; a entrambi piaceva il caffè nero e senza zucchero, una passione ereditata dal vecchio Bohun, che in vita sua aveva amato solo le cose amare, aspre e forti.
Geneviève accese una lampada da tavolo e cominciò a sferruzzare rapida, leggendo al contempo un libro poggiato sulle ginocchia, come se temesse di sprecare minuti preziosi e irrecuperabili. Di tanto in tanto si interrompeva per lanciare un monito:
«Basta... basta caffè, Philippe, e anche voi, Christophe, finirete col sentirvi male, ve lo assicuro... Che strani gusti avete...».
Poi disse:
«Stasera vostro padre non stava affatto bene, Christophe...».
Christophe, intanto, si era lasciato andare su una poltrona; teneva gli occhi chiusi, il viso era stanco e come invecchiato.
Accese una sigaretta, se la rigirò per un po’ fra le dita, aspirando qualche boccata a intervalli regolari, dopodiché la gettò nel fuoco, si alzò e prese a misurare la stanza a passi lenti e pesanti. Era una cosa che irritava la moglie e il figlio, come del resto lui trovava irritanti i piccoli sospiri involontari che sollevavano il petto di Geneviève e l’ostentata posa indolente di Philippe, sprofondato in poltrona.
Era una tranquilla serata in famiglia...
Alla fine Christophe si fermò davanti al camino e, digrignando i denti nel suo solito tic, protese ora l’una ora l’altra suola verso la fiamma. Quelle grandi stanze erano fredde; bisognava accendere il fuoco già a inizio stagione, mentre fuori le tiepide giornate autunnali scemavano in notti miti, velate di umidità.
Per l’ennesima volta da quando era andata ad abitare nella casa del suocero, Geneviève mormorò rabbrividendo:
«Preferirei di gran lunga un appartamentino moderno di quattro stanze, con il riscaldamento centrale...».
Lasciò la frase in sospeso e guardò con ostilità i vecchi caloriferi che solo da novembre a marzo concedevano i loro parsimoniosi sbuffi di malsano calore. Né il marito né il figlio risposero. Philippe pensava che quando i genitori, riscossa l’attesa eredità del vecchio Bohun (della quale nessuno parlava, benché ci sperassero tutti e tre), avrebbero abitato nell’appartamento dei loro sogni, lui sarebbe stato regista a Hollywood (c’erano parole magiche che gli suscitavano una specie di ebbrezza dolorosa: Hollywood, Santa Monica, Beverly Hills... Non vedeva l’ora... Certo, non serviva a niente lamentarsi... Che vita insulsa, però... Loro, i suoi genitori, si accontentavano...).
Christophe sospirò con aria ironica. A lui piaceva quel vecchio salotto, vasto e spoglio, come del resto gli piacevano tutti i luoghi bui e silenziosi, che esercitavano su di lui un fascino intenso e malinconico.
Intanto Philippe, nel suo angolo, girava con meccanica ostinazione le manopole della radio. Onde sonore attraversavano la stanza, poi si attutivano, trasformandosi in uno strano ronzio, si spegnevano, riprendevano a un volume più alto, cessavano di colpo.
Un’aria di valzer, accordi di violini in lontananza, un discorso pronunciato in una lingua concitata e incomprensibile, che ora si levava tonante, ora sussurrava, perdendosi nelle profondità dell’etere, rimpiazzato dalla voce lenta e profonda dello speaker francese:
«... Pioggia e vento sulle coste della Bretagna. Temperature in diminuzione».
Christophe mormorò spazientito:
«Smettila, per amor del cielo!».
Senza ascoltarlo, Philippe continuò a girare le manopole in tutti i sensi, limitandosi a emettere di tanto in tanto qualche mugolio:
«Uhm... Sì... Aspetta... Un momento...».
Una voce maschile risuonò così chiara che Christophe ebbe un lieve sussulto:
«Possiamo dunque affermare che le nuove generazioni si stanno ribellando all’eccessiva importanza accordata ai beni materiali... I giovani ricominciano ad apprezzare i valori spirituali... Si profila una moda che non tarderà a imporsi: la concezione romantica dell’amore... L’amore, insomma, torna di attualità... Consacrarsi alle gioie dell’amore...».
«Ma ti rendi conto?» disse piano Christophe.
Philippe sollevò la testa e gli rivolse un’occhiata stupita e ironica, come se pensasse:
«To’, allora hanno delle idee anche loro...».
E Christophe gli restituì lo sguardo.
«Viva l’amore» stava dicendo l’oratore.
Geneviève sospirò.
Philippe cambiò di nuovo frequenza. Il discorso si interruppe.
Una sommessa melodia di chitarra e una lontana voce femminile, lieve e appassionata, attraversarono come un volo di farfalle il triste salotto buio e si dissolsero nell’ombra.
«Il concerto di musica spagnola...» disse Geneviève.
Christophe aveva chiuso un momento gli occhi, con un’espressione di muto piacere, ma già Philippe aveva girato la manopola, e subito una sequenza di frasi smozzicate, l’andamento dei prezzi al dettaglio, urla: «... crisi, ribasso, disoccupazione, i contadini dell’Ohio protestano contro la politica di Roosevelt, la Camera approva nuove tasse», tutte quelle grida diverse, mescolate, fuse in un unico insopportabile e sinistro vocio, sembrarono irrompere dall’esterno tra le mura domestiche.
Christophe, esasperato, si alzò e uscì sbattendo con violenza la porta.
Geneviève soffocò uno sbadiglio e stese il lavoro a maglia sulle ginocchia.
«Dodici file di troppo» mormorò contando rapidamente con l’estremità del ferro. «Chiudi la porta, figliolo. Tuo padre l’ha solo sbattuta, e si è riaperta dietro di lui. Mi arriva uno spiffero di aria fredda dalla sala da pranzo» aggiunse rabbrividendo.
Poi sospirò e, a voce più bassa, ripeté ancora una volta:
«Non mi è mai piaciuta questa casa».