VI

Il domestico aprì uno spiraglio della porta di James.

«Il signore desidera mettersi a letto?».

James scosse la testa senza rispondere. Coricarsi, distendersi, perché il sangue gli rifluisse subito in gola aumentandogli il senso di soffocamento?

«Avrò tempo per dormire» pensò. «Tutta l’eternità...».

Il domestico uscì e il vecchio rimase a fissare il fuoco. Si sforzava di trattenere il respiro affannoso: il minimo soffio d’aria nei polmoni risvegliava la tosse acquattata nel suo petto.

«Mi chiedo per quanto tempo potrà andare avanti così...» pensò ancora una volta. «Mi chiedo...».

Nessuno aveva capito che era stata la malattia a provocare, o almeno ad accelerare, il famigerato, incomprensibile crac Bohun... Per vivere come aveva vissuto lui occorrevano nervi saldi e una volontà di ferro, che solo la salute e la giovinezza potevano garantire... Quella febbricola, ogni sera alla stessa ora, quel leggero brivido tra le scapole, la stanchezza, gli sbocchi di sangue, la tosse estenuante, i dolori alla schiena, ai reni, tutto questo l’aveva distrutto, abbattuto... Questo, non gli uomini...

«Ah, se fossi ancora giovane e forte. Non è vero che i tempi sono cambiati... La crisi, la mancanza di soldi, tutte sciocchezze... È una generazione di incapaci, quella di oggi, ecco la verità... Io... Ma ormai provo solo un’indifferenza mortale... A che pro, buon Dio, continuare a battersi, per sei mesi, un anno al massimo?... Mica ci si può comprare un cuore nuovo, dei polmoni nuovi... E in ogni caso... Ho sperimentato tutto, vissuto tutto» pensò ancora con una sorta di orgoglio amaro. «Tocca ad altri, adesso, ad altri... Cedo volentieri il passo... Sono stanco».

Il fuoco si stava spegnendo. Con gli occhi socchiusi, James Bohun contemplò per un po’ le braci rosseggianti; i vecchi rivestimenti di legno scricchiolavano piano nel buio.

Bohun tese il braccio e tastò automaticamente il tavolino preparato accanto a lui, la scatola delle pillole per placare la tosse... per attenuare quella terribile sofferenza, quella sensazione di piaga aperta nel petto. Si portò la mano alla gola con precauzione.

«Mio padre è morto così,» pensò «e anche mio fratello...».

Ricordò la piccola bottega di cambiavalute nel porto greco dov’era nato, la strada angusta, fiancheggiata da taverne e bordelli per marinai. La casa paterna, con la traballante veranda di legno, l’assito da cui, appena qualcuno vi poggiava il piede con un po’ più di forza, si sollevava una nuvola di polvere... E nel cortile, quel pioppo rinsecchito che ondeggiava al vento d’autunno emettendo strani gemiti cavernosi... Bohun inclinò leggermente la testa, sforzandosi di rievocare il rumore della tosse di suo padre, quella tosse che di notte echeggiava in tutta la casa... Gli affiorò alla memoria una immagine remota... Lui e i suoi fratelli, bambini, coricati nella stanzetta dal soffitto basso, la candela accesa sul davanzale della finestra, la fiamma oscillante al vento, una vela bianca che passava lenta sull’orizzonte, illuminata dalla luna piena, splendente nelle tenebre come un fiore fulgido e delicato... Il pavimento a piastrelle, le grida soffocate che provenivano dal locale di fronte, frequentato da prostitute e marinai ubriachi... E, sopra la sua testa, il rumore dei passi e della tosse del padre, mescolato al tintinnio delle monete...

Sua madre... Una levantina dal viso coperto di cipria, deturpato dal grasso, nel quale però scintillavano, tra le pieghe di carne, occhi simili ai suoi... Christophe non assomigliava affatto alla nonna, né a lui... Aveva ereditato i lineamenti della madre. Era biondo come lei. Da bambino aveva il suo stesso volto delizioso. Ora... Che tipo strano!... «Se mi avesse dato ascolto...» pensò il vecchio James. «Ma lui ha sempre preferito starsene in disparte, condurre un’esistenza vuota...». Che cosa voleva ora?... Oh, Signore!... Essere giovane come lui, sano come lui, con il cuore e i polmoni saldi, il sangue ardente nelle vene, e non essere capace, non avere neanche voglia, di diventare il più ricco, il più potente degli uomini... Una potenza ingannevole, forse, ma così inebriante... Pensò a suo fratello, il padre di Murielle... Lui sì, se non fosse morto... Con il suo fervore giovanile, il suo impeto... Ma se n’era andato, senza lasciare figli maschi. Restava soltanto Christophe, quell’estraneo, che non amava nulla di ciò che aveva amato lui: né gli affari, né il gioco d’azzardo, né le donne. Il giovane Philippe era solo un borghese, un Courtenay...

James Bohun si chinò in avanti, con un movimento più energico. Nel profondo del cuore non gli aveva mai perdonato quel matrimonio. Eppure non si era neanche sognato di impedirlo. Grazie a Dio, Christophe era grande abbastanza. Ma andare a invaghirsi di una borghesuccia, di una creatura placida e insignificante che doveva avere nelle vene un sangue non più caldo di quello di un pesce. Fedele?... Devota?... Certo... Ma a che giova la fedeltà di una donna?... Il suo affetto serve solo a infiacchire l’uomo, a indebolirlo. James pensò alla madre di Christophe, che l’aveva lasciato molto tempo prima, e che era morta lontano da lui. Lei sì... Sospirò:

«L’ho amata, sì, ma non me ne vergogno... Era bella, aveva un viso incantevole, un corpo perfetto...».

Un tempo, prima della guerra, quando entrava al suo fianco in un salotto londinese o parigino, dove lo ammiravano da lontano, come un re misterioso, malvagio... (Da non crederci, si aspettavano quasi di vedere tracce di sangue sulle sue mani, per via di certe vecchie storie sul rialzo dell’acciaio alla vigilia della guerra del Transvaal... Un mucchio di frottole, di fandonie... Ma a lui era sempre piaciuto circondarsi di quell’aura... Del resto, grazie a Dio, era sempre stato consapevole che con la pietà e con l’amore non si raggiungono grandi risultati a questo mondo... Ma solo lui sapeva fino a che punto, nelle vicende umane, è la vita stessa a condurre il gioco... Che credessero pure alle leggende: i padroni della terra... Meglio così). Quella donna... Sì, quando entrava nei salotti con quella donna al braccio, tutti si giravano a guardarla mormorando: «Com’è bella...». Per di più, nelle sue vene scorreva quell’antico sangue spagnolo, così fiero, che lui aveva comprato a suon di milioni...

«Ma forse hanno ragione loro... Forse il nostro tempo è finito...».

Aveva smesso di leggere i giornali a causa di tutti quegli scandali ignobili, quei processi, quei tracolli privi di grandezza in cui sprofondava a poco a poco l’alta finanza internazionale... Rimaneva solo il piccolo cabotaggio, ormai, e anche quello era minacciato dall’ondata di miseria che si abbatteva sul mondo, un’ondata di miseria e di mediocrità... Lui era già così lontano, così distaccato da tutto, così vecchio da non avere più neanche nemici: poteva guardare con pietà quelli che colavano a picco. Del resto, aveva sempre pensato che il mondo fosse abbastanza grande per tutti... Di certo abbastanza grande per lui... Carbone, grano, petrolio, acciaio... L’acciaio, soprattutto, che gli aveva fruttato un patrimonio immenso, e che l’aveva mandato in rovina... Sì, nel 1925... L’acciaio immagazzinato in previsione di un possibile conflitto... La piccola agenzia Beryl, dal nome del suo uomo di paglia, l’impresa che lui, James Bohun, aveva fondato durante la guerra «per rendere più proficua l’azione politica ed economica francese all’estero», l’Agenzia di informazioni Beryl, creata da lui e destinata a diventare forte e autorevole, nonché, ovviamente, aggressiva, l’aveva aiutato non poco a fomentare quel clima di malessere e di tensione in cui le guerre scoppiavano come incendi spontanei in una foresta sotto il sole infuocato dell’estate... Il Medio Oriente, l’Inghilterra, la Francia... Sì, le cose filavano lisce... Solo che, nel 1925, nessuno voleva un conflitto bellico. Andava tutto così bene... C’erano soldi a volontà. Bastava allungare la mano. Tutti erano ben pasciuti, contenti e tranquilli. A nessuno veniva in mente che non sarebbe durata, che solo le guerre potevano impedire la saturazione del mercato dell’oro, e che, sopprimendole, ci si limitava a rimpiazzare la morte violenta con una graduale asfissia... Lui, comunque, aveva fatto male i suoi calcoli... Si era sbagliato di parecchi anni... E nonostante tutto si era intestardito... In fondo, che il suo acciaio servisse a fabbricare cannoni o tosaerba per lui era indifferente. Ma la cosa più terribile, in questi casi, è che, una volta imboccata una strada, bisogna percorrerla, costi quel che costi, fino in fondo, tenendo gli occhi aperti... La guerra non era scoppiata; il prezzo delle materie prime era crollato... Alla fine del 1925 le Società Bohun registravano un deficit di quattrocento milioni.

A quel ricordo Bohun aggrottò la fronte. Serbava nella memoria le immagini dell’ultima assemblea generale, gli insulti di quelli che, naturalmente, dovevano a lui la loro ricchezza, il terrore dei complici, come Beryl, compromessi nell’impresa... La solita marmaglia... Lui, che da mesi ormai parlava a fatica, non aveva sprecato le sue forze né la sua voce per rispondere. Si ricordava la sala grigia, il crepuscolo estivo al di là dei vetri, il sangue che gli rifluiva in gola mentre ascoltava in silenzio le grida furenti: «Traditore!... Ladro!... Criminale!... Mercante di carne umana!...».

Così piangevano il loro caro denaro inghiottito dal crac... Parole, schiamazzi inutili... Tutti, tutti quelli lì almeno, sapevano che gli uomini d’affari non determinano né la rovina né la guerra (sarebbe davvero troppo comodo...), ma si limitano ad assecondare l’andazzo del mondo. La prova? Per una volta che aveva davvero tentato di scatenare una guerra tra la Francia e l’Inghilterra, mentre il vento dell’opinione pubblica spirava nella direzione opposta, non c’era riuscito... Li lasciava gridare. Ma lui era uno straniero, un uomo senza radici, un Heimatlos, e poteva permettersi di lasciarli gridare. Lui non si era fatto naturalizzare, come Beryl... Non pensava alla politica, come Beryl, quel robot... Lui non diceva: «Noi latini...». Sorrise.

La vecchia pendola verde, ornata di fiorellini d’ottone e tartaruga, rintoccava piano nel silenzio. Bohun sistemò con gesti automatici gli oggetti sul tavolino: l’astuccio degli occhiali, il flacone dei sonniferi, le carte, la scatola di metallo che custodiva le chiavi. Tirò fuori queste ultime, se le rigirò in mano, come riflettendo, poi si sollevò a fatica dalla poltrona e mosse qualche passo nella stanza, appoggiandosi alla parete. Di tanto in tanto era costretto a fermarsi, gli mancava il respiro, ma ogni volta riusciva a soffocare l’accesso di tosse... La cosa più terribile, infatti, erano proprio quelle crisi. Di solito non soffriva molto. Ma quando si scatenava la tosse era come se gli si squarciasse il petto. Alla fine giunse alla scrivania, si lasciò cadere su una sedia e aprì i cassetti l’uno dopo l’altro.

Nel 1925 i suoi debiti personali ammontavano a quaranta milioni, che erano andati ad assommarsi al deficit delle società. Se fosse stato solo, non si sarebbe mai abbassato a chiedere un soldo per sé. Ma c’era Christophe, con tutta la famiglia. E quel brav’uomo di Beryl, anche lui coinvolto nella vicenda, aveva dovuto chinarsi ai voleri del suo ex capo... Non era certo gente coraggiosa, quella. Per qualche istante rivangò in silenzio cupi ricordi, poi si rabbuiò in volto e scosse la testa. Finire come un vecchio ricattatore, lui, James Bohun!... Per la rendita mensile che gli passava quella canaglia tremebonda di Beryl, per il posto da impiegato che era stato concesso come una elemosina a suo figlio, e che avrebbe permesso a Christophe, anche dopo la morte del padre, di non crepare di fame... Il vecchio non esitava ad ammettere con se stesso che, piazzando Christophe negli uffici di Beryl, si aspettava ben altro... Ah, se fosse stato al posto del figlio... Ma non c’era niente da fare... Decisamente Christophe non gli somigliava.

Ancora una volta, sfiorò con un fremito una busta sigillata che conteneva documenti. Nomi, date, cifre esatte: aveva annotato tutto, scritto tutto. Dopo la sua morte, Christophe avrebbe aperto il cassetto. Se sperava in una ricca eredità sarebbe rimasto deluso, ma in compenso avrebbe rinvenuto quelle carte che, in mano a un uomo giovane e forte, valevano una fortuna. «Se non vuole capire, affari suoi...» mormorò il vecchio Bohun con una rabbia sorda. «Io non posso fare nient’altro per lui!...».

E ancora una volta si sorprese a fantasticare di trovarsi al posto di Christophe e di avere in pugno quelle carte... «Nonostante tutto, è mio figlio...». Ma rivide il sorriso, lo sguardo indifferente di Christophe. «È sempre stato un mistero per me... Ma non andrò certo a raccontargli queste cose... A che pro?... Io non sono mai stato bravo con le parole» pensò ancora. «Del resto, non mi interessa... È strano... Da quando ha fatto quello stupido matrimonio, non lo riconosco più... Un estraneo... Non ha mai amato, né capito, ciò che amo io... Un certo gusto della vita, una particolare qualità aspra e intensa dell’esistenza... Tutte cose che lui ignora... Che generazione... Debole, pigra, mediocre, pusillanime... Forse noi ci siamo già mangiati tutto... E forse loro hanno i denti allegati» mormorò. Ripeté lentamente, sottovoce, con un sorriso: «I padri hanno mangiato l’uva acerba e i denti dei figli si sono allegati... Può darsi... Alla fine, peggio per lui, che si arrangi...».

Chiuse con cautela il cassetto, si alzò e riattraversò la stanza in senso inverso; rimase un momento in piedi davanti al camino spento, poi, con un profondo sospiro, si lasciò cadere sulla poltrona e riprese a tossire, ad attizzare il fuoco, a rivangare la sua vita passata.