XVII

Quella notte, mentre era immerso in un sonno particolarmente profondo, Christophe sentì una voce ansiosa che gli sussurrava qualcosa all’orecchio; sulle prime quel parlottio si mescolò a ciò che vedeva in sogno: un confuso reticolo di strade e delle chiesette chiare, inondate di sole, dove gli uccelli cantavano appollaiati su alti banchi di legno e leggii antichi.

Poi si svegliò e riconobbe Terence, il domestico di James, in piedi accanto al letto. Geneviève dormiva ancora: si sentiva il suo respiro regolare nel silenzio. Christophe fece segno al domestico di uscire e si vestì, al buio, senza far rumore. Batteva i denti: la casa, di notte, con tutti i camini spenti, era gelida. Il cuore gli pulsava così forte che dovette fermarsi un istante; si mise istintivamente una mano sul petto, come per evitare che gli balzasse fuori.

Era agitato da un sentimento di terrore e di pietà.

«Accadrà stanotte, Dio mio...» mormorò con voce soffocata.

Stanotte... In questo momento, forse... Bisognerebbe essere là, chini sul letto, per raccogliere le ultime parole, l’ultimo respiro...

«A quel vecchio, di cui attendo la morte con tanta impazienza, io voglio bene...» pensò.

Uscì dalla camera e seguì il domestico, che era rimasto ad aspettarlo in corridoio. Attraversarono il salone ed entrarono nella stanza del malato. James Bohun era seduto sul letto; aveva appena avuto un accesso di tosse e tremava come una foglia, senza riuscire a riprendere fiato. Un filo di sangue gli colava dalle labbra contratte.

Il figlio gli si avvicinò, con gli occhi spalancati da un involontario terrore, e scostò i vecchi cortinaggi di reps rosso granata che circondavano il letto. La luce di una lampada rischiarava alcune carte in disordine e il torace nudo di James, che appariva di una magrezza spaventosa. Nella stanza aleggiava un odore di alcol mentolato e di etere.

Christophe rimase in piedi, immobile, davanti al padre. James non parlava; le sue dita arrotolavano con un movimento meccanico i lembi della sottile camicia di seta, tutta gualcita, e poi tornavano a lisciarla; gli occhi, accesi di febbre, profondi, incavati, di un nero liquido e ardente, spiccavano sul volto pallido, che sembrava del tutto esangue. Scorgendo il figlio, gli indicò il petto con un gesto fiacco.

Abbozzò anche un vago sorriso tirato, in cui c’era un po’ di ironia, un po’ di amarezza e forse, per la prima volta, una muta richiesta di pietà, di aiuto. Christophe si irrigidì e chiese al domestico:

«Ha telefonato al dottore?».

«Sì, signore».

Christophe mosse qualche passo verso il padre e gli prese la mano scarna, bruciante, dalle unghie livide. Ma James lo respinse con garbo.

«No. Soffoco!».

Il figliò si avvicinò automaticamente al camino e tese le dita intorpidite verso la fiamma.

Da lì, girandosi un po’, vedeva riflesso nello specchio il viso del padre, smunto, emaciato, con i capelli argentei e i grandi occhi febbricitanti. Lo sentiva respirare in modo strano, un sibilo affannoso che echeggiava in tutta la stanza.

«Non sarà... il rantolo dell’agonia?...» si chiese con un tuffo al cuore.

«Ma no...» pensò un momento dopo. «Non è ancora il momento... Come può essere in punto di morte una persona che riesce a parlare, a sorridere?».

E subito avvertì più forte la stanchezza e il freddo, lo spiffero che arrivava dalla finestra. Trascorse così quasi un’ora. James rimaneva immobile, piegato in due, continuando a respirare in modo strano e preoccupante; a intervalli regolari si portava il fazzoletto alla bocca, e ogni volta lo ritirava sporco di sangue fresco. Chinava sempre di più il capo. Di tanto in tanto gli sfuggiva un sospiro rassegnato. Come in un sogno, Christophe udì i passi del medico che si avvicinavano. Erano le quattro del mattino. Christophe, che non si era mosso, aveva le dita gelate dal contatto con il marmo freddo del camino. Il medico fece qualche domanda sottovoce, poi asciugò delicatamente, con un panno di lino, la fronte di James coperta di sudore.

«Un po’ di pazienza, caro signore, non è niente, le passerà presto...».

Era un tipo mingherlino, con l’occhialetto e la barba nera. Guardava Bohun con compassione:

«Le assicuro, caro signore, che non c’è nulla di allarmante. Se vuole, possiamo fare una puntura per alleviare il senso di oppressione. Va bene?».

James alzò lentamente le spalle, sussurrando:

«Sì».

«Vado a scaldare l’acqua» mormorò Christophe.

Passando davanti al medico, lo interrogò con lo sguardo, e quando vide che si girava dall’altro lato con un sospiro capì.

Andò in cucina, dove l’acqua era già sul fuoco, e si versò una tazza di tè amaro e forte, che mandò giù ancora bollente. Non riusciva a dominare il lieve tremito che gli agitava le membra.

Tornò nella camera del padre e si sedette in una poltrona accanto al letto; il medico sbadigliava nel suo angolo, sul punto di assopirsi.

Trasalirono tutti e due, sentendo la voce di James:

«Non ne ho più per molto, ormai...».

«Papà...» mormorò Christophe con un improvviso groppo alla gola.

James sorrise. Il figlio si avvicinò a guardarlo, stupito, pensando a una involontaria contrazione dei muscoli facciali. Ma no, era proprio il sorriso che conosceva, beffardo e stanco.

«Kit...».

Il vecchio fece un gesto, come per sfiorare con le dita brucianti la guancia del figlio. Ma questo accenno di carezza parve affaticarlo oltre misura. Lasciò ricadere la mano, e le lunghe dita presero ad agitarsi nel vuoto, piegando e ripiegando il lembo del lenzuolo con un movimento lento e meccanico. I suoi occhi, spalancati e febbrili, fissavano Christophe, ma sembravano cercare dietro i lineamenti del figlio un segno misterioso, che solo loro due potevano decifrare. Un filo di sangue scuro ricominciò a colargli dalle labbra socchiuse, lungo il viso cereo.

Il dottore taceva. Si udivano soltanto il crepitare del fuoco e il ticchettio dell’orologio.

Christophe, smorzando istintivamente la voce, chiese:

«Soffri molto?».

«No».

«Desideri qualcosa?».

«No, niente» mormorò il vecchio con indifferenza.

Poco dopo, con la stessa espressione impenetrabile, si lasciò fare l’iniezione dal medico. Parve addormentarsi; solo il petto gli si sollevava con un rantolo sordo e incessante, ma i lineamenti erano sereni; di tanto in tanto contraeva le labbra in una lieve smorfia di sofferenza.

Christophe, seduto accanto a lui, se ne stava immobile, con la testa fra le mani. A un tratto fu scosso da un secco singhiozzo. Si alzò e corse fuori dalla stanza.

Camminava in linea retta attraverso l’appartamento, senza una meta precisa. Passando accanto al guardaroba, scorse Terence, il vecchio domestico al servizio di James Bohun da molti anni, che ispezionava con una torcia gli scaffali di un armadio mezzo vuoto. Dopo aver cercato a lungo, il domestico finì col tirar fuori un pigiama bianco, che dispiegò con cura.

Christophe rabbrividì e si affrettò ad aprire la porta del salone, dove trovò il figlio seduto accanto al grammofono acceso. L’apparecchio era circondato da un muro di cuscini che lasciava filtrare solo un suono fievole, attutito, come un lamento soffocato.

Philippe, in pigiama, a piedi scalzi, si teneva la testa spettinata fra le mani e canticchiava dondolandosi da un lato all’altro.

«Sei pazzo?» disse seccamente Christophe.

Il ragazzo, senza rispondere, fermò il disco e si alzò.

«Che diavolo ci fai qui?» domandò il padre.

«Ho sentito dei rumori» mormorò Philippe.

Tese la mano facendo schioccare le dita e chiese nervoso:

«Hai una sigaretta?».

Aspirò con avidità qualche boccata. Christophe notò che gli tremavano le labbra.

«Lo sai che il nonno sta morendo?».

«Lo so» disse Philippe in tono indifferente.

Ma era pallido e aveva negli occhi una strana espressione. Christophe provò nei suoi confronti una improvvisa solidarietà, mista a compassione. Gli si avvicinò. Philippe si girò verso di lui, guardandolo a sua volta con insolita gravità.

Christophe, con un gesto goffo e imbarazzato, gli diede un buffetto sulla guancia.

«Ti dispiace?» chiese d’impulso.

Philippe scosse la testa:

«No...».

E dopo un momento di riflessione, con le labbra contratte in una lieve smorfia di disgusto, aggiunse:

«Per uno che ha vissuto come lui, morire così... è... è stupido...».

«Sì» disse Christophe.

«Papà...» attaccò Philippe, ma ammutolì subito.

«Nemmeno lui» pensò Christophe «riesce a dolersi...».

«Che cosa c’è, figliolo?».

Le guance di Philippe si imporporarono in un modo che Christophe conosceva bene: anche lui arrossiva penosamente allorché una parola inopportuna tentava di mettere a nudo i suoi sentimenti più intimi.

«Vede la morte per la prima volta. È una cosa che non si dimentica. Se la ricorderà per sempre, questa notte...».

Padre e figlio si osservavano in silenzio, con uno strano pudore che bloccava le parole in gola.

A un tratto Philippe alzò le spalle e disse con foga:

«Non gli ho mai voluto bene. Non mi importa se muore».

Il tono aspro e veemente stupì Christophe, abituato alla fredda impassibilità del figlio. E infatti Philippe tentò subito di riprendersi: cacciò fuori in modo ostentato una nuvola di fumo e mormorò con enfasi beffarda:

«Non ci fare caso, papà... Sono un po’ turbato per questioni personali, che non hanno nulla a che vedere con la fine terrena del grande finanziere. No, non gli ho mai voluto bene. Una persona come lui ha il dovere, almeno verso se stesso, di non andarsene sconfitto. Ciò nonostante, sono sorpreso, dolorosamente sorpreso...» aggiunse, sottolineando le parole, come se ne valutasse la banalità, l’inadeguatezza, e le pronunciasse solo con ironia e consapevole distacco «... sono sorpreso da questo evento ordinario e al tempo stesso spaventoso che vedo per la prima volta. La morte è...».

Si interruppe, guardò il padre e disse:

«Magari, invecchiando, ci si abitua... D’altra parte, tutte le emozioni sono destinate a smorzarsi...».

«Io sono avvezzo alla morte. La guerra ha avuto almeno questo di buono».

Trasalì sentendo il figlio mormorare:

«Ah già, è vero, tu hai fatto la guerra, sei stato fortunato...».

«Sei pazzo, figliolo».

Philippe scosse la testa:

«No, te l’assicuro, ti invidio. È un’esperienza che, tutto sommato, ti scuote i nervi. E poi pensare alla morte non è certo una cosa allegra, ma la vita, la vita di oggi, è un tale orrore!».

«Sei dunque infelice, ragazzo mio?» chiese Christophe sottovoce. «Alla tua età?».

«Diamine, ti pare divertente? Temere sempre di restare senza lavoro, sacrificare la propria vita all’ingrato compito di guadagnarsi il pane quotidiano... Lo trovi divertente? Credi di capirmi? La vostra era una generazione angosciata» aggiunse con un sorriso di scherno. «Ah, beati voi! Noi non siamo angosciati, siamo furibondi».

«Vi passerà» disse Christophe con voce spenta.

«Tu non capisci. Sei troppo anziano, papà».

«Pensi che un vecchio barbogio di quarantatré anni abbia bisogno soltanto di una sedia a rotelle e magari di un sudario?» chiese Christophe sforzandosi di scherzare. «Grazie tante, figliolo».

Ma Philippe non lo ascoltava più. Sospirò rabbiosamente:

«Avere diciott’anni, intuire che la giovinezza è preziosa, insostituibile, e lasciare che le preoccupazioni, la mancanza di soldi la avvelenino... È rivoltante, è ingiusto... Eppure non è colpa mia se tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta si ottiene a suon di quattrini...».

Tacque e riavviò distrattamente il grammofono.

«No, ragazzo mio...» disse piano Christophe. «Lascialo morire in pace... Ha sofferto del nostro stesso male; non ha avuto più serenità, più pace interiore di noi. Abbiamo tutti e tre lo stesso sangue...».

«Può darsi...» commentò Philippe.

Christophe tese la mano con l’intenzione di accarezzare, come un tempo, i capelli del figlio. Ma appena sfiorò la superficie coperta di brillantina, ritrasse di scatto le dita e disse con un sorrisino forzato:

«Vuoi ancora un po’ di bene al tuo vecchio padre, figlio mio?».

«Sì, sì...» rispose senza convinzione Philippe.

Christophe chinò la testa e uscì dalla stanza. Gli sembrava di essere andato a sbattere contro un muro.