XX

Dopo averle rilette per l’ennesima volta, Christophe appallottolò stizzito la lettera e la lista. Era seduto nel suo ufficio della Beryl. Per lui era l’ora morta, quella di fine giornata. Nella stanza a fianco qualcuno continuava a gridare: «Pronto! Pronto! Parlo con Clermont-Ferrand?». L’agenzia echeggiava di passi, voci, porte sbattute, e in sottofondo si sentiva il ticchettio delle macchine per scrivere, inframmezzato dal rumore dei carrelli che scorrevano sotto le mani delle dattilografe con un cigolio stridulo e monotono. Dalla direzione giungeva il tonfo sordo dei timbri apposti sulla corrispondenza. Fuori pioveva. Un brivido nervoso percorse la schiena di Christophe, mentre il viso gli si contraeva all’improvviso in una smorfia così strana che il collega della scrivania accanto si girò a guardarlo. Era un giovanotto biondo che di nome faceva Ludovic Pêche. Stava selezionando le lettere che, come tutte le sere, doveva portare a Beryl per la firma. I radiatori erano accesi al massimo e spandevano nell’aria un odore di vernice e di colla. Rintoccarono le sei.

Christophe si alzò e si diresse verso la finestra. Rimase a osservare a lungo i tetti bagnati e uno scorcio di cielo dove, fra una nuvola e l’altra, brillava una fioca luce argentea.

«Pronto! Pronto! Parlo con Clermont-Ferrand?» ripeteva, al di là del muro, una voce esausta.

«Sono stanco» pensò Christophe avvilito. «Queste tre notti insonni e questi ultimi giorni terribili...».

Sospirò, ripetendo fra sé:

«Su, bisogna pensare a... pensare a...».

La sua mente sembrava girare a vuoto in una specie di circolo vizioso inciampando ogni volta contro un ostacolo invisibile. Gli tornava in mente di continuo l’immagine della camera di James vuota e del cuscinetto di cuoio verde che aveva piazzato sotto la testa del morto.

«Papà...» mormorò. «Sì,» aggiunse con impazienza «però lui è morto, è in pace, adesso... Ma io? Dovrò decidermi...» pensò con sforzo, con profonda ripugnanza «dovrò decidermi a fare una scelta... Dio, che noia! Che storia balorda» borbottò con una sensazione quasi fisica di disgusto. «Papà?... Lui, con quelle carte e con la mia giovinezza, avrebbe messo a ferro e fuoco l’Europa... Ma io? Io? Scontrarmi con gente come Beryl, corrompere giornalisti, rovesciare governi... Non mi diverte affatto!» pensò con una sorta di ironica disperazione. «E il peggio è che nulla mi diverte, né questa, né... quell’altra strada. Perché ce n’è un’altra, di strada, ovviamente... Dell’“eredità” di mio padre si potrebbe fare un uso diverso... Una campagna contro i trafficanti dell’acciaio, i capitalisti, la società, che ne so... Ma me ne infischio! Che crepino!... Voglio starmene in pace, io! I soldi...».

Gli tornarono in mente le parole del figlio: «Non è colpa mia se tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta si ottiene a suon di quattrini...».

«Ha ragione, il ragazzo... Non è colpa nostra... Il denaro, strumento di potere... Il denaro, strumento di odio e di sopraffazione!... Che baggianata, che grande baggianata!... Vorrei solo un po’ di tempo libero, di tranquillità, di ozio, senza vegetare né combattere, soltanto vivere!... Chiedo troppo?... Ma perché non sono nato nella famiglia di mia moglie? Godersi una piccola rendita in una cittadina di provincia, anche se ormai chi ne ha più di rendite... E dire che in passato la gente si lamentava, Dio mio... Starsene in un bel giardino, da qualche parte, ad Amboise o a Châteauroux, non aver mai conosciuto altro, e non desiderare niente di diverso!... Un sogno...».

Prese a misurare lentamente la stanza, fischiettando a denti stretti.

«Beryl...».

Aveva una gran voglia di vedere Beryl; aspettava, suo malgrado, lo squillo del telefono, che di lì a poco avrebbe convocato in direzione il suo vicino di scrivania.

In preda a un sentimento di perfida curiosità, avvertì un leggero brivido di piacere che lo rese felice, come nei brevi istanti in cui la voce di Murielle risvegliava in lui il desiderio.

A un tratto disse:

«Amico mio, le dispiace lasciar portare a me la corrispondenza al direttore? Gliene sarei molto grato».

«Se vuole» rispose stupito il giovanotto.

Christophe prese il pacchetto di lettere che il collega gli porgeva, ma il suo consueto stato d’animo ironico e distaccato tornò a impadronirsi di lui; alzò le spalle pensando:

«Staremo a vedere».

In quello stesso momento suonò il telefono; Christophe sentì echeggiare la voce di Beryl che brontolava:

«La corrispondenza!».

Percorse a passi lenti il lungo corridoio silenzioso ed entrò da Beryl. L’ufficio della direzione era vasto e buio; un pannello con una grande carta geografica dell’Europa ornava una parete. Sulla scrivania una lampada di metallo, con lo stelo inclinato verso il basso, rischiarava la testa china di Beryl. Questi si era sbottonato il colletto della camicia e respirava affannosamente; il doppio mento gli debordava sul collo e il caldo gli imperlava di lucenti goccioline di sudore il viso grasso e le guance cascanti. «Un pudding afflosciato» pensò Christophe con cupa esultanza.

Vedendo entrare Christophe, Beryl aveva inarcato le sopracciglia con espressione sorpresa, ma subito si ricompose. Gli indicò una sedia con un gesto svogliato e tese la mano per prendere la corrispondenza. Poi cominciò a firmare le lettere, scorrendole rapidamente.

Christophe aspettava.

«Matita» borbottò Beryl.

Christophe gli porse la sua. Beryl sollevò lo sguardo e, con una risatina forzata, come se si accorgesse solo allora della sua presenza, disse:

«Ah, è lei, giovanotto... Non l’avevo riconosciuta. Non abbiamo avuto il piacere di vederla spesso in ufficio, in questi giorni».

«No» mormorò Christophe.

«È stato male?».

«Un lutto in famiglia» disse Christophe indicando la fascia di crespo nero che portava al braccio. «Non lo sapeva?».

Beryl indietreggiò sulla sedia e, con voce mutata, come facendo uno sforzo, disse:

«No, non lo sapevo... Suo padre?... Ma com’è possibile che non ne sia stato informato? Mi sarei fatto un dovere di assistere alle esequie. Ho l’onore di essere stato uno dei primi collaboratori di suo padre. Non sono usciti necrologi sui giornali, vero?».

«Funerali privati» disse Christophe.

«Ah...».

Christophe pensava:

«Ci sono due strade. O continuare il ricatto... Perché aver paura delle parole? Oppure alzare il tiro. Agire come avrebbe fatto papà al posto mio, un tempo. Screditarlo, spodestarlo, eccetera. Dio, come mi sembra teatrale, puerile... E poi, mica si lascerebbe spodestare così facilmente, questa vecchia volpe... Mio padre era un avversario temibile. Vecchio, malato, ma pur sempre della sua levatura, della sua razza. Io? Non sono in grado... Anche se Beryl si piegasse, risolleverebbe presto la testa, si sbarazzerebbe di me in un modo o nell’altro. Per far rigare dritto un tipo come Beryl bisogna essere James Bohun, o avere molti soldi. Ma soprattutto bisogna amare la propria vita, la propria preziosa esistenza. La forza di questi tipi qui è che, difendendo il loro caro denaro, difendono la loro stessa vita. E sanno odiare, vendicarsi... Tutti sentimenti fuori corso, almeno per me. In questo istante provo un certo godimento nel tacere, nel farlo sudare di angoscia davanti al mio silenzio. Lui aspetta, abbassa la cresta, curva la schiena. Si prepara a giocare d’astuzia, a tenermi buono o a combattere? Riflette, mi esamina, mi valuta... Comunque, no, decisamente no, tutto ciò non mi appassiona più» pensò con ironia. «Il bluff stesso non mi appassiona più. Non è neanche divertente come giocare a poker, parola mia... E ricevere una rendita da questo? Mai!».

Un improvviso rossore gli salì alle guance.

«È solo orgoglio, stupido orgoglio. Nient’altro che orgoglio. Ma è più forte di me. Anche il semplice ricatto, che sarebbe facilissimo, non posso farlo!».

Si calmò con uno sforzo di volontà e pensò beffardamente:

«D’altra parte, che cifra mi darebbe? Di quanto avrei bisogno per vivere come mi pare e per mantenere i miei familiari d’ora in poi? Ci vorrebbero milioni... Con i tempi che corrono, il “disonore” non si paga a così caro prezzo! E per una somma minima non ne vale davvero la pena!... No, l’unica possibilità interessante, degna di considerazione, sarebbe quella di agire come avrebbe fatto mio padre da giovane: spodestare Beryl, prendere il suo posto, servirmi di lui... Non fa per me!».

Scosse piano la testa. Intanto Beryl stava spingendo verso di lui il pacchetto delle lettere firmate.

Si guardarono per un istante.

A un tratto Christophe pensò:

«Ma... Ma non potrebbe giocare d’anticipo e licenziarmi? Del resto, è quello che farei io al suo posto!... Ah no, no! Io, il figlio di James Bohun, fare la figura del merlo e... No! Sarebbe un affronto alla memoria di mio padre... Aspetta un attimo...».

«Da giovane, all’inizio della sua carriera, lei conosceva bene mio padre, vero?» chiese pacato, a denti stretti.

Si misurarono lentamente con lo sguardo. Beryl abbassò la testa.

«Sì» disse poi. «Era un uomo...».

Fece una pausa, cercando le parole, e forse prese una decisione.

«Un uomo molto potente».

«Suppongo» disse Christophe, dopo un momento di silenzio «che la sua morte non cambierà niente riguardo alla mia posizione in azienda...».

Osservava Beryl con curiosità. Aspettava un diniego, un moto di imbarazzo. Li aspettava, ci sperava, forse. Ma Beryl taceva. Con aria assente, giocherellò per qualche istante con l’interruttore elettrico, accendendo e spegnendo a scatti la luce della lampada. Poi emise un sospiro, sollevò lo sguardo verso Christophe e disse, scandendo le ultime parole:

«Niente, signor Bohun».