Per buona parte della notte Christophe rimase seduto sul davanzale della finestra; ogni tanto, con un movimento automatico, si sporgeva verso l’esterno, cercando di aspirare una boccata d’aria fresca. Ma, con l’avanzare delle ore, il caldo diventava sempre più secco, più soffocante. Dalla strada salivano soltanto odore di benzina e una polvere rovente che scricchiolava sotto i denti.
«Ci mancava solo questa» rifletteva Christophe. «Andare a chiedere aiuto a quei Courtenay, che mi disprezzano e mi odiano... Bah!... È probabile che faranno un buon affare, con questa storia dell’eredità... Così tutto si metterà a posto... E niente sarà a posto...».
Tornò con la mente a Murielle, ma, chissà perché, quando pensava a lei, a Roma, vedeva soltanto una strada rumorosa, stretta e grigia sotto la pioggia. Era la prima immagine che aveva scorto di Roma nel 1902, allorché l’aveva visitata da bambino, ed era l’unica che ricordava. Tutto il resto l’aveva dimenticato. Che sulla terra potessero esserci ancora bei paesaggi, sole e gioia, gli appariva inconcepibile.
Sentì rintoccare la mezzanotte. Che cosa restava a fare lì? Dal cinema all’angolo della strada uscirono gli spettatori. Christophe udì l’eco delle loro voci: una donna gridò alcune parole che si persero nel rumore della strada; solo la fine della frase gli giunse all’orecchio:
«Andare a letto e dormire, non c’è niente di meglio...».
«Vale proprio la pena di nascere, se nei brevi e pochi anni che ci è concesso di vivere ci auguriamo soltanto il sonno, l’oblio, la morte» pensò.
Si alzò a fatica; il minimo movimento lo faceva grondare di sudore. Attraversò la sala da pranzo; alcune grandi rose estive, aperte come cavoli, avvizzite dalla calura notturna, con i petali corrosi da una subdola ruggine, penzolavano fuori dalla stretta imboccatura del vaso che le conteneva. Christophe sollevò con delicatezza le corolle appesantite, che ricaddero subito; andò a prendere un po’ d’acqua al lavello della cucina, e la versò nel vaso; per un istante il profumo dei fiori, ravvivato dal getto, divenne più intenso, più inebriante, ma di lì a poco le rose si incurvarono ancora di più lasciando cadere i petali, che si staccarono lentamente, l’uno dopo l’altro, quasi con indifferenza. Christophe li spinse via con un calcio distratto.
Tornò in cucina, riempì di acqua un bicchiere e lo bevve d’un fiato; ma anche l’acqua era calda e aveva un leggero retrogusto di fenolo. Attraversò le due stanze in fondo all’appartamento, controllando che tutte le imposte fossero aperte per far circolare quanto più possibile l’aria notturna.
A una a una le luci alle finestre delle case lungo la strada si spensero. Un omone dalle braccia nude si attardava ancora sulla soglia dell’abitazione di fronte guardando con espressione inebetita la luce verde del lampione a gas. La notte era limpida, e fra i tetti spioventi, attraverso il chiarore rossastro di Parigi, vaghe stelle tremolavano nel cielo.
Christophe aprì la porta della sua camera e si sedette sul letto osservando, con la stessa attenzione assorta che poco prima aveva rivolto ai fiori, Geneviève addormentata. Il braccio le era scivolato fuori dalle lenzuola, e pendeva inerte, con la mano aperta, abbandonata. Christophe lo sollevò, trattenendolo delicatamente fra le mani, senza svegliare la moglie, poi glielo accomodò lungo il fianco.
«Che gioia vederla partire... Io non l’avrei mai lasciata, né per un’altra donna, né per starmene da solo» pensò ancora. «Ma se fosse lei ad andarsene per prima, senza sofferenza...».
Si rese conto a un tratto che stava vagheggiando la morte di Geneviève, e fu assalito dalla vergogna e da un terrore superstizioso. Si chinò con cautela su di lei e le sfiorò la fronte immobile con le labbra tremanti. Gli tornò in mente la guancia gelata di Murielle nella stazione buia, due mesi prima. «Dilaniato tra due donne, senza amare realmente né l’una né l’altra... Che buffo... Ma le donne non hanno mai contato granché nella mia vita...». Pensò a Philippe con una vaga tristezza. «Farei meglio a dormire... Sogno a occhi aperti... Sarà il caldo» si disse prostrato. «Che cosa gridava quella donna in strada?» si sforzò di ricordare con una specie di ostinazione confusa, come in sogno, appunto, quando la memoria tenta di ripescare un’immagine dal fondo del passato. «“Andare a letto e dormire, non c’è niente di meglio”. Mai è stata pronunciata frase più vera... Ho sete» pensò ancora.
Si versò un altro bicchiere d’acqua e lo bevve fino all’ultima goccia. Il tintinnio della bottiglia riposta sul tavolo svegliò per un istante Geneviève, che si girò lentamente, aprì gli occhi, guardò Christophe senza vederlo e si addormentò di nuovo. Dalle labbra socchiuse le usciva un leggero sibilo.
Christophe si infilò a letto, respingendo con ribrezzo le lenzuola che gli si appiccicavano alla pelle. Non passava un filo d’aria. Cercò a lungo un punto più fresco sul guanciale e finì per buttarlo a terra spazientito. Da qualche parte della casa un orologio suonò l’una. «Devo prendere sonno, altrimenti domani sto fresco. Già dormo alla scrivania dalla mattina alla sera. Chissà come ha fatto mio padre a ispirare loro così tanta paura che, anche una volta morto e sepolto James Bohun, acconsentono a tenermi...».
Imprecò sottovoce, si tolse con rabbia la giacca del pigiama e gettò a terra anche quella; poi si girò ancora una volta, raggiunse a tastoni la bottiglia e il bicchiere e bevve di nuovo.
«Non riuscirò ad addormentarmi» si lamentò con una disperazione così sproporzionata che si interruppe da solo.
«Sto diventando isterico...» mormorò.
Accese la lampada sul comodino e prese a caso alcuni libri. Ma quelle storie lo esasperavano... Così lontane da lui, così al di sopra della sua pena... squallida... Nel mucchio era finito anche un romanzo poliziesco: riuscì a leggerne qualche pagina, interessandosi per un momento al destino di creature inconsistenti, coinvolte in una storia violenta, ma poi lasciò ricadere il volume e, scandendo lentamente le parole, disse ad alta voce: «Vorrei essere morto». Ripeté: «Morto...». Chiuse gli occhi: «Sarebbe bello...». Il pensiero della morte, chissà perché, lo tranquillizzava. «Che caldo, che caldo... Oh, starsene sdraiato, nudo, sulla sabbia, su una spiaggia rosa, all’alba...». In lontananza rintoccarono le due.
Ma a poco a poco Christophe cominciava a scivolare nell’incoscienza, nel pesante torpore delle calde notti estive di Parigi.
Aveva ancora una sete ardente, ma non ebbe la forza di allungare il braccio. A un tratto gli parve di trovarsi nell’anfratto di una valletta, in un pomeriggio afoso, e di sentire una voce, che riconobbe per quella di suo padre, ma lieve come un alito di vento; non si rivolgeva a lui, bensì a qualcuno lì accanto, un po’ più in alto. Diceva: «La valletta oscura...».
«Ma sì, a Nizza, certo, mi ricordo» esclamò a voce alta, con impazienza. Un’ombra fresca, deliziosa, verde, si stendeva ovunque e lo circondava come un’acqua profonda. La valletta formava due pendii molto ripidi, tappezzati di alberi inclinati e di alti ciuffi d’erba, che ondeggiavano mollemente, spinti dal soffio capriccioso e vivace del vento. A terra, proprio ai suoi piedi, Christophe vide uno specchio d’acqua tenebrosa ma limpida. «Sto sognando, è evidente» pensò. «E questo sogno è una premonizione di felicità: l’acqua limpida significa felicità...».
I raggi del sole non riuscivano a penetrare fin là, e l’acqua era nera con riflessi lucenti; tutt’intorno crescevano fiori a profusione: margherite dagli steli lunghissimi, che lui si affrettava, chissà perché, a raccogliere e comporre in mazzi. Ma i fiori appassivano subito e gli sfuggivano di mano. Christophe provava un profondo dispiacere e una rabbia senza limiti. Alla fine li gettava via e si sdraiava per terra, accanto alla deliziosa polla d’acqua che fluiva rapida, e alzava gli occhi al cielo, un cielo incolore, di quella tinta perlacea di un crepuscolo tra i monti.
A un tratto, come se qualcuno gli avesse scosso la spalla, si svegliò. Cominciava a far giorno; si sentiva il rumore dei bidoni dell’immondizia che venivano sollevati e scaricati sul camion con un fragore assordante. Il camion si avviò, in uno stridio di ruote simile a un grido disumano, e scomparve.
Christophe si tirò su sbadigliando.
«Che sogno stupido... Solo cinque ore di sonno» pensò avvilito guardando l’orologio. «E fa ancora più caldo... Quanto tempo durerà, Signore?...».
Si alzò, fece il giro dell’appartamento e chiuse tutte le persiane. Le piastrelle della cucina riverberavano già l’azzurro del cielo, un azzurro scuro e brillante; davanti a ogni finestra dell’angusto cortile a forma di imbuto c’erano strofinacci stesi ad asciugare.