Christophe tornò in camera sua, si distese seminudo sul letto e rimase immobile, senza pensare a niente, spiando l’arrivo del giorno dietro le persiane. Alle sette andò in bagno, riempì la vasca di acqua fredda e vi si immerse rabbrividendo di piacere.
Nel piccolo ambiente rivestito di piastrelle non c’erano persiane, ma una vetrata verde e rosa che si rispecchiava sul pavimento.
A contatto con l’acqua gelida, Christophe si sentì ristorato: il sudore notturno – una specie di patina umidiccia che gli era rimasta incollata alle membra – cominciava a staccarsi e a scivolare via da lui. Ma non appena uscì dalla vasca, non appena posò i piedi nudi sulle piastrelle bollenti e avvertì il calore dell’aria sul corpo, rabbrividì ancora una volta e guardò con inquietudine il suo viso riflesso nello specchio.
«Che cos’ho?».
Geneviève bussò alla porta.
«Il caffè è pronto, Christophe...».
Seguì la moglie in sala da pranzo e si sedette in silenzio di fronte a lei.
«Speriamo che stia zitta» pensò.
Ma Geneviève parlava con la solita voce monocorde, senza guardarlo, di Courtenay e di sua sorella. Forse per lei era una gioia, un conforto, rievocare volti che conosceva fin dall’infanzia... O forse la provocatoria indelicatezza femminile la induceva a discorrere proprio di ciò che in quel momento per lui era tacitamente sancito come «tabù». Christophe l’ascoltava senza dire niente, con le labbra contratte in una lieve smorfia di disappunto.
Stupita dal suo silenzio, Geneviève lo guardò. Lui si affrettò a chiederle:
«Quando partite?».
«Ma... dopodomani... Non ve l’avevo detto?...».
«Ah, sì...» mormorò Christophe alzandosi.
Geneviève lanciò un’occhiata al giornale che il marito aveva lasciato cadere, e lesse sottovoce:
«Il servizio meteorologico non prevede alcun abbassamento della temperatura per la giornata di oggi, né per quella di domani...
«Bella notizia» commentò sospirando.
Christophe era andato a radersi. Lei cominciò a sparecchiare vagheggiando la frescura di Courtenay... Quando era ragazza, dietro la casa c’era un giardino sempre ombroso e un po’ umido, con un angolo soleggiato in cui cresceva una spalliera di alberi da frutto. Chiuse gli occhi e rievocò dal fondo della memoria la voce di sua madre che chiamava: «Henri, Yvonne, Geneviève! Venite a prendere la merenda e andate a mangiarla nel frutteto».
Sopra le loro teste dondolavano prugne dorate.
«Geneviève... Henri... Yvonne...».
Ripeté i loro nomi sottovoce, con una sorta di incredulità, pensando alla sorella, al suo viso deturpato dalla couperose, alle sue grosse guance cascanti, e alla barba grigia del fratello maggiore, quello di cui andava a negoziare l’eredità.
Si fermò, infastidita dalla doppia e ingannevole luminosità proveniente dal sole che filtrava attraverso le persiane accostate e dalla luce elettrica accesa. Guardò l’orologio.
«Christophe farà tardi al lavoro» pensò.
Christophe se ne stava seduto, immobile, sul bordo della vasca da bagno. Intorno a lui, le piastrelle, lo specchio, lo zampillo iridescente dell’acqua creavano una sorta di fiamma danzante. L’ambiente era angusto e soffocante come un armadio. Il riverbero della vetrata dava alle pareti di maiolica un riflesso azzurro, simile a quello della liscivia; i tetti, che sembravano voler scalare il cielo, avevano una tinta fra l’indaco e il viola. «La raffigurazione stessa del caldo, questo colore di pampini, di colline violacee sotto un cielo infuocato» pensò avvilito.
Rievocò, come un paradiso perduto, la casa buia di suo padre, quell’odore torbido di muffa, di leggera umidità, il vecchio pavimento di legno scricchiolante a ogni passo... L’atmosfera che amava... Gli era sempre piaciuta la malinconia, il rimpianto che destava in lui. «Il nobile rimpianto...» disse sottovoce.
«Invece questo chiarore, questa mediocrità trionfante, come li odio...» sbuffò rabbioso. Sentiva già la radio nell’appartamento a fianco. L’andamento della Borsa, dei mercati, del cotone, del grano. Un altro vicino impiegava le ore libere della mattina a studiare l’inglese con un magnetofono. Dieci volte, venticinque volte, la stessa voce lenta e nasale attraversava il cortile: «What is this? It is butter. What is this? It is salt. What is this? It is bread».
Sopra i cassoni traforati che bordavano le finestre delle cucine, due donne, con le braccia nude, protendevano all’esterno le teste spettinate.
«Che caldo!» gridò allegramente la più giovane, dalla capigliatura rossa che fiammeggiava al sole. «Peggio di ieri!».
E l’altra, anziana, con il viso paonazzo e congestionato, i capelli striati di grigio, rispose gemendo:
«Mi sono buscata un raffreddore...».
Christophe si sollevò a fatica, prese il rasoio e lo immerse nell’acqua bollente, poi si accorse di non essersi ancora insaponato il viso. «Sempre lo stesso gesto... Signore... Lo stesso gesto ogni mattina, ogni giorno, fino alla morte...». Digrignò i denti.
«Quante volte,» disse ad alta voce «quante mattine ancora vedrò la mia faccia, qui, davanti a me, in questo specchio...».
Come istupidito, osservò la lama del rasoio, che brillava al sole, e fece scorrere i polpastrelli sul metallo affilato.
«Non taglia» sussurrò. Premette con più forza, poi ritrasse la mano.
«Sentire la vita scorrere via, come il sangue che fluisce dalle vene aperte in una vasca piena di acqua calda» recitò sottovoce. E nello stesso momento scorse nello specchio il suo viso accaldato, dagli occhi dilatati.
«Sto male. Forse ho la febbre...» mormorò. «Che faccia...».
Rise, sollevò con entrambe le mani, delicatamente, il mento pesante, ricoperto di peli corti e ispidi cresciuti durante la notte; con un gesto automatico si sfiorò la pelle, poi il collo, tastando le vene bluastre, senza smettere di guardare, con una specie di attenzione beffarda, la sua immagine riflessa nello specchio.
«Proviamo» disse.
Impugnò il rasoio e se lo passò sulla gola con estrema lentezza, senza premere, godendo nel veder apparire sulla pelle una sottile linea scarlatta.
«Tagliare, premere forte, sentire la testa staccarsi da me, come un frutto maturo...».
A un tratto, per un movimento quasi involontario, il sangue schizzò sporcandogli le dita. Ma lui avvertì solo un leggero bruciore. Esitò, socchiuse gli occhi. «Sono pazzo» disse, e sentì la sua voce come ovattata; nello stesso istante un pensiero gli attraversò la mente.
«Io sto giocando, è un gioco morboso, so che adesso mi fermerò. Via, non ho più vent’anni, non ci si suicida alla mia età. Che idiozia! E perché, poi? No, sto solo giocando, appoggio la lama, la ritraggo, così...». All’improvviso pensò: «Ecco, se sento ancora quel tremendo magnetofono, e quella voce: “This is bread...”, premo più forte e... In un mondo migliore, forse...» mormorò soffocando una risata.
Rimase in attesa. Il magnetofono si era zittito, poi, lentamente, il nastro si riavvolse e, fra i rumori – il chiasso del cortile, le voci delle domestiche, il cigolare delle porte sui cardini mal oliati, il trambusto delle pattumiere svuotate nei cassoni della spazzatura – risuonò: «What is this? It is bread». Christophe affondò con rabbia la lama nel collo teso, ma la mano gli tremò. Avvertì un dolore violento. Cadde a terra, vide intorno a lui i riflessi rosa e verdi della vetrata, aperta solo a metà, poi il sangue che gli colava sulle mani, sul petto nudo, sui pantaloni bianchi del pigiama.
In quel momento si aprì la porta. Prima di svenire, ebbe il tempo di scorgere, chino su di lui, il viso sconvolto e pallido di Geneviève. «Non è niente...» mormorò.
«Un incidente, mia cara, uno stupido incidente...».
Subito dopo chiuse gli occhi, sprofondando in una sorta di semincoscienza, in cui permaneva viva la sensazione di bruciore, di sete ardente, e la consapevolezza di aver commesso un’inqualificabile idiozia.