Dopo qualche tentativo andato a vuoto, Geneviève era riuscita a fermare il sangue. Un po’ d’acqua sul viso fece rinvenire Christophe. Era girato verso di lei, con la testa riversa nell’incavo del suo braccio nudo; per un momento percepì, con una strana sensazione, l’onesto e dolce profumo di lavanda che emanava. Poi si alzò barcollante e si allontanò dalla moglie.
«È una sciocchezza» disse a denti stretti. «Aiutatemi a uscire da qui».
Geneviève gli sostenne il braccio in silenzio, mentre lui, chiamando a raccolta tutte le sue forze, si raddrizzava e raggiungeva la sala da pranzo. Lì le persiane e le finestre erano chiuse; l’ombra e il silenzio lo rasserenarono, placando a poco a poco anche il cuore che gli batteva all’impazzata sotto la mano. Christophe riacquistò la sua lucidità.
«Che imbecille!» pensò stizzito. «Che cosa mi ha preso?».
Disse con voce flebile:
«Non so come questo insulso incidente... sia potuto accadere... Mi è scivolata la mano...».
«No, avete tentato di uccidervi!» gridò a un tratto Geneviève con una voce strana e vibrante, che il marito stentò a riconoscere. «Non mentite, Christophe!... Ho visto i vostri occhi, gli occhi di un pazzo!... Voi siete pazzo» ribadì a voce più bassa con una sorta di stupore. «È il gesto di un pazzo...».
Lui scosse la testa.
«D’accordo, avete ragione. È stato un attimo di pazzia. Ma calmatevi. Non è successo niente...». Cercò altre parole e, non trovandone, ripeté:
«Non è successo niente...».
Lei non aprì bocca. Christophe aggiunse, spazientito:
«Datemi da bere, per amor del cielo...».
La sentì allontanarsi nella penombra e prendere un bicchiere. Poi Geneviève tornò accanto a lui e glielo avvicinò alle labbra, chiedendogli piano, con voce malferma:
«Possibile che l’abbiate amata a tal punto?».
Christophe posò con precauzione il bicchiere sul tavolo. Gli tremavano le mani.
«Ma chi?» domandò.
Geneviève ebbe un risolino amaro.
«Oh, non tentate di ingannarmi! Non ne vale la pena... Lo so, e da tempo. Quella donna, vostra cugina» disse con astio, e Christophe notò che evitava di pronunciare il nome di Murielle.
Quasi divertito, pensò:
«Come si saranno odiate. Magari senza saperlo...».
Si passò lentamente la mano sul viso. Bisognava parlare, rassicurare, mentire... Che fatica...
«Ma che strana idea... Che io possa uccidermi per una donna...» si limitò a mormorare con voce stanca.
Sì, era davvero un’idea strana... E poi, sul serio aveva pensato di uccidersi?... Ma no, un movimento irriflesso...
Sfiorò con imbarazzo la piccola ferita dolente.
«Datemi un fazzoletto, cara...».
Lei trasalì e gli porse in silenzio la salvietta che aveva in mano e che era già cosparsa di macchie scarlatte.
«Mia povera Geneviève...» cominciò Christophe.
Ma si interruppe subito, e sospirò con aria esausta e indifferente. Geneviève non avrebbe capito. Lui, Christophe, uccidersi per una donna? E, tra mille altre donne, Murielle... Perché Murielle? Rivide, con la terribile precisione dei sogni, il suo viso reclinato verso il fuoco, le spalle avvolte nel vecchio scialle verde, chine in avanti, come gravate da un peso invisibile. Ma la figura familiare si cancellò, e altre immagini, più intime e più care, riemersero dal passato: il giovane viso ardente di Murielle, i suoi capelli neri, intrecciati in una scura corona. Christophe ebbe un brivido involontario: com’era lontano tutto ciò.
Ripensò alle parole di Geneviève: «Lo so, e da tempo...». Guardò la moglie con curiosità:
«Che cosa credevate di sapere?» chiese, senza volerlo, con una certa cautela.
«L’avete sempre amata».
Christophe inarcò le sopracciglia.
«Sempre?».
«Prima del nostro matrimonio e...».
Geneviève si interruppe e distolse lo sguardo con un sospiro. Esitò un istante, forse misurando la portata di quelle imprudenti parole, poi disse con sforzo:
«Dopotutto, è il passato...».
«Il passato...» pensò Christophe. «L’amore...». Rievocò in modo confuso le notti trascorse a ballare, i ritorni all’alba nella macchina scoperta, il giovane corpo di Murielle fra le sue braccia. Ma, di quelle immagini, una sola gli suscitò una fitta di rimpianto: i boschi di Ville-d’Avray, la freschezza del laghetto all’alba, il vento che soffiava sui loro visi, puro e a tratti carico degli odori pungenti della foresta...
Irritato, e con un tono aspro e ironico di cui lui stesso si stupì, disse:
«Non c’è dubbio, le donne sono pazze».
Pensava:
«Adesso mi chiederà se l’amo ancora. Mio Dio,» mormorò digrignando i denti «come vorrei essere lasciato in pace!».
Ma Geneviève non gli chiese niente. Aprì la porta della cucina e cominciò a lavare le tazze della colazione. Non era capace di restarsene con le mani in mano: erano mani abili e alacri, le sue, tenerle in movimento la distraeva, le placava l’ansia.
Christophe si alzò con un sospiro e guardò l’orologio.
«Non vado in ufficio, oggi. Torno a letto. Che treno prenderete dopodomani?».
Geneviève esitò un momento, poi rispose sottovoce:
«Ma... non so... In ogni caso non partirò dopodomani...».
«E perché mai?» esclamò lui in uno scatto di cieco furore.
Lei assunse il tono che Christophe odiava: sereno, inumano, lo stesso che usava per domare i capricci di Philippe, quando era bambino.
«Siete nervoso. State male. È meglio che resti qui».
Lui si dominò con uno sforzo violento e strinse l’una contro l’altra le mani tremanti.
«Non parlatemi mai più di questa storia assurda, e neanche di Murielle. È... è meglio così, credetemi... Vi ripeto, è stato un attimo di pazzia. Può capitare. Avevo il rasoio in mano, e a un tratto ho chiuso gli occhi e ho premuto la lama. Un gesto decisamente maldestro, o da incosciente, se preferite. Vi pare possibile che uno si uccida a quarantatré anni, e per amore?» concluse con una risatina di scherno.
Senza aspettare risposta si diresse verso la porta; l’unico desiderio che aveva era quello di sprofondare in un letto ampio e fresco; le persiane chiuse avrebbero fatto da barriera al caldo e al baccano della strada. Il collo gli doleva.
«Che imbecille!» mormorò ancora una volta con rabbia. Poi si lasciò cadere sul letto, arrotolò tra le gambe le lenzuola gualcite e, con un profondo sospiro, si addormentò.
Geneviève chiuse la porta dietro di lui e si sedette sulla prima sedia libera, guardando con un sentimento di ostilità, quasi fosse un luogo estraneo, la stanzetta bassa e in penombra. Ebbe un fremito, un moto di ribellione:
«E io? Insomma, non pensa mai a me?».
Davvero aveva tentato di uccidersi? Non era da lui. «Ma che cosa ne so, io, di lui?» si chiese con tristezza. Christophe era una creatura di un’altra razza, era il figlio di James Bohun, che se n’era andato senza un lamento, senza una invocazione di pietà, con quel suo eterno sorrisetto sarcastico stampato sulle labbra ansanti, già inaridite dalla morte.
Geneviève sospirò, lagnandosi mentalmente con un interlocutore invisibile:
«Com’è difficile capirlo...».
Versò qualche lacrima, poi respinse scoraggiata il pensiero di Christophe.
«Ah, Dio mio, sono così stanca anch’io... Tanto vale che parta. Si riposerà meglio. Io lo esaspero» pensò con amara umiltà. «Anche Philippe, l’ho sempre esasperato, innervosito... Dio mio, sono troppo vecchia per essere felice e troppo giovane per non soffrire più! Courtenay, il fresco tra le mura del giardino...».
L’atmosfera pesante della stanza le sembrò gravare ancora di più sulle sue spalle. Si asciugò lentamente le lacrime che le spuntavano all’angolo degli occhi e scivolavano lungo le guance, fino alle labbra; le ingoiò con una sorta di cupa rassegnazione, e a passo fiacco, con la schiena curva, andò ad aprire alla domestica.