L’indomani si svegliò tardi. Per una parte della notte aveva avuto un sonno agitato, e al mattino aveva sognato vento e burrasche. Quando aprì gli occhi si accorse di aver lasciato aperta la porta della camera, sicché questa, sbattendo mentre lui dormiva, doveva aver prodotto quello strano e lamentoso rumore di mare in tempesta che gli risuonava ancora nelle orecchie. Spalancò le persiane, cercando con ansia un segno di pioggia nel cielo, ma la luce accecante del sole gli ferì gli occhi come una lama di fuoco. Guardò sconfortato i tetti di fronte. Sotto quel cielo illividito dal temporale che da settimane incombeva su Parigi senza mai scoppiare, il loro colore violaceo, arso, era ancora più opprimente.
Con un sospiro accostò le persiane, e si girò sentendo un rumore di passi nella sala da pranzo: era la domestica, una certa signora Victoire, con il suo grembiule grigio, il viso paonazzo e congestionato dal caldo e una corona di capelli bianchi arruffati.
Christophe la guardò e chiese:
«I bambini sono in campagna?».
La donna parve sorpresa, ma rispose con espressione compiaciuta:
«Eh già!».
Christophe aveva intuito che era una di quelle creature il cui marito o i figli, a seconda dei casi, se ne stanno all’aria aperta, a divertirsi, mentre loro rimangono a sgobbare nei meandri oscuri della città. E questo la rendeva felice.
«Solo un amore smisurato può aiutare a sopportare una vita simile, ma l’amore non è un dono che viene concesso a tutti» pensò Christophe con profonda tristezza.
Con un garbo di cui lui stesso si stupì, senza ironia, né nel pensiero, né nelle parole, ma con curiosità e una vaga simpatia, disse:
«L’importante è che loro siano contenti...».
La donna sospirò:
«Eh già...».
Poi aggiunse:
«Anche lei ha un figlio, un giovanotto, vero?».
«Sì» rispose Christophe. Pensò a Philippe e scosse la testa. Non poteva consolarsi con le stesse parole che aveva detto alla domestica... Philippe non era contento... Philippe era fragile e infelice quanto lui...
Andò a vestirsi e guardò sconcertato l’aspetto che aveva preso la piccola ferita del giorno prima. Il collo era tutto rosso e gonfio. Imprecò e si mise a cercare il disinfettante; non trovandolo, rivoltò da cima a fondo l’armadietto dei medicinali appeso al muro. Scovò solo un flacone di tintura di iodio, ma era vuoto, con un residuo brunastro attaccato al fondo.
In quel momento Victoire bussò alla porta.
«Sono le nove...».
Sarebbe arrivato in ritardo un’altra volta. E il giorno prima non era neanche andato in ufficio... D’altra parte, si era ripromesso di non prendere più taxi ma solo autobus. «Oggi però non ho il tempo». Gettò via spazientito il flacone vuoto e seguì la vecchia domestica in sala da pranzo. In piedi, mentre finiva di vestirsi, mandò giù un caffè. Era stanco e a disagio. Il minimo movimento gli faceva aumentare il dolore al collo.
Ma si impose di non pensarci. Posò con sforzo la tazza del caffè, buttò a terra il giornale che non aveva letto, e uscì.
In strada gli parve di entrare in un bagno di vapore. L’asfalto si scioglieva. L’aria era vischiosa e pesante. D’istinto scostò le braccia dal corpo, come un nuotatore che spinge l’acqua.
Salì nel suo ufficio e iniziò l’ingrato lavoro quotidiano.
Due ore dopo, poiché il dolore era diventato intollerabile e si accompagnava a una sensazione di nausea, nonché a improvvisi e fastidiosi brividi che gli scuotevano tutto il corpo, una dattilografa, stupita dalla sua voce roca e ansante, alzò lo sguardo verso di lui.
«Ma che cos’ha, signor Bohun? Lei sta male!».
Christophe si passò lentamente la mano sulla fronte.
«Sarà il caldo» mormorò. «Perché mi guarda così? Che cos’ho?».
La dattilografa gli porse uno specchietto tascabile; Christophe si osservò con attenzione: aveva il viso tumefatto e violaceo, gli occhi dilatati, ardenti di febbre. Indicò la ferita e disse con sforzo:
«È questo... questo coso, questa piccola ferita che mi sono fatto sul collo, non so come, radendomi. Si sarà infettata».
«Aspetti» disse in tono risoluto la dattilografa.
Uscì e ritornò con un flacone di tintura di iodio che gli spennellò sulla parte inferiore delle guance e sul collo. Lui la lasciò fare per qualche istante: gli scoppiava la testa, e davanti agli occhi gli vorticavano cerchi, anelli incastrati gli uni negli altri, scarlatti come il sangue fresco.
Ma il calore che promanava dal corpo della dattilografa, il contatto del suo braccio nudo, l’odore delle ascelle, visibili sotto la camicetta di mussola, gli davano la nausea. La respinse con garbo e mormorò in tono insofferente:
«Non è niente, ragazza mia, la ringrazio, ma ora basta. Mi medicherò una volta a casa».
Ricominciò a dettare lettere. Dopo un po’ dovette fermarsi di nuovo. Aveva le guance in fiamme e la schiena percorsa da strani brividi, simili a gelidi serpenti che guizzavano rapidissimi dalla nuca alle reni. Chiuse gli occhi e disse stizzito:
«Pazienza, me ne torno a casa».
Del resto era mezzogiorno. Quando vide a tavola la bistecca al sangue preparatagli dalla signora Victoire, che, terminato il suo lavoro, se ne stava andando, ebbe uno sbocco di bile amara. In preda al panico, chiamò la donna, ma lei era già lontana. Si trascinò fino alla guardiola del portinaio, prese la cornetta e telefonò a un medico a caso, poi a un altro. In ferie... in ferie... A ogni tentativo gli rispondeva la voce monotona del servizio abbonati:
«La persona da lei richiesta non è disponibile. Rientrerà a Parigi a settembre».
Decise di risalire a prendere dei soldi per farsi portare alla prima farmacia aperta.
«Avvelenamento del sangue, con ogni probabilità» pensò con sforzo. «Ma come sono stanco...».
Si sedette un momento sul bordo del letto, aspettando che gli si placasse il battito sordo e irregolare del cuore. Ma cominciò a girargli la testa; chiuse gli occhi e sprofondò in una stato di semincoscienza.
Quando si riebbe, quando riuscì a sottrarsi a quel gradevole e spossante languore, la camera era immersa nell’ombra; dalla finestra filtrava solo un raggio di polvere d’oro che attraversava la stanza fino a toccare una delle sfere d’ottone del letto.
Christophe vedeva soltanto quella sfera dorata che scintillava nel buio: lo sfolgorante luccichio gli saettava negli occhi e penetrava nel suo cervello malato, trafiggendolo da parte a parte come un ago avvelenato. Avvelenato... Ripeté la parola più volte, a voce alta, con una specie di incredulità, e alla fine capì. La febbre si era impossessata del suo corpo, lo scuoteva, lo schiacciava contro la testata del letto, e lui ora si aggrappava alle sbarre, ora le respingeva, in un’alternanza meccanica. Ma la mente gli era rimasta lucida e beffarda. Gli andava bene morire così, magari anche meglio. Era stanco della vita, e da tempo. La vita gli aveva dato qualche anno piacevole. No! Qualche giorno piacevole. Il conto era presto fatto. Non durante l’infanzia. Forse quella partita a pallone, sotto il sole, in un giardino londinese rigoglioso di fiori... Dalle vaghe profondità di un ricordo lontano emerse una spiaggia rosa, in autunno... Quando riuscì a precisarne l’immagine, fu percorso da un brivido di desiderio. Niente era più bello che starsene sdraiati al sole, o anche un po’ in ombra, con il rumore ovattato e grave del mare. Ma tutto questo, a ben pensarci, l’avrebbe avuto. Adagiato in una perenne e dolce frescura, i fremiti dei semi che si schiudono, i palpiti della terra, le ondate di tepore, le lunghe radici, attorte come serpenti nel grembo della fossa, quel profumo di erba che tanto gli piaceva... Tutto questo l’avrebbe avuto per... per l’eternità... «Agli esseri come me, che non hanno amato la vita, quella vita che è stata loro accordata sulla terra, forse Dio concederà di trasformarsi in un animale, in una pianta, in un minerale, una pietra, chissà... Per l’eternità».
Lampi di luce verde gli attraversavano la testa, saettando da una parte all’altra. Che cos’altro rimpiangeva? Quella donna? Al diavolo... aveva dimenticato il suo nome... Quella donna che affiorava dal passato, con il volto pallido incorniciato di trecce nere...
«È strano che, in punto di morte, stenti a ricordare i tratti e finanche il nome di colei che ho amato... della sola donna al mondo, la sola donna sulla faccia della terra che ho amato nella mia vita... La mia breve e unica vita. Me ne infischio. È finita da tempo, la mia vita. Si muore a vent’anni. Si muore quando se ne va la gioia. Maledetta vita... Incomprensibile... Non ho saputo vivere, forse... Ma acconsento con tutto il cuore a morire... Anche questo ha la sua importanza...
Si risvegliò del tutto e vide che era scesa la notte. Udì un ronzio di mosche. In lontananza echeggiava la musica di un grammofono, e quel suono rauco e soffocato gli ricordò di colpo la voce di Murielle e il suo viso, e tutto il sapore e l’odore di quella vita terrena che fuggiva via da lui, «come il sangue che cola lentamente dalle vene aperte...».
Per un istante provò un sentimento di pietà. Lui, che conosceva solo la collera e una specie di aspro rancore, represso per anni, sentì pietà per se stesso. Si guardò con struggimento le mani, le sue belle mani, che cominciavano a illividirsi sotto le unghie e che presto sarebbero state immobili sottoterra... Sempre meglio che vivere così, comunque. Pensò ancora a Geneviève, a Philippe... O, almeno, gli balenò in mente che non aveva voglia di rivederli, che loro erano rimasti molto lontano, in superficie, mentre lui stava affondando, veniva tirato giù, verso oscure profondità. Mormorò: «Mia moglie... Mio figlio...». Rise e, con uno spasmo crudele, protese in avanti le labbra nella smorfia sarcastica che gli era abituale, ma lo sforzo gli mozzò il fiato. Sentì che gli si irrigidivano le braccia, e con un movimento brusco e involontario le scostò dal corpo, poi volse lo sguardo verso la sfera di ottone che, illuminata da un raggio di luna, brillava tremolante nelle tenebre; esalò un profondo e placido sospiro, rovesciò la testa all’indietro, boccheggiando per un istante, e finì di morire.