I ragazzi di via Panisperna

Ettore Majorana nasce a Catania il 5 agosto 1906, quarto di cinque fratelli. Proviene da una famiglia dell’alta borghesia siciliana. Il nonno Salvatore è stato senatore, deputato e due volte ministro sotto Depretis. Il padre Fabio Massimo si è laureato a soli diciannove anni in Ingegneria, e poi di nuovo in Scienze fisiche e matematiche. Lo zio Quirino è un importante scienziato, professore universitario di Fisica sperimentale e presidente della Società di fisica d’Italia. Lo zio Angelo è riuscito a laurearsi alla tenera età di sedici anni: a diciotto già era libero docente, a trentadue deputato, a trentotto ministro delle Finanze con Giolitti.

Anche Ettore ha la stoffa del genio. A quattro anni svolge a memoria calcoli complicatissimi, ma siccome è molto timido lo fa rintanandosi sotto il tavolo. È un ottimo scacchista e sorprende i compagni di scuola risolvendo in pochi secondi, su pezzetti di carta, problemi impossibili per gli altri.

Dirà di lui la sorella Maria: «Era schivo e timido, di spirito arguto, con un vivo senso dell’umorismo e un’enorme sensibilità umana. Io ero la sua sorellina più piccola e mi voleva molto bene. Era così gentile che mi faceva anche i compiti di matematica. Ho molti ricordi d’infanzia. D’autunno andavamo in villeggiatura sull’Etna. Nelle notti senza luna, Ettore mi indicava il cielo, le stelle, i pianeti, e tutte le volte era una piccola lezione di astronomia. Le sue parole mi tornano in mente ancora oggi, ogni volta che alzo lo sguardo verso il cielo stellato. Mi piace ricordarlo così, mentre mi invita a guardare il cielo e mi insegna a chiamare per nome le stelle».

Nonostante la palese riservatezza, il futuro fisico ha un’infanzia tutto sommato «normale»: ama le barzellette, gli scherzi e le risate; non può vantare moltissimi amici, ma con i pochi che ha riesce a instaurare un rapporto quasi fraterno.

Gli aspetti più giocosi del carattere di Ettore emergono in parte dal suo vasto epistolario. È il caso di questa missiva del 1925, indirizzata all’amico Gastone Piqué: «Caro Gastone – scrive Majorana –, se non mi viene un accidente verrò tra pochi giorni. Né devi credere che sia impossibile che mi venga un accidente nel fiore dell’età, al contrario abbilo per molto verosimile. Infatti io sono stato fin dalla nascita un genio ostinatamente immaturo; il tempo e la paglia non sono serviti a nulla e non serviranno mai e la natura non vorrà essere così maligna da farmi morire immaturamente».

Nel 1921 i Majorana si trasferiscono nella capitale, dove il padre viene nominato ispettore generale del ministero delle Comunicazioni. Ettore studia dai gesuiti, al «Massimiliano Massimo». Nel 1923 ottiene la maturità classica, 1 poi si iscrive alla facoltà di Ingegneria, dove viene subito notato per le sue straordinarie abilità matematiche. Tra i compagni di corso ci sono il fratello Luciano e il futuro fisico Emilio Segrè, che racconterà: «In un’occasione, mentre aspettavo di essere chiamato per un esame orale, Majorana mi dette una prova sintetica dell’esistenza dei cerchi di Villarceau su un toro. Io non la capii del tutto, ma lì per lì la memorizzai. Quando entrai nell’aula d’esame, il professor Pittarelli mi chiese, come era sua consuetudine, se avessi preparato un argomento particolare. Sì, risposi, sui cerchi di Villarceau, e mi precipitai immediatamente a ripetere le parole di Majorana prima di dimenticarle. Il professore rimase colpito e si congratulò per quella dimostrazione così elegante che non conosceva».

Majorana è un autentico enfant prodige. Tuttavia, come ogni genio che si rispetti, è molto lunatico, ha continui sbalzi umorali, tra grandi esaltazioni e profondi abbattimenti. Racconterà di lui l’amico Piqué: «Siccome di fisico non era bello, aveva un complesso verso le donne. Perché proprio non era bello, era piuttosto brutto. Al liceo aveva una ragazza, era figlia di un prefetto, era una donna molto intelligente. Questo giovane così geniale, davvero un prodigio, la incantava. Ma lui niente, la sdegnava, perché lui veramente doveva avere un complesso d’inferiorità per la sua bruttezza». E ancora, dal racconto dell’amico Gilberto Bernardini: «Ettore era persona sensibilissima e introversa, ma profondamente buona. La sua ritrosia e timidezza e la sua difficoltà di contatto umano – reso ancor più difficile dalla sua stessa intelligenza – non gli impedivano di essere sinceramente affettuoso. Aiutava ad esempio i compagni, al punto di presentarsi a sostenere un esame al posto di un amico timoroso! E la sua critica severa si addolciva quando il giudizio riguardava gli amici».

Nel 1927, al termine del quarto anno, Segrè si iscrive alla facoltà di Fisica. Nell’Istituto di via Panisperna si respira aria di rivoluzione: vi è appena stata creata la prima cattedra italiana di Fisica teorica, che sarà presieduta da un giovane scienziato di belle speranze, il futuro premio Nobel Enrico Fermi.

Il professore non ha neppure trent’anni, si è laureato alla Normale di Pisa, poi è stato a Gottinga, alla scuola di Max Born, e infine a Leida, in Olanda, dove ha studiato con Paul Ehrenfest. È fisico teorico e sperimentale, e il suo entourage ben presto diventerà un fondamentale punto di riferimento per le più brillanti menti scientifiche del paese.

Il direttore dell’Istituto di fisica in persona, l’ex ministro Orso Mario Corbino, conduce una martellante opera di propaganda tra gli studenti: «Qualcuno di voi dovrebbe lasciare gli studi di Ingegneria e passare a Fisica – consiglierà ai suoi allievi –, perché abbiamo qui a Roma un nuovo professore di Fisica. Posso assicurarvi che questo è l’uomo capace di portare la fisica italiana ad un livello molto alto. In questo momento i giovani dovrebbero darsi alla fisica».

Nel 1928, su insistenza dell’amico Segrè, Ettore Majorana accetta di incontrare Enrico Fermi. Il breve abboccamento rappresenterà la grande svolta della sua giovane vita. Racconta Segrè: «Fermi stava calcolando la funzione del metodo statistico di Thomas-Fermi servendosi di una piccola calcolatrice a mano. Con essa, in circa una settimana di lavoro, aveva costruito per approssimazioni successive la funzione che voleva. Majorana si informò in dettaglio e poi tornò a casa senza fare commenti. Trasformò l’equazione non lineare di Fermi in una del tipo Riccati e la risolse numericamente servendosi del suo cervello come macchina calcolatrice. Dopo un paio di giorni tornò all’Istituto e chiese a Fermi di vedere la sua tavola della funzione. La confrontò con la sua e con meraviglia constatò che Fermi non aveva fatto sbagli». Il bizzarro esame si conclude dunque con la «promozione» di Fermi: rotti gli ultimi indugi, anche Ettore Majorana passerà da Ingegneria a Fisica.

Via Panisperna è una grande fucina di idee. Tutte le più acute menti dell’epoca sembrano essersi date appuntamento in quella lunga strada acciottolata, stretta tra il Palatino e il Quirinale. Ciascuno ha il suo soprannome: Enrico Fermi è «il papa», Franco Rasetti «il cardinal vicario», Emilio Segrè «il basilisco», Edoardo Amaldi «l’abate», Ettore Majorana «il grande inquisitore».

La maggior parte degli esperimenti si concentra sul campo della fisica nucleare. Racconterà Amaldi: «Iniziavamo alle otto di mattina ed effettuavamo misure praticamente senza interruzione fino alle sei o sette di sera, e spesso anche più tardi. Eseguivamo le misure secondo una tabella di marcia cronometrica, dato che avevamo studiato il tempo minimo necessario per compiere tutte le operazioni. Le ripetevamo ogni tre o quattro minuti per ore e ore, e per tutti i giorni necessari per giungere a una conclusione su ogni punto particolare. Una volta risolto un dato problema, ne attaccavamo subito un altro senza alcuna interruzione o incertezza. La fisica come “soma” era l’espressione che utilizzavamo per parlare del nostro lavoro mentre la situazione generale in Italia si faceva sempre più cupa».

L’esperimento più clamoroso avviene nell’autunno del 1934. Fermi sta eseguendo una serie di test sulla radioattività indotta: affidandosi al proprio intuito, decide di piazzare un piccolo schermo di paraffina tra i neutroni e il cilindro d’argento da irradiare. I risultati sono strabilianti, perché la radioattività dell’argento è fino a cento volte superiore rispetto a quella prodotta in presenza di piombo. Lo scienziato ha allora una seconda intuizione: l’incredibile risultato deve dipendere dall’idrogeno contenuto nella paraffina, che avendo la stessa massa dei neutrini riesce a rallentarne la corsa. L’esperimento viene ripetuto nella vasca dei pesci rossi che adorna il cortile dell’istituto («Così mi spaventate le bestiole» avrebbe commentato il guardiano). L’acqua – che contiene idrogeno – produrrà effettivamente lo stesso effetto della paraffina. Nei giorni successivi Fermi e i suoi ragazzi provocheranno la prima fissione nucleare artificiale di un atomo di uranio, entrando così a pieno titolo nella storia della fisica.

In questo esclusivo consorzio di menti eccelse, Ettore Majorana è colui che più di tutti spicca per intelligenza. Enrico Fermi dirà: «Al mondo ci sono varie categorie di scienziati; gente di secondo e terzo rango, che fan del loro meglio ma non vanno molto lontano. C’è anche gente di primo rango, che arriva a scoperte di grande importanza, fondamentali per lo sviluppo della scienza. Ma poi ci sono i geni, come Galileo e Newton. Ebbene, Ettore Majorana era uno di questi».

Tra i due il rapporto è a tratti burrascoso, fatto di sottile rivalità ma permeato, al contempo, da un forte sentimento di rispetto e stima reciproci. Racconterà un altro ragazzo di via Panisperna, Bruno Pontecorvo: «Qualche tempo dopo l’ingresso nel gruppo di Fermi, Majorana possedeva già una erudizione tale ed aveva raggiunto un tale livello di comprensione della fisica da potere parlare con Fermi di problemi scientifici da pari a pari. Lo stesso Fermi lo riteneva il più grande fisico teorico dei nostri tempi. Spesso ne rimaneva stupito. Ricordo esattamente queste parole di Fermi: “Se un problema è già posto, nessuno al mondo lo può risolvere meglio di Majorana”».

Talvolta, con spirito quasi goliardico, Fermi e Majorana si sfidano in una strana competizione: scelgono una funzione particolarmente complessa, dopodiché, ciascuno per conto suo, tentano affannosamente di risolverla. Fermi utilizza la lavagna e i gessetti, mentre Ettore – silenzioso e accigliatissimo – fa tutti i calcoli a mente. Non di rado, le loro sfide si trasformano in vere e proprie baruffe, con tanto di grida, strilli e improperi. Ma anche questo, in un certo senso, fa parte del gioco.

Dopo la laurea, ottenuta nel 1929, il giovane fisico si mette alacremente al lavoro. Si occupa di spettroscopia, di fisica terrestre, di termodinamica, di fisica nucleare. Il suo curriculum nel 1932 recita: «Sono nato a Catania il 5 agosto del 1906. Ho seguito gli studi classici conseguendo la licenza liceale nel 1923; ho poi atteso regolarmente agli studi di Ingegneria in Roma fino alla soglia dell’ultimo anno. Nel 1928, desiderando occuparmi di scienza pura, ho chiesto e ottenuto il passaggio alla facoltà di Fisica e nel 1929 mi sono laureato in Fisica teorica sotto la direzione di S. E. Enrico Fermi svolgendo la tesi La teoria quantistica dei nuclei radioattivi e ottenendo i pieni voti e la lode. Negli anni successivi ho frequentato liberamente l’Istituto di fisica di Roma seguendo il movimento scientifico e attendendo a ricerche teoriche di varia indole. Ininterrottamente mi sono giovato della guida sapiente e animatrice di S. E. il professore Enrico Fermi».

I contributi dello scienziato catanese sono spesso acuti e visionari: nel 1938 ipotizzerà l’esistenza dei fermioni, la cui prova scientifica arriverà solo settantaquattro anni più tardi, nel 2012.

Nel 1933, per circa otto mesi, Majorana è ospite degli Istituti di fisica di Lipsia e Copenaghen: incontra Niels Bohr e Werner Heisenberg, il quale lo convince a pubblicare due articoli su riviste specializzate tedesche. È forse la sua esperienza più felice: finalmente lontano dalle pastoie burocratiche del sistema universitario italiano, dalle rivalità dei colleghi e dalla presenza spesso ingombrante della famiglia, il giovane fisico riesce a dare il meglio di sé. Scriverà in una lettera alla madre: «L’ambiente dell’Istituto fisico è molto simpatico. Sono in ottimi rapporti con Heisenberg, con Hund e con tutti gli altri. Sto scrivendo alcuni articoli in tedesco. Il primo è già pronto, e spero di eliminare qualche confusione linguistica durante la correzione delle bozze». E ancora: «Ho scritto un articolo sulla struttura dei nuclei che a Heisenberg è piaciuto molto benché contenesse alcune correzioni a una sua teoria». E poi: «Nell’ultimo “colloquio”, riunione settimanale a cui partecipano un centinaio tra fisici, matematici, chimici, etc., Heisenberg ha parlato della teoria dei nuclei e mi ha fatto molta réclame a proposito di un lavoro che ho scritto qui. Siamo diventati abbastanza amici».

A soli quattro anni dalla laurea, il giovane siciliano è già lanciato verso il successo: la sua fama di grande scienziato ha ormai superato i confini nazionali.

Il nemico di se stesso

Ma Ettore Majorana ha di fronte un grande nemico: se stesso. L’uomo – lo abbiamo detto – ha un carattere difficile, ermetico, a tratti scontroso. Soffre di gastrite e di esaurimento nervoso. Terminata l’esperienza nordeuropea, rientra a Roma e il suo morale subisce un improvviso tracollo. Perfino la famiglia non lo riconosce più. Trascorre lunghi periodi rinchiuso in casa, si fa crescere barba e capelli, e quando riceve una missiva la rispedisce indietro con la dicitura: «Si respinge per morte del destinatario».

Molte sue intuizioni restano confinate sul quaderno degli appunti. Si rifiuta di pubblicarle, e a chi gliene chiede la ragione risponde alzando le spalle: «Sono solo sciocchezze!». Di lui Laura, la moglie di Fermi, racconterà: «Majorana aveva un carattere strano. Era eccessivamente timido e chiuso in sé. La mattina, nell’andare in tram all’Istituto, si metteva a pensare con la fronte accigliata. Gli veniva in mente un’idea nuova, o la soluzione di un problema difficile, o la spiegazione di certi risultati sperimentali che erano sembrati incomprensibili: si frugava le tasche, ne estraeva una matita e un pacchetto di sigarette su cui scarabocchiava formule complicate. Sceso dal tram se ne andava tutto assorto, con il capo chino e un gran ciuffo di capelli neri e scarruffati spioventi sugli occhi. Arrivato all’Istituto cercava di Fermi o di Rasetti e, pacchetto di sigarette alla mano, spiegava la sua idea».

Un ritratto molto simile verrà tracciato, anni dopo, da Edoardo Amaldi: «Talvolta, nel corso di una conversazione con qualche collega, [Majorana] diceva, quasi incidentalmente, di aver fatto durante la sera precedente il calcolo o la teoria di un fenomeno non chiaro che era caduto sotto l’attenzione sua o di qualcuno di noi in quei giorni. Nella discussione che seguiva, sempre molto laconica da parte sua, Ettore a un certo punto tirava fuori dalla tasca il pacchetto delle sigarette Macedonia (era un fumatore accanito) sul quale erano scritte, in una calligrafia minuta ma ordinata, le formule principali della sua teoria o una tabella di risultati numerici. Copiava sulla lavagna parte dei risultati, quel tanto che era necessario per chiarire il problema e poi, finita la discussione e fumata l’ultima sigaretta, accartocciava il pacchetto nella mano e lo buttava nel cestino».

Nel 1932 Majorana sostiene l’esame per la libera docenza. Gli offrono prestigiose cattedre, a Cambridge, a Yale e alla Carnegie Foundation, ma le rifiuta tutte. Vive ormai come un eremita, quasi barricato in casa. Trascorre le giornate divorando testi di letteratura e filosofia, a cominciare da Shakespeare, Pirandello e Schopenhauer. Si occupa di teoria dei giochi e strategia navale, ma anche di economia, politica e medicina.

In tutto ciò, continua a dedicare tempo anche alla fisica: lavora a una teoria delle particelle elementari e approfondisce lo studio dell’elettrodinamica quantistica, ma sembra assolutamente disinteressato a qualsiasi genere di riconoscimento da parte della comunità scientifica, sia in patria che all’estero. Certo deve suscitare non poca sorpresa, nel 1937, la sua improvvisa decisione di concorrere all’assegnazione della seconda cattedra italiana di Fisica teorica presso l’Università di Palermo. Racconterà Laura Fermi: «La terna dei vincitori era stata già tranquillamente decisa, come d’uso, prima della espletazione del concorso; e in quest’ordine: Gian Carlo Wick primo, Giulio Racah secondo, Giovanni Gentile junior terzo. La commissione, di cui faceva parte anche Fermi, si riunì a esaminare i titoli dei candidati. A questo punto un avvenimento imprevisto rese vane le previsioni: Majorana decise improvvisamente di concorrere, senza consultarsi con nessuno. Le conseguenze della sua decisione erano evidenti: egli sarebbe riuscito primo e Giovannino Gentile non sarebbe entrato in terna». Il fatto, tuttavia, è che il fisico Gentile altri non è che il figlio dell’omonimo filosofo, già ministro dell’Istruzione e amico personale di Benito Mussolini. Che fare? Silurare Gentile non è evidentemente possibile, ma lo stesso vale per Majorana, i cui meriti scientifici sono senza eguali. La soluzione arriva dopo qualche settimana, in sintonia con uno degli intramontabili dettami della burocrazia italica: promoveatur ut amoveatur. Il 16 novembre 1937 Ettore Majorana viene nominato professore straordinario presso l’Università di Napoli. La designazione avviene d’ufficio, «indipendentemente dalla normale procedura del concorso», «per l’alta fama di singolare perizia». La scaltra manovra sortisce il suo effetto: l’ingombrante concorrente è stato tolto di mezzo, Giovanni Gentile junior può finalmente raggiungere Palermo.

È così, a trentun anni suonati e dopo un lungo periodo di totale isolamento, che «il grande inquisitore» si trasferisce in Campania. Vi resterà per un pugno di mesi, fino al giorno della misteriosa scomparsa.