Riassumendo. Sappiamo che Ettore Majorana viveva in Venezuela con il nome di Bini, che bazzicava l’ambiente degli ingegneri e collaborava forse a certi progetti governativi. Sappiamo anche che veniva dall’Argentina, dove era conosciuto con il suo vero nome. Sappiamo che a Buenos Aires aveva frequentato gli stessi giri dell’alta borghesia italiana, che probabilmente fu spaventato dalla crescente instabilità politica che accompagnò il declino di Perón, e all’inizio degli anni Cinquanta seguì il suo amico Carlo Venturi alla volta di Valencia.
Ogni punto è supportato da diverse testimonianze, le cui conclusioni molto spesso coincidono. Bob Woodward e Carl Bernstein, gli smascheratori dello scandalo Watergate, seguivano il metodo dei tre riscontri, che si traduce in questo enunciato: perché una notizia sia pubblicabile è necessario che venga comprovata da tre diverse fonti indipendenti tra loro. Per ovvie ragioni di tempo e risorse, non siamo potuti giungere a tanto. Non abbiamo mai smesso, tuttavia, di cercare continue conferme a ciò che stavamo scoprendo. E molto spesso le abbiamo trovate.
Uno dei nostri chiodi fissi, specie nelle prime settimane, era scovare la casa dove visse Majorana. Avevamo in mente quel nome, San Rafael, e ogni volta che passando casualmente dall’autostrada vedevamo il piccolo barrio abbarbicato sulla collina ci guardavamo negli occhi e ci dicevamo che saremmo dovuti andarci.
Parlando con i vecchi italiani del Club di Valencia, ci eravamo resi conto di una cosa: quasi nessuno si ricordava di Bini. Abbiamo mostrato la sua foto a decine di persone, ripetendo infinite volte il suo nome: niente da fare. Allora ci sono tornate in mente le parole di Francesco Fasani: «Bini era una persona riservata che voleva tenersi lontana dalla vita mondana e dai siciliani». 1 Evidentemente ci aveva visto giusto.
Uno dei pochi italiani che sembra ricordarsi del nostro uomo è un vecchio barbiere di Valencia. Si chiama Rosario Miancuzzo e viene dalla Sicilia. A ottant’anni, nonostante la schiena curva, la psoriasi e l’artrosi, continua imperterrito a zampettare sull’impiantito della sua botteguccia, a un centinaio di metri dall’hotel Camoruco. Lo incontriamo quasi per caso, durante uno dei nostri mille spostamenti sulle tracce di Ciro e Fasani.
Chi sia Majorana, Rosario non lo sa: se n’è andato dall’Italia a vent’anni, ha avuto ben altro di cui occuparsi. Però la foto la riconosce a prima vista: non il ragazzo giovane sulla sinistra, no, quell’altro, il tizio anziano con pochi capelli, ecco, lui sì che l’ha già incontrato. Ne è proprio sicuro? Altroché, senza ombra di dubbio. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, Rosario abitava a Maracay, sull’altra sponda del lago. Erano tempi felici e prosperi, il lavoro abbondava e tutti gli italiani venivano a farsi barba e capelli nel suo bel negozio. Nel tardo pomeriggio si andava a plaza Girardot, di fronte alla catedral de San Diego. C’era la gelateria Palermo, con il suo caffè espresso, le granite e le cassate siciliane. Proprio davanti al bar c’era uno dei ristoranti più popolari della città, il Friulano: si chiamava così perché i proprietari erano originari di Udine, ma ovviamente il menù contemplava ogni genere di piatto italiano, dalla polenta all’amatriciana, e se ti sentivi un po’ nostalgico e volevi respirare l’aria di casa era inevitabile che a pranzo o a cena finissi a mangiare lì. È proprio in questo locale – di cui oggi non esiste più neanche l’insegna – che Rosario il barbiere è convinto di aver riconosciuto Ettore Majorana.
«Venne più di una volta, altroché se lo ricordo» racconta, sorbendo un zumo de naranja. «Spesso si sedeva al tavolo con una donna venezuelana, una signora molto più giovane di lui, di carnagione chiara. Mangiava con molta eleganza e compostezza, maneggiando le posate come un vero signore, muy delgado, e si vedeva che doveva essere una persona ben educata. Eravamo, io credo, verso la fine degli anni Cinquanta. Il signore non parlava con nessuno, era estremamente riservato e silenzioso, ed è anche per questo che finii col notarlo. Ricordo che un giorno lo incontrai pure a Valencia, ma in tutta onestà non saprei specificare dove.»
Navigando in rete siamo riusciti a trovare la foto di una Studebaker gialla, l’auto guidata da Bini. L’abbiamo stampata e ora la portiamo sempre con noi, nella speranza che chi non ricorda nomi e volti abbia quantomeno un debole per le auto sportive. Quando la mostriamo a Rosario, lui comincia ad annuire: «Me acuerdo, me acuerdo!» ripete, e ci assicura che sì, è un’auto che ha già visto, proprio in quegli anni, ed esattamente a Maracay.
Ancora una volta – come in un eterno loop – dobbiamo fare i conti con il nostro inevitabile corollario di coincidenze. Recitano i verbali di Francesco Fasani: «Posso dire che Bini mi veniva a prendere in macchina e con essa ci muovevamo per Valencia e in località circostanti. Posso dire che mi indicò di abitare in una frazione posta tra Valencia e Maracay, località quest’ultima dove alcune volte siamo andati a mangiare. Credo di ricordare che vivesse con una donna, ma non posso essere più preciso». 2
Visitiamo San Rafael in una torrida mattinata di fine luglio. Ci accompagna Diego, un tassista grassottello di origini italiane, che sfreccia impettito al volante di una scassatissima utilitaria blu. Diego ci sta simpatico fin da subito, per cui decidiamo di raccontargli tutta la storia di Majorana – che lui si ostina a pronunciare alla spagnola, «Maggiorana» – che lo entusiasma moltissimo: mentre facciamo colazione, con l’ausilio di Wikipedia e di un improbabile smartphone con i tasti consumati, ne approfitta infatti per farsi una breve cultura sull’argomento. «Este hombre es un genio» sentenzia dopo qualche minuto. «¿Pero porqué se refugió en San Rafael?» È proprio quello che vorremmo sapere anche noi.
San Rafael è un piccolo agglomerato di quattro vie in croce, in totale una cinquantina di case, tutte misere e fatiscenti. Il barrio è piuttosto pericoloso, e lo stesso Diego non si fida neanche ad accostare la macchina. Cerchiamo qualche anziano, ma l’intera fauna locale sembra ridursi a minacciosi gruppetti di ragazzini vestiti da rapper. Facciamo un paio di giri, aguzzando lo sguardo a ogni incrocio. Poi Diego inizia a innervosirsi: questo posto non gli piace, e non entusiasma neppure noi, non esistono negozi, né ristoranti o locali pubblici, le case, simili a baracche, giacciono ammassate le une sulle altre come vecchi pacchi all’interno di un magazzino. Veramente Ettore Majorana ha vissuto in uno di questi tuguri? La cosa sembra improbabile, eppure non possiamo esserci sbagliati: tra Valencia e Maracay l’unica località che porta questo nome è quella in cui ci troviamo adesso.
Dopo averci pensato un po’, il nostro Diego ha una improvvisa intuizione: «¿Porqué no vamos a la casita de los viejitos?». La casita de los viejitos altro non è che una sorta di ospizio in salsa tropicale. In un paese che va sempre più a rotoli, gli anziani sono spesso i primi a finire sulla strada: perciò le varie alcaldías (i municipi) hanno deciso di correre ai ripari, e l’amministrazione di Guacara, il comune nel quale ci troviamo, si è subito affrettata a seguire l’esempio. La casita de los viejitos di Guacara è situata qualche chilometro a nord di San Rafael, nel barrio di Tronconero. La struttura consiste in una casa color pastello, recintata con il fil di ferro e circondata da un giardinetto spelacchiato. I nostri viejitos sono tutti lì, schierati intorno a qualche mazzo di carte. Hanno l’aria mogia e mansueta e, non avendo sostanzialmente nulla da fare, sono molto contenti di ascoltare le nostre storie.
La prima notizia che riceviamo non è particolarmente incoraggiante: il barrio di San Rafael è stato fondato in tempi piuttosto recenti, intorno agli anni Settanta. Prima di allora quelle case non c’erano, esisteva soltanto una collina ricoperta di arbusti e non vi abitava anima viva. La cosa – a dir la verità – non ci sorprende più di tanto: di certo Majorana non amava i clamori delle grandi città, anche se spingersi in una contrada così disastrata sarebbe stata una mossa decisamente eccessiva.
Per fortuna decidiamo di non demordere: va bene – pensiamo – Majorana non viveva a San Rafael, ma queste persone hanno tutte più di ottant’anni: chissà che non lo abbiano visto comunque da qualche altra parte. Così, dissimulando lo scoramento iniziale, sparpagliamo sul tavolino la nostra logora collezione di fotografie. Il primo a parlare è un allampanato viejito di colore, con una coppola bislacca in testa e un’espressione compunta che lo fa assomigliare a Morgan Freeman. «Creo que lo he visto» mormora indicando Bini.
Come rispondendo a un segnale convenuto, tutti gli altri gli si fanno rapidamente attorno, contendendosi con le mani nodose la fotocopia della vecchia istantanea. «Si, claro» dice un altro. Un terzo annuisce, un quarto si appresta a studiare la riproduzione della Studebaker. In breve siamo sommersi da un coro di esclamazioni.
I ricordi sono strani. A volte scompaiono per sempre. In altri casi, come una specie di fiume carsico, finiscono con il riemergere in tempi e luoghi impensabili. Forse non tutte le memorie sono sincere: certe possono suggestionare, altre si suggestionano da sé. Ma nel nostro caso le memorie sono più di una, e tutte concordano sul medesimo punto: quell’uomo non era venezuelano, possedeva una macchina che non passava inosservata e negli anni Cinquanta viveva da queste parti. Dove? «Yo creo que vivía en San Agustín» sentenzia il nostro Morgan Freeman. Gli altri, attorno a lui, fanno sì con la testa.
Quando, nell’agosto del 2009, Laviani gli chiese dove abitasse Bini, Francesco Fasani ebbe un vuoto di memoria. Fu il procuratore aggiunto, aprendo Google Maps, a sottoporgli un elenco di possibili località. Di seguito viene trascritto il verbale.
Domanda: «Le mostro sul programma informatico di ricerca delle località Google la cartina delle località tra Valencia e Maracay. Ricorda per caso quel borgo cui faceva riferimento, dove Bini le disse di abitare?».
Risposta: «Dopo aver consultato la cartina che mi viene mostrata, credo di ricordare che il borgo era San Rafael». 3
Anche San Agustín si trova nel comune di Guacara. Sorge appena a sud dell’Autopista, poco distante da San Rafael. Ci risulta fondata già negli anni Quaranta, una data perfettamente compatibile con i tempi della nostra storia. Le case sono piccole e modeste, a uno o due piani, e certamente hanno vissuto anni migliori. Anni fa questo doveva essere un tranquillo quartiere residenziale, con i suoi negozietti, le tabernas, i giardinetti pubblici. In tutta Guacara – che conta oggi duecentomila abitanti – esistono solo due barrios con nomi di santi: che Fasani abbia confuso Raffaele con Agostino? L’ipotesi non è improbabile. E poi c’è dell’altro, il nome ufficiale di Guacara – come si legge a chiare lettere in varie fonti, persino su Wikipedia – è San Agustín de Guacara, il cui significato, in lingua indio, è a dir poco evocativo: «Sant’Agostino del tesoro nascosto».
Secondo il nostro Diego, anche San Agustín è un luogo piuttosto pericoloso. A differenza dei vampiri, i malandros venezuelani non temono la luce del sole: ragion per cui dobbiamo fare molta attenzione a non mostrare telecamere e macchine fotografiche, a non allontanarci troppo dall’auto e a non infilarci in vicoli secondari. Nonostante ciò, riusciamo ugualmente a fare il nostro lavoro. Il barrio è tagliato in due da calle Guayana, un lungo viale, a tratti alberato, che corre verticalmente da nord a sud. A est c’è un quartiere di case nuove, Loma Lida; a sud si va verso il centro; a nord e a ovest ci sono le case che interessano a noi: quelle più antiche.
Chiediamo informazioni in un bar, la licorería Fátima, dove scorgiamo una piccola folla di uomini in tenuta da lavoro. Ci indicano un cancello appena oltre l’incrocio e ci raccontano che lì abita una coppia di portoghesi piuttosto anziani, che forse hanno conosciuto l’uomo che stiamo cercando. Avanziamo scortati dal nostro Diego, il quale ha ormai disertato le esigenze del tassametro e non smette più di scalpitare: anche lui vuole godersi il lieto fine.
I due portoghesi sono effettivamente vecchi. La moglie è distesa su un divano colorato. Il marito, in pantaloncini e canottiera bianca, ci viene incontro con aria interrogativa. Gli mostriamo i nostri due ritratti, quello di Bini e quello della Studebaker. Lui osserva le fotografie per qualche secondo, poi sorride: «Claro, mi ricordo di lui – dice – e mi ricordo anche della macchina. Spesso la faceva condurre a un altro tizio, un uomo piuttosto giovane. No, non è il ragazzo della foto: aveva un viso diverso. Il signore abitava proprio qui dietro, in quei caseggiati laggiù. Era un tipo abbastanza solitario. Me acuerdo, si, veniva sempre a fare la spesa nel nostro negozio».
Trascorriamo nella zona un’intera giornata. I caseggiati indicati dal nostro viejito sono quelli compresi tra calle Guayana, calle Ricaurte e calle Ibarra. L’uomo non sa aggiungere ulteriori particolari, e nessuno dei passanti che interpelliamo è sufficientemente anziano per ricordare i vicini di casa degli anni Cinquanta.
Per non lasciare nulla di intentato ci giochiamo anche l’ultima carta: quella dei cimiteri. Il camposanto di Valencia conserva i registri di tutte le inumazioni dal 1940 a oggi. Accanto al numero di tomba, alla data e alle cause del decesso sono appuntati il nome e il cognome del defunto e la sua nazionalità. Per due giornate intere spulciamo uno per uno gli immensi libroni che giacciono tra l’obitorio e gli uffici dell’amministrazione, ma di Bini e Majorana non esiste nessuna traccia. Forse la soluzione si trova molto meno lontano di quanto sembri: giusto in fondo a calle Guayana, dove, in stato di semiabbandono, sorge il piccolo cimitero di Guacara. «Cementerio municipal de Guacara – recita l’iscrizione sopra il cancello principale – Fundado en el año de 1674.» Ma di questo parleremo più avanti.
Se Ettore Majorana ha veramente vissuto da queste parti – ci diciamo – di certo deve aver avuto dei documenti. Almeno due: la licencia de conducir e la cédula de identidad. Non sappiamo con quale nome si sia registrato, tuttavia abbiamo scoperto, grazie al database del Señor C., che in Venezuela hanno vissuto otto signor Bini, un signor Majorana e dieci signor Maiorana. Per poter verificare le loro identità dovremmo accedere ai rispettivi datos filiatorios. Insistere con il Saime di Valencia sarebbe perfettamente inutile: c’è la nostra señorita Katiuska, è vero, ma la storiella della vecchina in cerca del fratello può forse funzionare per un solo nome, non certo per diciannove. L’unica soluzione è passare al gioco duro: ricorrere a un avvocato, presentarsi ufficialmente come giornalisti e interpellare l’ufficio centrale del Saime. Ovvero quello di Caracas.
Il viaggio da Valencia alla capitale dura circa tre ore. La Cuna del Libertador, altro nome con cui è conosciuta, ci accoglie con una salva assordante di clacson e motori ruggenti. A differenza della nostra città di partenza – dove i ricchi stanno a nord e i poveri a sud – qui tutto è meravigliosamente mischiato. In pieno centro, accanto ai palazzoni scintillanti della city, puoi vedere le propaggini di una favela, le baracche abusive di un barrio o i panni stesi di un caseggiato popolare. Lungo avenida Bolívar sfilano fianco a fianco legioni di mendicanti, uomini d’affari in giacca e cravatta, studenti universitari, venditori ambulanti e sfaccendati di ogni sorta. Gli hotel sono economici ma sporchissimi. Il nostro, dalle parti del quartiere di Sabana Grande, è infestato da scarafaggi e pidocchi. Non è tra i più raccomandabili, e la strada dove sorge – come scopriremo parlando con il portiere – è soprannominata «la via dei mille coltelli».
Prima di concentrarci sul Saime, decidiamo di tentare con la motorizzazione, che da queste parti si chiama Intt, ovvero Instituto nacional de transporte terrestre. La sede si trova in avenida Francisco de Miranda, in un gigantesco complesso in vetro. La nostra missione non è semplice, però abbiamo un’idea: sappiamo che sulle patenti venezuelane, già negli anni Cinquanta, veniva allegata la fotografia dell’intestatario. All’epoca Valencia contava circa centomila abitanti, molti dei quali non possedevano un’automobile. Dunque, se il nostro Bini ottenne la licencia de conducir tra il 1950 e il 1955, ammesso che i documenti siano classificati per città e per anno – come peraltro risulta dalle informazioni che abbiamo raccolto –, tutto ciò che dovremmo fare sarebbe spulciare uno alla volta qualche migliaio di ritratti, fino a trovare quello giusto. Quanti potrebbero essere? Cinque, diecimila, non di più. Nella peggiore delle ipotesi, dividendoci il lavoro, dovremmo cavarcela in una decina di ore.
Il problema, ovviamente, si riduce alla questione: come faremo a mettere piede negli archivi? Questa volta andiamo dritti alla meta: ci presentiamo come giornalisti italiani, esibendo i nostri tesserini con tanto di firme, bolli e fototessere. Raccontiamo la storia di Majorana, cercando di enfatizzare il più possibile il nostro ruolo di detective al servizio di una nobile causa. Decidiamo di farci accompagnare da una giovane cronista locale: si chiama Angi e lavora per un celebre giornale dell’opposizione. A lei il compito di tradurre in buon castigliano i nostri sproloqui dall’accento maccheronico.
Se lo scopo fosse quello di far breccia nel presunto burocratismo bolivariano, di certo, per la seconda volta consecutiva, potremmo dire di averlo raggiunto: dopo dieci minuti di pantomima tutte le segretarie dell’Intt pendono rapite dalle nostre labbra. Il racconto, condito con la giusta mimica e una gestualità vagamente teatrale, deve risultare ancor più avvincente di una telenovela messicana. Ben presto le foto di Bini e della sua Studebaker cominciano a girare freneticamente di mano in mano, mentre ciascuno dei presenti, nessuno escluso, si domanda a voce alta che fine possa aver fatto il povero Ettore. Purtroppo le notizie che ci vengono date non sono affatto buone: l’archivio è diviso per anni e per città, e tutte le schede sono corredate di fotografia, ma purtroppo il palazzo dove era custodito è stato in parte distrutto da un incendio. Il fattaccio è successo qualche anno fa, poco lontano da qui. Esiste un database digitale, ma parte dagli anni Duemila.
Decidiamo comunque di non demordere. La povera Angi, stretta tra noi e l’affollatissimo tavolo della reception, si sforza di ripetere in modo comprensibile ogni singola domanda: come può essere che nessun documento si sia salvato dalle fiamme? Tutte le schede si trovavano in quell’archivio? Proprio non è possibile fare un piccolo controllo? Alla fine, tra l’esasperato e il divertito, le segretarie acconsentono a farci parlare con un dirigente, e siccome in Venezuela tutte le istituzioni sono in mano ai militari, si dà il caso che il nostro uomo sia addirittura un maggiore dell’esercito. L’ufficiale ci accoglie nel suo studio, all’ombra di un monumentale busto di Chávez. Angi è visibilmente intimorita: credeva di cavarsela con qualche traduzione e invece si è ritrovata in trappola nella tana del lupo.
Nonostante l’aspetto marziale, il maggiore ha modi affabili e amichevoli. Accetta di ascoltare la nostra storia, mentre con piglio professionale prende brevi appunti su un bloc-notes. Annuisce laddove c’è da annuire, sorridendo cortesemente e guardandoci negli occhi. Poi fa un paio di telefonate, e mentre attende le risposte ci affida un breve messaggio da trasmettere ai nostri connazionali: «Dite in Italia che aquí la lucha seguirá hasta la victoria – esclama – perché noi venezuelani marciamo uniti e compatti, al seguito del nostro presidente, el compañero Nicolás Maduro». Credevamo di essere prossimi al traguardo. Ci sbagliavamo: il maggiore – molto semplicemente – è un uomo a cui piace pavoneggiarsi di fronte ai giornalisti.
Il nostro ufficiale appare quasi desolato. Non sa più cosa dire e allora si rivolge ad Angi, che è rimasta zitta per tutto il tempo: «Y tu compañera – le domanda sorridendo – sei così giovane, per che giornale lavori?». La giornalista timidamente glielo confessa, lui avvampa, scatta in piedi: il colloquio può dirsi terminato.
Le risposte giungono dopo qualche minuto, per bocca delle medesime segretarie con le quali abbiamo parlato poco prima: ovviamente sono sempre le stesse.
L’accesso agli uffici del Saime risulta decisamente meno complesso. Innanzitutto perché i loro archivi sono in ordine e ben tenuti. E poi perché questa volta ci siamo attrezzati a dovere: abbiamo contattato Luis Buonanno, un ottimo avvocato italovenezuelano, esperto in materia. Se vuoi ottenere qualcosa da un ufficio pubblico di Caracas, sostanzialmente hai due possibilità: o conosci qualcuno, oppure te lo fai amico oliando i vari meccanismi. Il nostro avvocato ha ormai così tanti amici che può fare a meno dell’olio.
Se la cava in poche ore, dopo averci guidati in un rapido giro delle sette chiese. La sede del Saime si trova a un tiro di schioppo dal palazzo presidenziale di Miraflores, che fu per dieci anni la reggia di Hugo Chávez. È una vicinanza che deve pesare parecchio, perché tutti i locali sono immancabilmente arredati con il ritratto del Comandante. L’avvocato stringe la mano a ogni funzionario che incontra, mentre noi, sorridendo, ci limitiamo a fare sì con la testa. Evidentemente dobbiamo solo aspettare.
La sentenza finale giunge a metà pomeriggio, ed è a dir poco cristallina: nessuno dei nominativi in questione risulta compatibile con l’identità di Ettore Majorana. Alcuni sono arrivati in Venezuela negli anni Sessanta o Settanta, o addirittura ancora dopo. Gli altri risultano o troppo vecchi o troppo giovani.
Increduli, cerchiamo di raccapezzarci. L’avvocato Buonanno, che ormai conosce tutta la storia, azzarda una sua interpretazione: «Yo creo che questo fatto dia ragione al vostro Fasani» esclama grattandosi la testa. Il suo ragionamento è piuttosto semplice: se Bini fosse stato Bini e basta, e tutta questa vicenda fosse una banale messinscena, dovrebbe risultare con il suo cognome. Che Majorana non compaia è perfettamente comprensibile, perché in ogni caso avrebbe adottato un’identità fittizia. Ma perché mai non dovrebbe esserci neanche Bini? L’avvocato non ha dubbi: «Vuestro hombre aveva con sé dei documenti falsi». Insomma, Majorana avrebbe avuto una tripla identità: la sua, nota solo a Carlo Venturi e a pochi altri, quella di Bini, riservata agli amici e ai conoscenti occasionali, e una terza, quella ufficiale, che noi purtroppo ignoriamo completamente. L’ipotesi è intricata, ma neanche troppo incredibile: se è pacifico che ogni fuggiasco cerchi in tutti i modi di tutelarsi, un fuggiasco geniale lo farà con metodi all’altezza della sua fama.
Costruirsi una falsa identità, tuttavia, può non essere un gioco da ragazzi, specie per chi è appena emigrato da un altro paese. Devi avere i contatti giusti, farli fruttare, essere sicuro che non ti tradiscano. D’improvviso ci tornano in mente i «progetti governativi» di cui parlava il nipote di Leonardo Cuzzi.
Che fossero quelli i giusti contatti di Ettore Majorana?