La vita di Ettore Majorana sembra scandita da continue fughe.
La prima fu quella del 1938, che riuscì a mascherare da suicidio. Poi ci fu la partenza dall’Argentina di Perón, all’inizio degli anni Cinquanta, della quale conosciamo molto poco. Infine c’è la fuga nel convento di plaza Sucre, in compagnia del giovane amico Francesco Fasani, all’indomani del colpo di Stato del 1958. Ogni fuga ha le sue precise motivazioni: se Ettore volle lasciare l’Italia, molto probabilmente fu perché si sentiva oppresso dall’ambiente familiare e da quello accademico. Dall’Argentina dovette andarsene per ragioni politiche: il governo di Perón stava per essere rovesciato, la violenza dominava il paese, alcuni suoi amici avevano avuto guai con la polizia segreta. Il rifugio nel convento di Valencia – che pure piacque a Sciascia – resta un piccolo mistero. È vero, c’erano state le violenze contro gli italiani, ma erano rimaste circoscritte alla zona di Caracas, e solo nei giorni successivi al golpe. Forse Fasani aveva avuto rapporti ambigui con certi ambienti militari, è più che possibile, ma questo cosa c’entrava con Bini? L’ipotesi più interessante sembra quella ventilata dalle parole di Christian Zamolo, il nipote di Leonardo Cuzzi: è probabile che il nonno abbia collaborato con Bini a certi «progetti governativi», alcuni dei quali dovevano essere particolarmente «riservati». Di quali progetti doveva trattarsi? E perché erano così delicati?
Se da Caracas si viaggia in direzione sud-ovest, inerpicandosi sulle creste della Cordillera de la Costa, una catena montuosa che fronteggia il mare, si arriva in una località dal nome simpatico: los Altos de Pipe. Si tratta di un grande altipiano tropicale che la mano dell’uomo non è ancora riuscita a violare. Dopo aver percorso una serie di tornanti, la strada si inoltra nella foresta. Attraversandola tutta si arriva alla capitale dello Stato di Miranda, Los Teques, una cittadina da duecentocinquantamila abitanti nota per le sue industrie e le sue miniere. Deviando sulla destra, circa dieci chilometri prima, ci si ritrova invece di fronte a una sbarra. Un gruppo di poliziotti vi chiederà i documenti, mentre diverse paia di occhi indagatori, tramite gli obiettivi delle videocamere di sicurezza, scruteranno con attenzione il vostro volto. Questo non è un luogo qualunque. Qui ha sede l’Instituto venezolano de investigaciones científicas, la cui sigla, Ivic, è ormai nota in tutto il mondo. 1
Era il 2005 quando sulla stampa internazionale iniziò a circolare una voce piuttosto insistente: sull’esempio dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad, anche il Venezuela chavista stava lavorando alla costruzione della bomba atomica. Nel mese di ottobre di quell’anno su «Bbc Mundo» si legge: «La possibilità che il Venezuela sia pronto ad acquistare un reattore nucleare, e che l’Argentina o il Brasile siano disposti a venderglielo, è ormai un fatto quasi certo». «Noticiero Digital», nel settembre 2007, riporta: «La corsa al nucleare in America Latina ha ormai scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. Ci riferiamo alla costruzione della bomba atomica con fini difensivi e dissuasivi, che nelle mani di Chávez potrebbe trasformarsi in una minaccia permanente nei confronti della Colombia e del Brasile. Questi paesi, non potendo permettere che Chávez sia l’unico a possedere la bomba, dovranno costruirla a loro volta, e in tempi assai rapidi». E «Telesur», due mesi più tardi: «Il presidente del Venezuela ha decisamente smentito le voci secondo le quali il suo recente viaggio in Iran avrebbe avuto come obiettivo la progettazione di una bomba atomica chavista». L’assemblaggio dell’ordigno, stando alle voci che circolano, sarebbe dovuto avvenire proprio all’Ivic. Sarà lo stesso direttore del Laboratorio de física computacional presso l’Instituto, il professor Claudio Mendoza – con un articolo al vetriolo che gli costerà il posto di lavoro – a lanciare uno dei primi allarmi: «Siamo atterriti dall’intransigenza dei paesi che oggi puntano a far parte del club atomico» scriverà. «Ovvero, la Corea del Nord, l’Iran e il nostro amato Venezuela.» E ancora: «Qui da noi si costruiscono ponti senza ingegneri, si fanno diagnosi senza medici, si raffina il petrolio senza raffinerie, si insegna senza essere maestri, si governa senza essere statisti. Perciò, quando si tratterà di sfruttare l’energia atomica, lo si farà senza neanche interpellare i fisici». Per fortuna gli allarmi si riveleranno infondati: all’Ivic non verrà costruita nessuna bomba atomica, ma da allora una fama decisamente sinistra comincerà ad aleggiare tra le foreste degli Altos de Pipe.
Cosa c’entra Ettore Majorana con l’Instituto venezolano de investigaciones científicas, presunta cittadella occulta dei mad doctors chavisti? Forse molto più di quanto si immagini.
La prima coincidenza ci viene fatta notare dal nostro Señor C., il quale, sempre attentissimo anche al minimo particolare anagrafico, si è imbattuto in un dato singolare: al momento del suo arrivo in Venezuela, nell’ottobre del 1950, Leonardo Cuzzi non andò a farsi registrare né a Valencia né a Caracas, bensì a Los Teques. Per quale ragione? El Señor C. ha una sua personalissima tesi: lo sappiamo noi, in quegli stessi anni, qual era il fiore all’occhiello dell’Ivic? Il più riservato tra i progetti governativi di Marcos Pérez Jiménez: l’Rv-1, il primo reattore nucleare di tutta l’America Latina.
Riusciamo a mettere piede all’interno dell’Ivic in una data particolarmente evocativa: il 6 agosto 2015, a settant’anni esatti dal bombardamento atomico di Hiroshima. Ci accompagna un personaggio importante, il professor Leancy Clemente, ex ufficiale di marina, nonché presidente della Sociedad nuclear de Venezuela.
Leancy guida una malandata Mercedes degli anni Novanta, è stato buon amico di Chávez, e con un semplice gesto del capo riesce a tranquillizzare poliziotti e videocamere di sicurezza, che evidentemente conoscono bene il suo volto, facendoci superare senza problemi le sbarre di metallo. Il nostro racconto lo ha entusiasmato: apprezza i lavori di Majorana e la sola idea che il grande fisico possa aver lavorato nel futuro tempio della scienza bolivariana lo riempie visibilmente di orgoglio.
La storia di questo luogo si intreccia con quella di uno tra i più insigni uomini di scienza latinoamericani di tutto il XX secolo: il professor Humberto Fernández-Morán, di cui Leancy Clemente ha scritto peraltro diverse biografie. Fernández-Morán nacque a Maracaibo il 18 febbraio 1924. A dodici anni seguì il padre in esilio a New York. A tredici – ovvero nel 1937, quattro anni dopo Majorana – si trasferì nella Germania nazista per completare i propri studi: frequentò la scuola del distretto di Schwandorf, in Baviera, dopodiché, a soli sedici anni, si iscrisse alla facoltà di Medicina presso l’Università di Monaco, dove si laureò nel 1944. Tra il 1945 e il 1951 fu prima a New York e poi a Stoccolma, dopo proseguì i suoi studi di neurochirurgia. Lavorò all’Istituto Nobel di fisica e al Karolinska Institutet, una delle università più prestigiose al mondo. Tornato a Caracas, convinse Marcos Pérez Jiménez a puntare sulla ricerca scientifica. Fu così che nacque l’Ivic e venne costruito il celebre reattore. L’operazione costò cinquanta milioni di dollari e fu finanziata in larga parte con fondi statunitensi. Il 13 gennaio 1958 – forse per un debito di riconoscenza nei confronti del dittatore – il trentaquattrenne Fernández-Morán accettò la poltrona di ministro de Educación de Venezuela, posto che conservò per dieci giorni esatti, ovvero fino alla data del golpe. Il colpo di Stato lo costrinse alla fuga e all’esilio, che consumò principalmente negli Stati Uniti. Durante gli anni del confino, Morán insegnò all’Università di Chicago, al Mit di Cambridge e negli atenei di Harvard e Stoccolma. A lui si devono l’invenzione del bisturi in diamante e quella del crio-microscopio elettronico, che gli fruttarono riconoscimenti e fama in tutti gli ambienti scientifici. «Fernández-Morán morì nel 1999» racconta Leancy Clemente. «Egli fu un geniale innovatore, e forse avrebbe meritato di vincere il premio Nobel. Fu in ottimi rapporti sia con Enrico Fermi che con Albert Einstein, che conobbe durante gli anni Quaranta, nel corso delle sue prime esperienze statunitensi. Se è vero che Ettore Majorana visse in Venezuela, sono assolutamente certo che lui e Morán entrarono in qualche modo in contatto. Avevano troppe cose in comune, troppe.»
Dopo aver sfilato lentamente di fronte a una lunga serie di padiglioni immersi nel verde, la nostra Mercedes imbocca il vialetto di un piccolo parcheggio in cemento. La costruzione davanti alla quale si ferma è sovrastata da una grande struttura cilindrica: eccolo l’Rv-1, il mitico reattore di Fernández-Morán.
L’interno dell’edificio è piuttosto fatiscente. I corridoi scrostati conducono a squallidi ufficetti amministrativi, le cui pareti sono arredate alla bell’e meglio con poster scoloriti e vecchie stampe in bianco e nero. Veniamo presentati al personale: un paio di tecnici, qualche segretaria con minigonna e tacchi alti, infine un fisico corpulento e stempiato, dalle mani perennemente sudaticce. Se davvero Chávez progettava di costruire qui dentro la sua bomba atomica – pensiamo – doveva essere quantomeno pazzo.
Con fare pomposo, i nostri anfitrioni ci ragguagliano circa la gloriosa storia della struttura. Il reattore fu realizzato con scopi puramente accademici: aveva una potenza di tre megawatt e funzionava con uranio arricchito al 20 per cento. I lavori iniziarono nel 1956, con la collaborazione della General Electric e della Shaw, Metz and Dolio di Chicago. L’inaugurazione fu celebrata il 12 luglio 1960, a due anni e mezzo dal colpo di Stato. Nel 1991, dopo tre decenni di onorato servizio, il reattore cessò la sua attività. Nel 2001 – al costo di 2,1 milioni di dollari – la struttura fu riconvertita per scopi medici, con il nome di Planta de esterilización por rayos gamma Pegamma. Da allora viene utilizzata per sterilizzare gli utensili ospedalieri dell’intero paese: garze, bisturi, guanti, camici, mascherine, cuffie, biberon. Ogni singolo scatolone viene sistemato sul nastro trasportatore e sottoposto a un lento irradiamento. «Es una operación muy interesante» ci assicura il nostro fisico, che con passo rapido e nervoso ci accompagna fin nelle viscere del malandato edificio.
Quando finalmente – approfittando di una pausa – proviamo a nominargli Ettore Majorana, il suo volto si illumina di una luce improvvisa, perché certamente è un personaggio che conosce bene, di cui ha letto sui libri dell’università. Leancy Clemente, che ormai ha sposato la nostra tesi, lo raggela con una frase che non accetta repliche: «Es cierto que el trabajó aquí». Il fisico si blocca, come interdetto. Scambia un’occhiata con gli assistenti, che pure devono avere capito tutto: «Majorana» mormora. «Esto también es muy interesante.» Proviamo a incalzarlo: che ne è dei vecchi scienziati che lavorarono da queste parti negli anni Cinquanta? Sono tutti morti, purtroppo, tranne il profesor Arnaldo Marruvio, un fisico ultraottuagenario che vive a Los Teques, ma le cui condizioni di salute sono ormai compromesse.
Dopo essere riemersi dall’antro del reattore andiamo ad accomodarci in ufficio, attorno a un tavolino traboccante di carte e posacenere pulitissimi. Gli sguardi sono tutti fissi su di noi, come nei duelli dei film western. Raccontiamo tutto ciò che sappiamo: Ettore Majorana si faceva chiamare Bini, viveva a Valencia ma spesso viaggiava per il paese a bordo della sua Studebaker. Probabilmente lavorò a qualche progetto governativo, ai tempi di Marcos Pérez Jiménez, e doveva trattarsi di progetti particolarmente riservati, proprio come questo. Lui e Fernández-Morán avevano diverse cose in comune: entrambi avevano studiato in Germania negli anni Trenta, entrambi avevano conosciuto Fermi, entrambi si erano in qualche modo compromessi collaborando con il regime jimenista, entrambi, infine, erano dovuti fuggire all’indomani del golpe. E poi c’è un ultimo elemento, inoppugnabile: per quale ragione Nardin, alias Leonardo Cuzzi – l’uomo con il quale Bini intratteneva rapporti lavorativi e che si occupava per l’appunto di centrali energetiche – aveva chiesto e ottenuto la sua cédula de identidad nell’insignificante cittadina di Los Teques, a soli dieci chilometri da qui?
I nostri interlocutori ci guardano con occhi incerti. Ancora una volta le coincidenze sono numerose. Ancora una volta, purtroppo, non è possibile però andare oltre.
Leancy Clemente, tra tutti noi, è quello con le idee più chiare: lui Morán lo ha conosciuto veramente, ai tempi del Mit di Cambridge. Fu lui a insistere con Chávez affinché la salma del grande scienziato venisse traslata in Venezuela. Fu lui a chiedere più volte, inutilmente, che il reattore venisse intitolato alla sua memoria. La sua sicurezza finisce con il contagiarci: e se veramente avesse ragione lui? «L’Rv-1 era una struttura d’avanguardia» racconta con voce pacata. «Decine di tecnici, fisici e ingegneri vennero a specializzarsi quassù, da ogni angolo dell’America Latina. Molti vennero persino dall’Europa e qualcuno anche dall’Italia. Questo lo so per certo, perché me lo disse il professor Morán. Credetemi: se il vostro Bini era Ettore Majorana, di certo frequentò questi luoghi.» Non sappiamo se sia vero, ma ci piace pensare di sì.
Fuori, tra le foreste degli Altos de Pipe, sta cominciando a calare la sera. Usciamo finalmente all’aperto, respirando a pieni polmoni l’aria fresca della Cordillera de la Costa.
Mancano soltanto due giorni al nostro rientro in Italia. L’inchiesta si è ormai conclusa e lo ha fatto come tutte le storie che si rispettino: lasciando aperte nuove domande, a cui un giorno, forse, qualcun altro saprà dare nuove risposte. Prima di tornare, però, dobbiamo visitare un ultimo luogo: un luogo importante, almeno dal nostro punto di vista. Ci andremo da soli, questa volta, senza farci accompagnare da nessuno. Perché in fondo è giusto così.