Mi capita spesso di pensare che non sarebbe male disporre di un imbonitore per spingere il prodotto. Un sorridente e ammiccante piazzista affetta-verdure, un ossuto genio della truffa da fiera statale con un laringofono penzoloni sul pomo d’Adamo sporgente che si protenda dal suo chiosco, con i polsi della camicia bianca arrotolati ben lontano dalle mani ipnotiche e affusolate, e che strombazzando attiri l’attenzione e l’occhio del passante: «Ammirate, gente, ammirate! Questa meraviglia dell’universo quotidiano. Uno spettacolo di rara bellezza, ne converrete, giovanotti e pulzelle. Che lo giri e lo si capovolga, lo si osservi da ogni angolazione… lo sguardo ne uscirà sempre da dove meno ci si aspetti. Rimirate con me: le sfere concentriche si avvicendano rimpicciolendo l’una dentro l’altra come palle di vetro che si fan sempre più minute… tanto che la più piccola sfugge perfino allo sguardo che si avvalga dell’ausilio di un congegno scientifico! Sissignori, amici miei, un’autentica rarità, un articolo as-so-lu-ta-men-te unico, sono certo che converrete…»

E dire che su e giù per la costa occidentale ne esistono eccome, di paesucoli assai simili a Wakonda. Su fino a Victoria, s’intende, e giù fino a Eureka. Paesi che dipendono da ciò che riescono a strappare al mare davanti e alle montagne dietro, intrappolati a metà strada. Paesi azzoppati dalle economie locali, da sindaci e camere di commercio col timbro facile, dai pantani burocratici… Conservifici con la vernice scrostata presa a un dollaro al quarto dai surplus militari, segherie col muschio che spunta fra le travi imbarcate… così identici fra loro che potrebbero essere contenuti uno dentro l’altro come giocattoli cavi. Fili elettrici corrosi, macchinari che cadono a pezzi. Gente che lamenta in eterno ristrettezze e difficoltà, lavoro duro e paga da fame, venti gelidi e inverni ancor più gelidi in vista…

Una spruzzata di edifici scatoliformi nelle vicinanze di una segheria, solitamente sulle sponde di un fiume, e un conservificio sul molo col pavimento da sostituire. La via principale è una striscia di asfalto bagnato e sbavato dai bagliori dei neon da bar. Se un semaforo c’è, è più un simbolo che una misura di sicurezza… Il Commissario per i Trasporti al Consiglio comunale: «Su a Nahalem hanno ben due semafori! Non vedo perché a noi non ne spetti almeno uno. Il guaio di questo paese, perdio, è che non c’è abbastanza orgoglio civico!».

Secondo lui il guaio è questo.

C’è una sala cinematografica, aperta giov., ven. & sab. sera, e accanto una lavanderia, entrambi di proprietà dello stesso itterico e austero imprenditore. Il cartellone recita: I CANNONI DI NAVARONE G PECK + TRE MAGLIETE 99¢ SOLO QUESTA SETIMANA.

Secondo questo scialbo cittadino il guaio è che non ci sono abbastanza T.

Dall’altra parte della strada, dietro le vetrine ingombre di fotografie dai bordi arricciati di case e fattorie ritoccate, l’Agente Immobiliare siede con un mucchio di trucioli di pino bianco in grembo… Cognato del magnate del cinema-lavanderia dallo sguardo spento, il nostro Agente Immobiliare è noto per essere un tipetto scaltro con l’ipoteca sulla casa, nonché un consumato oratore che infiamma le folle ai pranzi del Jaycee che si tengono ogni terzo martedì del mese: «Questa è una zona dal potenziale inespresso, ragazzi miei, una gigantessa addormentata. Abbiamo avuto i nostri guai, non lo nego, e ancora ne abbiamo grazie agli otto anni passati sotto l’amministrazione di quel tirchio bastardo fissato con l’esercito, giù alla Casa Bianca, ma adesso siamo usciti dal pantano, siamo a una svolta!».

E sulla sua scrivania la collezione di statuette omaggio per i clienti – miniature in legno di pino bianco di Johnny Redfeather scolpite dalle abili dita del nostro Agente Immobiliare in persona – campeggia a mo’ di valente esercito della salvezza, con lo sguardo legnoso rivolto fuori, verso una lunga successione di vetrine vuote. I cartelli AFFITTASI sulle porte sono appelli disperati a tornare e levare il bianco dalle vetrine per rimetterlo sulle pareti, a tornare e riempire gli scaffali con file di barattoli lucenti di carne spalmabile e fagioli speziati, il banco dei dolciumi con cartoni e cartoni di Day’s Work, Copenhagen, Skol, Climax; a tornare e riempire le panche intorno alla stufa a legna con la chiassosa orda di barbuti fumanti dagli scarponi chiodati che era solita – tanto tempo addietro, tre o quattro decenni almeno – pagare una dozzina di uova tre o quattro volte più che in città; erano uomini che trattavano solo in banconote di carta, perché le tasche dei loro pantaloni non erano fatte per trattenere oggetti più piccoli di un quarto di dollaro. AFFITTASI, VENDESI, IN LOCAZIONE, proclamano i cartelli sulle porte, «Prosperità e nuove frontiere» proclama invece quell’arruffapopoli dell’Agente Immobiliare davanti a un bicchiere di birra. Il tipetto scaltro il cui unico affare, dalla Giornata dei Fondatori, aveva coinvolto giusto l’incipriato marito della sorella e una piccola e cadente sala cinematografica ormai in fallimento, situata accanto alla lavanderia. «Diamine, ci puoi scommettere. D’ora in avanti è tutto liscio. Il nostro unico guaio è questa punta di recessione che abbiamo patito sotto il regime di quel generale!»

Ma i cittadini di Wakonda cominciano ormai a concordare di non essere d’accordo. Quelli del sindacato inizialmente asseriscono: «Il guaio non è la gestione, ma l’automazione. Seghe elettriche, gru a cavo a un solo operatore, verricelli portatili – con la metà degli uomini si potrebbe tagliare il doppio degli alberi. La soluzione è semplice: la giornata lavorativa del taglialegna deve durare sei ore, proprio come quella dello scandolatore. Ragazzi, dateci turni di sei ore con paghe da otto, e quant’è vero Iddio faremo sì che tutti i nostri membri taglino il doppio degli alberi!».

E i membri sbraitano e fischiano e battono i piedi in segno di approvazione, malgrado sappiano che più tardi, al bar dopo la riunione, il solito guastafeste rammenterà a tutti che, «il guaio è che il doppio degli alberi non ce l’abbiamo più; qualche viperaccia ne ha abbattuti un bel mucchio negli ultimi cinquant’anni e passa».

«No! No!» strepita l’Agente Immobiliare. «Non è il legno a mancarci, ma gli obiettivi

«Forse» dice il Reverendo Fratello Walker della Chiesa di Dio e della Scienza Metafisica «ci manca Dio». Prima di proseguire beve un misurato sorso di birra dal suo bicchiere. «Non c’è dubbio che i guai spirituali in cui versiamo siano più gravi assai di quelli economici».

«Non c’è dubbio! Lungi da me togliere importanza a questo, ma–»

«Ma quello che il signor Loop intendeva dire, Fratello Walker, è che servono carne e patate per mantenere alto il morale».

«Uno dovrà pur sopravvivere, Fratello».

«Sì, ma “non di solo pane”, rammenta?»

«Non c’è dubbio! Ma, per Dio, nemmeno di solo Dio».

«Ma dico, se non c’è legna da tagliare–»

«Di legna ce n’è quanta ne vuoi! Hank Stamper non lavora forse giorno e notte? Eh?»

Tutti bevono assorti.

«Quindi il guaio non è la mancanza di legna…»

«Nossignore, no…»

Bevevano e discutevano sin dal primo pomeriggio, seduti all’enorme tavolo ovale tradizionalmente riservato a caucus del genere e, pur non facendo parte di alcuna organizzazione ufficiale, questo casuale manipolo di otto, dieci residenti era comunque riconosciuto come l’autorità normativa del paese e le sue decisioni erano consacrate, al pari della sala in cui si riuniva.

«Ben detto, comunque, a proposito di Hank Stamper».

La suddetta sala, quella dello Snag, sorge a pochi civici di distanza dal cinematografo, dirimpetto alla grangia. All’interno non risulta più insolita dei suoi frequentatori abituali – i divanetti e gli sgabelli sono repliche fedeli di mobilia simile esibita nei locali di altri paesini pedemontani – ma la facciata, quella sì, è a dir poco spettacolare. L’ampia vetrina contiene un assortimento di insegne al neon recuperate da un gran numero di bar rivali che Teddy ha ridotto sul lastrico nel corso degli anni, e quando Teddy al calare del crepuscolo allunga una mano sotto il bancone e preme l’interruttore, capita che il bevitore ignaro si spaventi a tal punto che all’esplosione di luci si accompagna quella di un bicchiere sul pavimento. I neon affollano la facciata con una cangiante danza di colori che ammiccano e s’avvitano su se stessi contendendosi lo spazio della vetrina, si sovrappongono, s’intrecciano sibilanti come serpi elettriche. Ruotano da un verso, poi dall’altro. Tale è il caos di luci cui le molte insegne danno vita che in una notte buia l’effetto è quasi udibile. In una notte buia e umida creano un baccano da spaccare i timpani. Sentite: all’ingresso un’insegna rosso fuoco grida Red Dragon; appena sotto, una scritta verde e gialla insiste per L’ultimo goccio strizzando l’occhio a un Martini con una ciliegia dentro; accanto, un mastodontico essere arancione esorta VIENI A PRENDERLO!; e ancora accanto, Il Mandriano scaglia un dardo rosso verso l’adiacente bottega del barbiere. Il Gabbiano e il Gatto Nero si pigliano a urlacci in una cacofonia di rossi e verdi. L’Alibi, La Nassa e il Casa Wakonda bisticciano. I tanti birrifici ingaggiano duelli a suon di slogan: È l’acqua… e Dove c’è vita… e Mabel, Black Label

Tuttavia, pur esibendo cotanto trionfo d’insegne, lo Snag non ne possiede una propria. Anni addietro le parole Snag, bar & grill erano state tracciate con la vernice sul vetro della facciata, già colorato di verde, ma via via che acquisiva nuovi locali con l’intenzione di chiuderli, Teddy aveva cominciato a grattare via il verde per far posto ai neon catturati ed esposti come gli scalpi del nemico. In una giornata limpida, a neon spenti, se si accosta l’occhio al vetro si riconoscono ancora i contorni sbiaditi di alcune lettere, ma nulla che rassomigli a un nome. La notte, quando si accendono, i neon sono troppi e troppo intricati perché uno possa spiccare sugli altri.

C’è un’insegna, però, che nel tempo si è conquistata una nota di merito; non è di quelle elettriche – è solo una tavola di legno finemente intarsiata che penzola solitaria da due viti ad anello sopra la porta d’ingresso. Non avendola acquisita tramite la solita, violenta manovra finanziaria, ma grazie a un vecchio matrimonio durato quattro miseri mesi, Teddy preferisce quell’anonimo emblema agli altri, lampeggianti e vistosi; in caratteri di un blu placido ed elegante, l’oscuro stendardo di modeste dimensioni ammonisce, «Ricorda… anche un bicchiere è un bicchiere di troppo. WCTU».

Uomo basso e tarchiato di polpesche fattezze in una terra di allampanati spaccalegna, Teddy va fiero della propria collezione di insegne. Napoleone non aveva bisogno di scarpe-ascensore per farsi imponente dinanzi al prossimo: lui aveva il petto gonfio di medaglie. Era quel simbolo di successo a render conto della sua statura. Eh sì, con quelle medaglie addosso poteva anche starsene zitto, mentre quegli altri barbari si lagnavano delle proprie sventure…

«Teddybear, un altro giro».

… e scolavano i bicchieri…

«Teddy?»

… e morivano di lenta e barbara paura…

«Teddy! Perdinci, ragazzo, rianimati».

«Signorsì». Lo strappavano ai suoi pensieri. «Mi dica, signore, birra?» «Sì, perdio, birra». «In arrivo, signore…» Impalato in fondo al bancone, ad assorbire il chiacchiericcio nella penombra della sala, era capace di isolarsi totalmente da quel mondo bruto e berciante. Adesso, in uno sfarfallio di braccia correva su e giù dietro il bancone, ogni parvenza di contegno infranta. Le dita grasse tremavano mentre radunava una riserva di bicchieri puliti. «Sono subito da voi». Si affrettò a portare l’ordine al tavolo facendo gran mostra di zelo per ovviare al ritardo. Ma gli uomini avevano già ripreso a congetturare sul guaio locale e lo ignoravano. Certo. Non potevano che ignorarlo, quei babbei. Avevano timore di andare a fondo. Spaventa percepire superiorità in un individuo tanto–

«Teddy!»

«Sissignore. Dimenticavo; light, ha detto? Gliela cambio subito, il tempo di radunare questi altri bicchieri…»

Ma l’uomo stava già trangugiando la sua birra. Teddy, suole di para e portamento spettrale, se ne tornò dietro il bancone, ignorato.

La porta a zanzariera elettrificata all’ingresso si aprì, e un’altra figura oltrepassò l’arco di luce solare – una più grande, più antica, che avanzava con potenti tonfi degli scarponi chiodati, e altresì spettrale tanto quanto quella di Teddy. Si trattava dell’eremita della zona, un tale ingrigito e dalla folta barba noto a tutti semplicemente come «quel vecchio tagliaciocchi vagabondo alcolizzato venuto dalle parti del South Fork». Da eccellente sramatore che era un tempo, si ritrovava oggi così decrepito e storpio da doversi guadagnare la pagnotta girando a bordo di un furgone dai sedili sfondati per le zone già disboscate della regione, dove uno o due giorni la settimana sgrossava ciocchi di cedro da farne assicelle, ciocchi che poi rivendeva alla segheria dall’altra parte del paese a dieci centesimi l’uno. Una caduta rovinosa, da sramatore a tagliaciocchi. E l’ignominia di una tale caduta sembrava aver intaccato come muffa quell’apparato che proietta la presenza di un uomo; il tagliaciocchi si muoveva dinanzi al prossimo come avvolto nella nebbia, e una volta passato, non si riusciva a concordare sul suo reale aspetto né, se è per questo, sulla sua effettiva esistenza. Ma siccome allo Snag non lo si vedeva di frequente (benché ci passasse davanti a bordo del suo furgone almeno una volta alla settimana), non era possibile ignorarlo come facevano con Teddy. Era una rarità quanto Teddy era arredamento. Prima di accomodarsi al bancone, l’uomo si fermò per un attimo ad ascoltare le chiacchiere degli avventori. Sotto il suo scrutinio la conversazione tremolò fino a estinguersi del tutto. Allorché quello smoccolò sonoramente nella barba e procedette verso il bancone senza proferire verbo.

Anche lui aveva le sue idee circa quale fosse il guaio.

La conversazione non riprese finché il vecchio non ebbe acquistato un abbondante bicchiere di vino rosso da Teddy e non si fu trascinato nel retro oscuro del bar.

«Povero diavolo» trovò la forza di commentare l’Agente Immobiliare, il primo a riprendersi dal temporaneo sentimento di inquietudine che era calato sul tavolo.

«Eh già» disse il taglialegna dal cappello grigio stropicciato.

«Quello che si dice di lui è la pura verità, sapete».

«Vino?»

«Porto scadente. Se lo procura a casse da Stokes, una la settimana».

«Che tristezza» fece il proprietario del cinema-lavanderia.

«Tsk tsk» fece Fratello Walker, il quale avendo appreso l’onomatopea su Joe Palooka diceva più «tisk tisk», perché così credeva che si pronunciasse.

«Una tristezza davvero».

«Troppi anni nei boschi per un vecchio diavolo come lui; peccato».

«Peccato?» disse il boscaiolo. «È un delitto, perdio, ecco cos’è, portate pazienza, Fratello Walker, ma a parlarne ogni volta mi scaldo». E ciò detto avvampò di nuova fiamma e riprese il filo del discorso interrotto sbattendo sul tavolo un pugno fuligginoso. «È un delitto, quant’è vero Iddio! E una vergogna! Che a un povero cristo gli tocchi– ’Scolta, di pensioni e salario minimo garantito… non è di questo che va blaterando Floyd Evenwrite da due anni a questa parte?»

«Sì, esatto».

Stavano rientrando in carreggiata.

«Il guaio di questo paese è che non riusciamo nemmeno a raccapezzarci dell’organizzazione che è nata apposta per aiutarci: il sindacato

«È non è quello che dice sempre Floyd, santiddio? Che secondo Jonathan Draeger Wakonda è indietro di anni rispetto alle altre cittadine nei boschi. E, guarda un po’, è proprio quello che penso anch’io».

«E questo ci riporta dritti a tu sai chi e alla sua progenie di teste dure!»

«Per l’appunto! Puoi ben dirlo!»

L’uomo col cappello percosse nuovamente il tavolo. «È una vergogna!»

«E per quanto personalmente ammiri Hank e la sua gente – perdinci, siamo cresciuti insieme o no? – una volta tanto son dell’avviso che il nostro guaio stia lì; se proprio una pistola dobbiamo puntarla, tanto vale mirare dritto a quella casa, dico io».

«Amen, fratello».

«Amen sì, cazzo! A me gli occhi, gente». Nuovamente scosso dalla violenza del comando impartito, Teddy solleva lo sguardo. «Qui lo dico e qui lo nego, se c’è da puntare un dito, che sia in quella direzione!»

Attraverso il bicchiere che sta lustrando, Teddy vede il dito schizzare fuori dal pugno nero di grasso e fuliggine.

«Dritto verso quella casa della malora!»

… il jukebox mormora, borbotta, pulsa di colore. La porta a zanzariera ronza. Gli uomini sospirano insieme. Il dito, una barra di ferro bitorzoluto nei raggi obliqui del sole del tardo pomeriggio, oscilla piano come l’ago di una bussola. La casa. Rozzo monolite che, ora intriso d’alba, risuona già dei preparativi per la colazione…

«Mi sa tanto che hai ragione, Henderson».

«Ce l’ho sì! Se vuoi la mia modesta opinione, ti dico che il tuo guaio sta lì!»

Luce e strepiti sgorgano dalla finestra della cucina; risa, improperi. «Diamoci una mossa, giù dal letto, ragazzi. Il vecchio è già in piedi, storpio e malmesso com’è». E l’odore squillante delle salsicce che sfrigolano in padella. Questa è la campana di Hank. È così che piace a lui. È la sua campana che suona.

E da dietro il bancone, al riparo dal sole, Teddy osserva gli uomini prestando ascolto ai loro ragionamenti, e in segreto nutre la convinzione che il guaio non sia di natura economica – proprio adesso, durante quella stupida conversazione sulla mancanza di capitali, ha incassato venti dollari, e pure in pieno giorno – e per giunta dubita seriamente che si possano scaricare tutte le responsabilità sulla soglia di casa Stamper. No, il guaio è un altro. A suo modesto avviso…

«Oh, Henderson, comunque l’accenno che hai fatto a Floyd mi ha messo in mente che non lo vedo da un giorno e passa».

A ovest della casa, nel suo tugurio sulle piane paludose, Jenny l’indiana si alza dal giaciglio, indossa una veste rosso-rosa brunita dal fango e comincia a interrogarsi su chi incolpare della vita miseranda che conduce, e che accidenti di fine abbia fatto la sua medaglia di San Cristoforo. A sud, Jonathan Bailey Draeger scruta la strada in cerca di un posto dove trascorrere la notte prima di proseguire per l’Oregon. A est, un portalettere si sforza di decifrare un indirizzo scarabocchiato a matita su una cartolina da tre penny, e quasi quasi ci rinuncia…

«Giusto, dov’è Evenwrite?»

«Su a nord, in quel di Portland, santiddio, a raccapezzarsi una volta per tutte sulla questione di cui appunto stavamo discutendo poc’anzi…»

Il pugno si serra, ma il dito seguita a puntare. La vecchia casa s’incurva sulla colazione, ancora chiassosa e indaffarata, ignara delle dita nei paraggi che iniziano a oscillare in un processo di polarizzazione della colpa, a convergere come tanti cerchi concentrici…

Su a nord, in quel di Portland, Floyd Evenwrite sedeva come un balocco di gomma nel suo completo da quaranta dollari, rigido e imperscrutabile e gonfio di gas. Aveva appena terminato di passare in rassegna una pila di fogli gialli. Le carte, prima ordinate e fruscianti, giacevano adesso sul tavolo davanti a lui come un mucchio molliccio di foglie cadute. Si intravedevano perfino le chiazze di sudore. Le mani gli sudavano sempre copiosamente quando le impiegava per qualcosa che non fosse il lavoro manuale, anche se in verità non gli risultava affatto. E ora, mentre si frizionava la fronte e il piccolo naso rosso, a stento gli pareva che quelle mani gli appartenessero. Le sentiva nude, nervose, le mani di un altro. La ragione era l’assenza di calli. Buffo. Affezionarsi ai calli, che fesseria. Forse funzionava come con gli scarponi chiodati; non importava da quanto tempo avevi smesso di portarli, bastava metterli una volta e dopo, quando non li avevi, ti sembrava sempre che il pavimento fosse liscio e scivoloso – anche se erano anni ormai che portavi solo scarpe basse coi lacci.

Terminato di frizionarsi il viso, rimase un momento seduto senza muovere un muscolo, con gli occhi ancora chiusi. Erano occhi stanchi. E stanca era pure la schiena. Tutto di lui era stanco. Ma ne era valsa la pena. Era certo di aver fatto una buona impressione a quel lacchè. Ed era soddisfatto del rapporto; dimostrava senz’ombra di dubbio che le segherie Stamper erano vincolate per contratto, Cristo Santo, a rifornire legna alla Wakonda Pacific. Nessuna meraviglia che il vecchio Jerome o il resto della banda della WP non avessero patito quel mese di sciopero. I ragazzi avrebbero anche potuto scioperare finché non fosse nevicato all’inferno, eppure i profitti non ne avrebbero risentito. Non finché Stamper e la sua rognosa schiatta avessero continuato a tagliare per loro! Era anche peggio di quanto avesse immaginato. Aveva immaginato, lui, che Jerome avesse stretto un accordo con Stamper per acquistare in seguito delle partite di tronchi e rimediare alla battuta d’arresto subita durante lo sciopero. Aveva cominciato a sospettarlo vedendo con che ardore e impegno ci davano dentro gli Stamper. E in ogni caso gli aveva fatto rodere il culo vederli lavorare così, mentre gli altri in paese erano fermi. Perciò aveva scritto a Jonathan Draeger e quello aveva incaricato il commissario del sindacato di investigare. E Cristo, cosa non era venuto fuori da quell’indagine: sin da agosto Stamper era sotto contratto con la Wakonda Pacific, e tagliava e stipava pertiche nel suo deposito all’oscuro di tutti. Insomma, quei figli di buona donna di là dal fiume non solo lavoravano al ritmo frenetico di sempre mentre il resto del paese pativa la fame, ma stavano pure guadagnando due, se non tre volte tanto, per tutti i diavoli!

Aprì gli occhi di scatto. Raccolse il plico disordinato e lo schiaffò in un raccoglitore. «Questo dovrebbe bastare» disse, rivolgendo un cenno col mento all’esile lacchè, il quale gli era rimasto seduto davanti a tamburellare le dita sul tavolo per tutto il tempo che aveva impiegato a studiare il rapporto. Sembrava riluttante a lasciarlo andare. «Ah… ho sentito che è andato a scuola con Hank Stamper» osservò, in tono troppo confidenziale per i gusti di Floyd.

«Ha sentito male» tagliò corto lui, rifiutandosi di guardarlo. Prese una lattina di birra e bevve un sorso. Sentiva addosso lo sguardo dell’altro. Ogni suo gesto, insignificante o plateale che fosse, veniva memorizzato da quel piccolo tirapiedi dalle spalle strette e sarebbe presto o tardi giunto alle orecchie del signor Draeger in persona; questo rapporto, particolare com’era, lo dimostrava. Era preciso al capello. E il resoconto che quel tirapiedi avrebbe fatto a Draeger sarebbe stato altrettanto scrupoloso. A Floyd non piaceva quel suo sorriso languido e gli prudevano le mani dalla voglia di abbattere il pugno su quella manciata di dita nervose. Non gli andava proprio giù che un uomo del genere facesse parte del sindacato. Una volta fatto colpo sui ragazzi ai piani alti, si era ripromesso, si sarebbe adoperato per sbarazzarsi di quella serpe frignona. Ma se miri a fare colpo ai piani alti prima ti toccano quelli bassi, poco ma sicuro. Perciò mantenne il volto impassibile e la schiena dritta, e si costrinse a bere un altro sorso di birra sgasata.

«Così mi hanno detto, se non altro» proseguì l’uomo.

Evenwrite alzò i bulbi oculari rigati di capillari sulla carezzevole voce, e cercò di stimare se la sua visita avesse avuto successo. Si era personalmente recato fin lì da Wakonda per recuperare questo rapporto. Voleva misurarsi con quell’uomo prima di aver direttamente a che fare con Draeger. Aveva impiegato quasi un’ora a trovare la casa del leccapiedi nel disorientante reticolo urbano di Portland. Era già stato in città una volta, e ne era uscito talmente furioso e infastidito che in testa gli era rimasta impressa soltanto una chiazza rossa. Era stato in quell’occasione che i suoi vecchi compagni di squadra giù a Florence avevano organizzato una colletta per mandarlo con la corriera a vedere l’All-State Game, dicendogli poi, per consolarlo: «Facevano meglio a scegliere te, Floyd. Eri più bravo come fullback. T’hanno proprio fregato».

Alla vista del fiume e delle luci di Portland quella fregatura, e il conseguente atto di carità, gli erano tornati in mente, e così la chiazza rossa. Pur seguendo le indicazioni sui cartelli aveva continuato a perdersi per ore, accecato com’era da quella chiazza. E non c’era stato nemmeno il tempo di fermarsi a cenare. Adesso la birra calda gli bruciava le viscere. E gli pizzicavano gli occhi; era stato uno strazio far passare per avveduta cautela la sua deplorevole lentezza nel leggere. Gli doleva anche la schiena dal tanto tirare in dentro la pancia. Ma studiando la faccia dell’altro, stabilì che se l’era cavata bene. Sembrava rimasto colpito dal primo incontro con il coordinatore distrettuale di Wakonda. Colpito e affondato. Con un gesto ponderato Floyd ripose la birra sul tavolo e si asciugò la mano sulla coscia.

«No» disse. «Non sarebbe– non è esatto». Assunse un tono di discreta autorevolezza; un giorno avrebbe parlato così a una conferenza stampa. «No, ho frequentato le scuole superiori a Florence, un paese circa dieci miglia a sud di Wakonda. A Wakonda non mi ci sono trasferito che dopo le scuole. Avrà sentito piuttosto» – fece una pausa accigliandosi nel ricordare – «che entrambi giocavamo fullback e defensive end nelle… rispettive squadre, e ci siamo fronteggiati per tutti e quattro gli anni di liceo. Anche all’All-State».

Era un azzardo, ma dubitava che il leccapiedi avesse una tale confidenza con gli sport da rendersi conto che non poteva essere arrivato agli All-State insieme a Hank, visto che giocavano nello stesso distretto. Scoccò una rapida occhiata all’orologio, poi si tirò in piedi. «Be’, mi aspetta una bella traversata». L’informatore del sindacato si lasciò scivolare giù dallo sgabello accanto all’acquaio e tese la mano. Evenwrite, che una volta era stato costretto a scapicollarsi giù da una collina per lavarsi la zampa in un ruscello prima che un alto funzionario del sindacato in visita si degnasse di toccarla, ora osservò la mano del lacchè come se fra quelle dita brulicassero degli insetti. «È andata bene, bravo» disse, e uscì dalla casa. Fuori, si chiuse il primo bottone dei pantaloni compiaciuto di se stesso: una manovra di classe, già, davvero di classe, lasciare il piccoletto lì impalato con la mano tesa e le ciglia sfarfallanti. Sì, l’aveva gestita con vera classe. La prima impressione è il biglietto d’ingresso. Insegna loro il rispetto; ispira ammirazione; gli fa capire che sei un pezzo grosso almeno quanto loro. Più grosso!

Ma quando, prima di montare in auto, si fermò a stropicciarsi ancora gli occhi, gli parve di avere una mano piccola e molle. Più che mai estranea. Quelle dita non gli appartengono. Sono di qualcun altro. Cercano le chiavi con foga, tremanti. La catenella si spezza e le chiavi si sparpagliano sotto il bagliore dei lampioni. Jenny perlustra gli scaffali in cerca del suo San Cristoforo. Ci rinuncia e si prepara qualcos’altro da bere, poi va a sedersi e guarda attraverso la ragnatela che adorna come pizzo la finestrella solitaria della sua baracca. Scruta in cielo strizzando le palpebre. Una luna piena poggia mestamente su un filotto di piccole nuvole in marcia verso l’interno. Jenny osserva, sospira. Pomeriggio, la porta a zanzariera ronza. Qualcuno offre un decino al jukebox gorgogliante. Ne esce Hank Snow con la sua voce strascicata:

Ehi macchinista, gira la valvola,

ché questo serpente qui

va che è una favola.

Va’…

Il vecchio tagliaciocchi appoggia sul labbro inferiore il bordo del bicchiere di porto e sorbisce il vino, lo sguardo grigio perso nella penombra polverosa. A New Haven il portalettere attraversa un prato verde stringendo il biglietto fra le dita. L’antica residenza, luccicante e minuta sotto il cielo che albeggia, come un ciottolo sotto una conchiglia di abalone, si schiude per espellere due figure in tenuta da taglialegna.

«Per essere un invalido fa un casino del diavolo» disse Hank, scuotendo la testa.

«Invalido? Per invalidare uno come quello ci dovresti troncare tutte e due le gambe!» Joe Ben rise, felice del vigore dimostrato dal vecchio a colazione. «Di sicuro non è una brutta mano a metterlo fuori gioco. Una brutta mano! A-ha, doppio senso. Brutta la mano a carte, e brutta la sua che non serve più a molto, in quel gesso».

«Hai un futuro nel cabaret» rispose Hank, senza troppa partecipazione. «Però sai, Joby, non pensavo che lasciava un vuoto così grande, ora che l’hanno confinato a letto. Va a finire che davvero ci tocca di chiamare qualcuno per raggiungere la solita quota, perdio. Chi, non saprei».

«Ah, non lo sai?» fece Joe.

«No…» rispose Hank.

«Sicuro?»

Hank sospettava che Joe se la stesse ghignando, ma proseguì verso il pontile senza darsi pena di rivolgere uno sguardo a quell’ometto dalle gambe storte che aveva per cugino. «Ho messo Viv a chiamare tutti per una riunione – per informarli degli ultimi eventi, così le ho detto di dire. Mi tocca. Almeno di alcuni, comunque. Ma anche se lo sanno, resta il fatto che non conosco nessuno che verrebbe al lavoro che già non stia lavorando».

«Ah no?» fece Joe, il quale sapeva sin dall’inizio il verso che avrebbe preso la conversazione, e si stava godendo il giro che Hank aveva deciso di fare per arrivarci. «Non un’anima? Accidentaccio».

Hank continuò a fare orecchie da mercante. «Bah, prima o poi mi verrà in mente un qualche parente alla lontana» disse infine, come per chiudere temporaneamente l’argomento. «Serve solo un po’ di tempo e testa».

«Ma sì,» fece Joe «ma sì». Poi, con quanta più innocenza poteva, aggiunse: «Considerando il tempo e la testa che ci sono voluti a cavarti fuori una scusa per aver bisogno di questo particolare parente…».

E a passo di danza si allontanò da Hank, giù per il pontile, agitando il casco di latta alle prime luci del giorno fra ululati di soddisfazione.

Allo Snag il jukebox continua la sua corsa a perdifiato sulle asperità del terreno di campagna:

Fuggo via,

su questa melodia…

Floyd accende il motore e si avvia a ripercorrere la strada che conduce fuori da Portland. Il portalettere sale i gradini dell’ingresso. Draeger individua un motel e all’accoglienza, nel timido baluginio di una lampada al neon, scuote il capo e con educazione rifiuta la bevuta offertagli dal direttore del posto.

«Anch’io mi sono messo a tagliar legna per un po’, sa» si era premurato di informarlo l’uomo non appena aveva scoperto chi fosse.

«Spiacente, niente da fare per quel drink» ripeté Draeger. «Ho una riunione da preparare per domani. Ma grazie lo stesso. È stato un piacere parlare con lei. Buonanotte».

Fuori, nel chiarore ronzante dei neon – TV PISCINA TERMOCOPERTA GRATIS – si frugò fiaccamente in tasca. Come Floyd, anche lui era stanco. L’indomani mattina doveva incontrarsi con i proprietari della Wakonda Pacific Lumber a Sacramento, dopodiché si sarebbe rimesso subito in strada; il piano era trascorrere qualche giorno a Red Bluff per negoziare con la commissione sindacale venuta da Susanville, e poi, a meno che la questione non si fosse evoluta ulteriormente, proseguire a nord, su fino a Wakonda, per vedere di sistemare le cose. E un ex boscaiolo reinventatosi fattore reinventatosi proprietario di motel voleva offrirgli da bere. Cristo santo!

Finalmente trovò quello che stava cercando, ossia un taccuino con matita a scatto appeso con una pinza al taschino interno del cappotto. Lo estrasse, ne sfogliò qualche pagina, e nel rosso pulsante della luce elettrica scrisse: «Gli uomini si affannano a spingere alcol sotto il naso di chi considerano superiore, sperando in tal modo di annullare le distanze».

L’abitudine di annotare pensieri risaliva ai tempi della scuola, quando eccelleva in ogni compito proprio perché era il più pronto. Rilesse la frase e sorrise compiaciuto. Erano anni ormai che collezionava aforismi simili, e sognava un giorno di ricavarne un libro. Ma se anche il sogno si fosse disfatto, quelle frasette gli tornavano comunque piuttosto utili nel suo lavoro, i piccoli appunti presi giornalmente alla lezione della vita.

Qualsiasi prova fosse capitata, si sarebbe fatto trovare pronto…

La vecchia casa tace ora, la colazione è terminata. I bambini non si sono ancora alzati. Henry, stremato ma soddisfatto, si ritrascina su per le scale fin nel letto. I cani hanno mangiato e ora dormono. Viv getta i fondi del caffè fuori dalla porta sul retro, fra i rododendri, mentre il sole sbianca le punte degli abeti lassù sulle colline…

Il portalettere si allunga a infilare il biglietto nella fessura per la posta. Floyd Evenwrite finalmente trova la strada nazionale per uscire dalla città e inizia a cercare un bar. Draeger siede sul letto del motel e nota il primo accenno di piede d’atleta tra il terzo e il quarto dito del piede destro; di già, neanche il tempo di uscire dalla California. Alla finestra della sua casupola Jenny l’indiana sorseggia il suo bourbon con tabacco, aguzza la vista verso le nuvole che marciano al chiaro di luna. Muovono dal mare divise in possenti colonne e, strizzando gli occhi, Jenny si protende in avanti per distinguere i volti semidimenticati di questo esercito – uomini belli, alti e belli erano, un esercito di uomini alti e belli e bianchi come la neve, esteso all’orizzonte della sua memoria. «A perdita d’occhio, ce n’era» rammenta con malinconica fierezza, e versa un’altra cucchiaiata di tabacco da fiuto in un bicchiere di whisky tiepido per meglio esaminare il passaggio dell’armata. Qual era il più alto, fra quei soldati di bruma? Quale il più bello? Il più indomito? Il più veloce? Quale l’aveva colpita di più? Erano tutti, ovviamente, senza esclusione, dei bravi ragazzi, e sarebbe stata disposta a garantire per ognuno di loro se solo avesse potuto ospitarne un altro – ma così, per puro divertimento, qual era quello che le piaceva più di tutti?

… e così, per puro divertimento, inizia ad aprire le fauci di un’antica, antichissima trappola.

Intanto Jonathan Bailey Draeger, ben comodo sotto la sua termocoperta elettrica a guardare gratuitamente alla TV un vecchio film con Bette Davis, prende il taccuino dal comodino accanto al letto e aggiunge un’ultima annotazione: «E le donne, se poste davanti a un superiore, rimpiazzano l’alcol con il paralizzante nettare del proprio sesso».

Intanto Floyd Evenwrite schizza fuori dall’auto e si affretta attraverso lo spiazzo del parcheggio, fino alla porta di un bar sul ciglio di uno stradone alla periferia di Portland, in collera con tutto e tutti. Intanto il vecchio tagliaciocchi allo Snag ascolta i paesani discorrere di ristrettezze e guai. E la porta a zanzariera sfrigola e fulmina sventurate mosche. E Hank Snow ancora bercia:

Avanti fuochista, butta il carbone,

diamogli da mangiare al bel serpentone,

io me ne vado da questa regione.

E a est il portalettere lascia cadere il biglietto, e per tutta risposta ode uno scoppio che lo solleva da terra come un’onda un tappo di sughero e lo catapulta all’indietro, fino al centro del prato.

«Ma che–»

Dopo un periodo indefinito di recisa coscienza – mentre la sua testa si rischiarava, e il prato rollava e beccheggiava, luccicante come un quadrato di mare mosso smeraldino – il portalettere percepì un trillo lontano. Quel trillo andò gradualmente a ricucire lo strappo spalancatosi nei suoi sensi. Stordito, si sollevò carponi e guardò il tempo scandito dal rosso che gli sgocciolava dal naso insanguinato. Restò lì bocconi in uno stato di disorientamento, cosciente soltanto del proprio naso sanguinante e dell’infrangersi delle finestre intorno a lui, finché uno scrocchiare di vetri calpestati sul porticato del casolare non lo spinse a rimettersi in piedi, con gli occhi strabuzzati dalla rabbia.

«Ma che diavolo!» esclamò. «Che accidenti d’un diavolo» – torcendosi sul posto, con la bisaccia premuta sulla patta nell’eventualità di una seconda esplosione – «sta succedendo, tu!». La coltre di fumo sottile, lanuginoso, momentaneamente si separa e compare un giovane alto dal viso incrostato di fuliggine e grumi di tabacco, come fosse butterato. Il portalettere osserva l’abbrustolita apparizione dondolare la testa per incontrare il suo sguardo interrogativo e leccarsi le labbra annerite tra le vestigia riarse di una barba. Il volto inizialmente inespressivo, allibito, di colpo riacconcia i propri tratti per comunicare una pretenziosa insolenza da damerino; l’affettata espressione di divertita arroganza è resa ancor più artefatta dal viso comicamente carbonizzato, una caricatura dello spregio più che una posa – una smorfia da mimo. Eppure c’era qualcosa nella falsità di quell’atteggiamento – forse la sua deliberatezza – che ne accresceva grandemente l’effetto urticante. Il portalettere ricominciò a protestare – «Che gli è saltato in testa, mi domando io…» – ma il fastidio causato dall’atteggiamento dell’altro era tale che la sua rabbia scemò, tramutandosi in stizzita frustrazione. I due rimasero a fronteggiarsi ancora per qualche momento, finché la maschera bruciacchiata non chiuse le palpebre private delle ciglia, come se di inviperiti dipendenti federali ne avesse visti più che a sufficienza, e con fare altezzoso apostrofò l’altro dicendo: «A occhio e croce, di suicidarmi, direi, ma dubito di aver trovato il sistema giusto. Ora, se vuole scusarmi, farei un altro tentativo».

E con fare pomposo – esacerbando il proprio sdegno con quella parodia di se stesso – il giovane girò sui tacchi e, attraversato il portico, svanì nella casa fumigante, lasciando il portalettere sui gradini ancora più confuso e disorientato, se possibile, di quanto non fosse nel momento in cui si era rialzato dall’erba. Che dal canto suo rolla e beccheggia, luccicando al sole…

Il jukebox borbotta e pulsa. Marciano le nuvole. Draeger sogna un mondo etichettato. Teddy studia la paura attraverso un lustro bicchiere da liquore. Evenwrite fa ingresso nel bar che promette DIVERTIMENTO ASSICURATO E CUCINA ARISTOCRATICA, deciso a bersi un paio di cosette per sciogliere i lacci che gli hanno legato la schiena a forza di stare seduto su quella maledetta sedia con lo schienale dritto a leggere parola per parola il maledetto rapporto compilato da quella maledetta piccola spia – è dura inquadrare un sicofante urbanizzato come quello, o farsi un’idea di che genere di burocrazia avesse reso necessario quel rapporto, in cui c’erano anche le fotografie degli onesti capostipiti della lotta operaia, i cari vecchi Wobs, i «Wobblies», ma a quanto pareva così stavano le cose e gli toccava di stare al gioco – ad ogni modo… deciso a sciogliersi, slacciarsi, sbrogliarsi, staccare davanti a un paio di birre, e dimostrare per l’ennesima volta a chiunque di quei gradassi di città avesse ancora il dubbio, che Floyd Evenwrite, ex stronchettaio e segantino in un paesino sperduto di nome Florence, valeva tanto quanto chiunque altro a prescindere dalle stracazzo di dimensioni del posto da cui proveniva! «Barista!» Sbatte i pugni sul bancone pretendendo d’esser servito. «Mesci e vedi di non fermarti!»

E così facendo prova a se stesso che quelle dita strette e sudaticce sono ancora capaci dei pugni d’un tempo.

I parenti iniziano a radunarsi in casa per l’assemblea, e Hank sgattaiola a farsi un goccetto – non per sciogliersi, lui, ma per fortificarsi in vista di un altro round. Tra luna e mare le nuvole continuano la loro solenne processione sopra le piane alluvionali, e il gioco di Jenny l’indiana a scegliere l’uomo che più di tutti le era piaciuto nel proprio ingombro passato viene interrotto sul più bello dall’intrusione di un particolare ricordo: il vecchio Henry Stamper, con le mani sprofondate nelle tasche del giaccone a quadri e gli occhi verdi e ostinati, che la schernivano dal volto che esibiva trent’anni prima – «Bastardo!» – ostinato, beffardo e sprezzante della merce che Jenny offriva sin da quando aveva avviato la sua attività sulle piane, tanto tempo addietro. Rivide l’occhiolino e udì lo sghignazzo, e quel sinistro bisbiglio: «Sapete che vi dico?». Della mezza dozzina di uomini che trent’anni prima erano comparsi sulla sua soglia pronunciando arguzie a mezza bocca, nei suoi occhi di ossidiana non c’era stato posto che per le attraenti sembianze di Henry Stamper, e per questo il suo era stato l’unico commento che aveva udito:

«Se devi fotterti un’indiana,» l’aveva sentito dire «tanto vale che ti fotti un’orsa».

«Che?» aveva chiesto lei lentamente.

Preso in contropiede per essere stato udito, Henry non era riuscito a pensare a un più grazioso rimpiazzo e dunque si era risolto a ripetere con aria di sfida. «Tanto vale che ti fotti un’orsa…»

«Bastardo!» aveva squittito lei; quell’omaggio all’ardire maschile si era trasformato alle sue orecchie in imperdonabile insulto, tanto alla sua razza quanto al suo sesso. «Brutto bastardo, fila via di qui! Guardala bene perché questa qui è l’indiana che mai e poi mai si lascerà fottere. Per fottertela dovrai aspettare–» si era fatta grande in nome del proprio retaggio, aveva gonfiato il petto e tirato indietro le spalle – «che tutte le lune della Grande Luna si spengano e tutte le maree della Grande Marea si ritirino».

Al che l’aveva visto scrollare con indifferenza le spalle e scomparire, lui, i suoi occhi verdi e le belle sembianze, oltre il torbido orizzonte della propria memoria – «Che m’importa in fondo di te, vecchio mulo?» – mentre il cuore lo seguiva e incapace di trovar pace si domandava, Quante, per la precisione, sono queste lune e queste maree?

E Lee, riacciuffati gli occhiali e pulita dalla fuliggine l’unica lente ancora intatta, studiava la rovina ancora fumante del proprio volto nello specchio del bagno spruzzato di dentifricio e si poneva due quesiti: uno scaturito da un lontano e oscuro ricordo d’infanzia – «Come sarebbe svegliarsi da morti?» – e l’altro da un evento molto più recente: «M’è parso di intravedere che la mano lasciava cadere una cartolina… e da che mondo mi arriva, una cartolina?».

Il volto nello specchio non sembrava sapere né come né dove, né forse gli importava, e si limitò a restituirgli lo sguardo con occhi assetati. Si versò dell’acqua in un bicchiere e aprì l’armadietto delle medicine, rivelando un’ampia gamma di flaconi di pillole; agenti chimici in attesa, come biglietti per fare un giro ovunque il cuore avesse desiderato. Ma era incerto sulla direzione in cui avrebbe voluto che il biglietto lo conducesse: avvertiva il netto bisogno di qualcosa che lo calmasse, dopo lo scoppio, ma sentiva altresì di doversi elevare a uno stato di indaffarata intraprendenza, specie se voleva ricomporsi prima che il dipendente federale facesse ritorno con qualche sbirro senza cuore venuto dal New England, impaziente di fargli le sue domande da sbirro. Ad esempio: «Perché diavolo uno dovrebbe fantasticare di svegliarsi da morto?». Da che parte andare, insù o ingiù? Optò per un compromesso, ingoiò due barbiturici e due compresse di dexedrina con dell’acqua, e si apprestò a dare inizio a un’affannosa opera di sfoltimento di ciò che restava della propria barba disfatta.

Terminato di radersi aveva ormai deciso di levare le tende. Se c’era una cosa che non aveva alcuna volontà di fare in quel momento era una scenata con la polizia, il padrone di casa, le autorità postali e Dio solo sapeva quanti altri si sarebbero voluti impicciare dei fatti suoi. E non gli andava nemmeno di affrontare il coinquilino, la cui dissertazione di laurea era finita sparpagliata come una pioggia di coriandoli nelle tre stanzine della villetta. E in ogni caso, perché no? Riguardo agli studi era già giunto alla conclusione che sarebbe stato solo uno spreco di tempo, suo e del dipartimento, qualora avesse deciso di ritentare gli esami; erano mesi che non apriva un libro di testo, o un libro qualunque a eccezione della raccolta di vecchi fumetti che teneva sottochiave accanto al letto, in un ammaccato baule avanzato alla Marina militare. Quindi perché no? Perché non battersela, montare sulla Volkswagen e andarsene… nella City, magari, racimolare due soldi impegnando la macchina, vedere se era il caso di tornare a vivere con Belemy e Little Jimmy – peccato che… Jimmy, l’ultima volta che l’aveva visto, quell’estate che aveva lasciato l’appartamento della madre, si era comportato in modo così bizzarro… ma poteva essersi trattato di uno scherzo dell’immaginazione. Una proiezione. Ad ogni modo fintanto che, come si suol dire, le acque non si fossero calmate… tanto meglio se–

La vista del proprio volto lavato e sbarbato riflesso nello specchio lo riscosse dalle sue meditazioni. Lacrimava da ambo gli occhi. Stava piangendo. Non provava alcun dolore, né rimorso, nessuna delle classiche emozioni che si associano alle lacrime – eppure le lacrime erano lì. Lo disgustò e allo stesso tempo spaventò, quel volto arrossato dello sconosciuto dagli occhiali rotti che, con una espressione di vacua mansuetudine, buttava lacrime come uno stupido rubinetto.

Uscì in fretta dal bagno nel caos di libri e fogli che circondavano il suo letto. Perlustrò le stanze finché non trovò il paio di occhiali da vista con la montatura scura tra le pile di piatti sporchi sul tavolo. Li pulì alla bell’e meglio con un fazzoletto e li inforcò al posto di quelli che portava prima.

Tornò nel bagno a guardarsi. I nuovi occhiali rappresentavano senza dubbio un miglioramento; se non altro la sua faccia aveva perso la patina verdognola che gli conferivano gli altri.

Sorrise assumendo una posa di gagliarda insolenza, con il mento leggermente sollevato. Uno sguardo alla va’ là che vai bene. Abbassò appena le palpebre. Era un vagabondo senza radici, un girovago. S’infilò una cicca fra le labbra. Uno che quando le cose si mettevano male si dileguava in un secondo…

Finalmente soddisfatto, uscì dal bagno e si adoperò a fare i bagagli.

Prese solo qualche vestito e pochi libri, che gettò nella valigia del coinquilino. Si ficcò nelle tasche appunti e brandelli di carta alla rinfusa.

Tornò in bagno e versò con cautela metà del contenuto di ogni flacone di pillole in un pacchetto vuoto delle Marlboro, dopodiché, arrotolatolo bene, lo inserì nella tasca di un paio di pantaloni dentro la valigia. I flaconi finirono nascosti in fondo a un calzino sporco e sudato, nella punta di una scarpa da tennis consumata che spinse sotto il letto di Peters.

Cominciò a riporre la macchina da scrivere nella sua custodia, ma all’improvviso l’insofferenza s’impadronì di lui e la lasciò capovolta sul tavolo.

«Indirizzi!» Frugò nei cassetti della scrivania finché non trovò un libriccino rilegato in pelle, ma dopo averlo sfogliato a casaccio ne strappò una pagina e gettò il resto sul pavimento.

Tenendo la valigia con due mani e respirando affannosamente, si diede una rapida occhiata intorno – «Bene» – e si precipitò in macchina. Fece scivolare il bagaglio sul sedile di dietro e montò, sbattendo lo sportello. Il tonfo per poco non gli lacerò i timpani. «Niente finestrini aperti». E faceva un gran caldo, il cruscotto era la griglia di un forno… Provò a ingranare la retromarcia, ci rinunciò e mise la prima, poi fece manovra tra prato e vialetto finché non si ritrovò rivolto verso la strada. Ma non partì. Rimase lì seduto, con il motore acceso, a fissare la striscia di marciapiede deserta davanti a sé. «Forza, bello…» Gli fischiavano ancora le orecchie per il tonfo della portiera, e prima ancora per lo scoppio. Diede gas, lasciando scegliere all’auto che direzione prendere. «Forza… sii serio». La leva del cambio scottava come un attizzatoio, e aveva un ronzio nelle orecchie… Alla fine, premendosi una mano aperta sulla faccia come a voler placare il rumore – mi pareva di avvertire una mano nerboruta stringermi scherzosamente il ginocchio mentre un lamento sfiatato di cornamusa mi usciva dalla gola – si accorge che sta ancora piangendo; e premi e soffia e piangi, ed è allora che – «O se non altro» mi rimproverai «ragiona: chi potrebbe mai in questo mondo malato…?» – gli sovviene della cartolina abbandonata nel portico.

(… le nuvole sfilano. Il barista mesce. Il jukebox borbotta. E a casa Hank urla a pieni polmoni in una stanza traboccante di resistenza: «… ma perdio qui non stiamo mica ragionando se saremo i più famosi del paese vendendo alla WP… ma dove andremo a procurarci altra forza lavoro?». Si ferma, posa lo sguardo sulle varie facce. «Allora… qualcuno ha qualche suggerimento? O si offre per sgobbare di più?» Dopo un breve silenzio Joe Ben si getta in bocca una manciata di semi di girasole e alza la mano. «Io per accollarmi altro lavoro non mi offro di sicuro,» dice masticando, poi piega un angolo della bocca verso la mano e inizia a sputare le bucce «ma un piccolo suggerimento ce l’avrei…»)

La cartolina era sul primo gradino in basso – una cartolina da tre penny scritta a matita, con una riga dal tratto sempre più calzato, sempre più scuro, e il carattere più grande del resto del messaggio.

«Dovresti essere grande abbastanza ormai, bimbo».

All’inizio non volevo crederci, ma quella mano continuava a stringermi il ginocchio e le canne continuavano a sfiatarsi nel mio petto finché non n’è scaturita una risata senza gaudio, irrefrenabile e involontaria come lo era stato il precedente attacco di lacrime senza afflizione – «Viene da casa… oh Cristo, una cartolina dal parentado!» – e infine mi arresi all’evidenza, esisteva davvero.

Rimontai sull’auto in folle per leggere, soffocando gli sbotti di risa quel tanto che bastava per distinguere le parole. La cartolina recava la firma di zio Joe Ben e, nonostante il mio incontrollabile gaudio, concordai fra me che il messaggio era stato redatto con una grafia incerta da alunno delle elementari che non poteva che appartenere a lui. «Eh sì, è la scrittura di zio Joe. Non c’è dubbio». Ma fu quell’aggiunta più calzata e sicura in calce ad attirare il mio occhio, e mentre leggevo non era lo zio Joe, bensì fratello Hank a declamare le parole nella mia testa.

«Leland. Il vecchio Henry s’è fatto male serio – abbiamo bisogno d’aiuto urgente – serve qualcuno ma dev’essere uno Stamper per tenere alla larga il sindacato – buona paga se ti va–» Poi la pugnalata di una penna stretta in un altro pugno: «Dovresti essere grande abbastanza, ecc.». E ciò detto, dopo un’irriverente e sproporzionata firma – in stampatello, «È proprio da lui…» – seguiva un vano tentativo di cordialità.

«P. S. Non hai nemmeno conosciuto mia moglie Vivian. Adesso hai anche una specie di sorella, bimbo».

Fu quell’ultima riga, forse, a spezzare l’incantesimo. Il pensiero di mio fratello accompagnato era talmente balordo che vi trovai dell’effettiva ironia, a sufficienza almeno per ricavarne una risata vera e in secondo luogo il coraggio d’indignarmi. «Bah!» esclamai sprezzante, gettando la cartolina sui sedili posteriori, tra le fauci del fantasma del passato che mi fissava ghignando da sotto il casco da boscaiolo. «Io lo so che cosa sei: nient’altro che il prodotto della mia indigestione. Un po’ di insalata di cavolo andata a male nel frigorifero. Un pezzetto di patata malcotta che ho mangiato ieri sera. Balle! In te c’è più di salsa che di salma!»

Ma come la sua controparte dickensiana, lo spettro di mio fratello si levò con tremendo clamore e gran sferragliar di catene, ed esclamò con orrifica voce «Sei grande ormai!», spedendomi dal vialetto fin sulla carreggiata sbandando, ancora in preda alle risa ma stavolta per una ragione: l’ironia del recente e banale arrivo di quella aperte virgolette lettera inaspettata chiuse virgolette mi aveva donato il primo momento di spensieratezza da mesi. «Anche solo l’idea! Chiedermi di tornare a dare una mano… come se non avessi di meglio da fare che correre in aiuto di una squadra di taglialegna».

E mi aveva anche fornito una destinazione.

A mezzogiorno avevo già venduto la Volkswagen – o comunque la fetta che mi apparteneva – accettando cinquecento dollari meno di quanto sapevo che valesse, e all’una ero lì che trascinavo al deposito delle corriere la valigia di Peters e la busta di carta piena di porcherie raccolte sul cruscotto, pronto per il viaggio. Che, a detta del bigliettaio, sarebbe durato sui tre giorni buoni.

Mancava un’ora alla partenza della mia corriera e, dopo essermi gingillato per una quindicina di minuti davanti all’espositore dei tascabili, alla fine cedetti ai rimorsi di coscienza e mi apprestai a chiamare Peters al dipartimento. Quando gli dissi che ero al deposito che aspettavo una corriera per tornare a casa, lì per lì travisò. «Una corriera? E la macchina che fine ha fatto? Resta lì, okay, mollo il seminario e vengo a recuperarti».

«Ti ringrazio, ma dubito che tu voglia sciropparti tre giorni di viaggio; sei giorni, anzi, tra andata e ritorno…»

«Andata e ritorno per dove? Lee, accidenti a te, che sta succedendo? Dove sei?»

«Aspetta…»

«Sei al deposito per davvero?»

«Un attimo…» Aprii lo sportello della cabina ed esposi la cornetta al rauco viavai delle corriere. «Tu che dici?» urlai nel ricevitore. Ero curiosamente euforico e spensierato; la combinazione di barbiturici e amfetamine mi rendeva febbricitante e ubriaco, come se gli uni mi inducessero il sonno e le altre procedessero a trasformarlo in un sogno incredibilmente vivido e delirante. «E con casa, Peter, amico mio» – richiusi la portiera e mi accomodai sulla valigia rovesciata – «non mi riferisco a quel tugurio offerto dall’università in cui abbiamo vissuto negli ultimi otto mesi – al quale, per la cronaca, è stata concessa una bella arieggiata – ma casa casa! All’ovest! L’Oregon!».

Trascorse qualche istante, poi, «Perché?» mi chiese, facendosi sospettoso.

«Per ritrovare le mie radici» risposi gaiamente, nel tentativo di alleviare la sua diffidenza. «Per smuovere vecchie ceneri, per cibarmi di vitelli grassi».

«Lee, che è successo?» domandò Peters, mosso ora più dall’impazienza che dal sospetto. «Sei uscito fuori di testa? Dico, ti senti?»

«Be’, tanto per cominciare, mi sono tagliato la barba–»

«Lee! Non mi rifilare ’ste cazzate adesso…» Nonostante il mio tentativo di gaiezza sentivo che circospezione e pazienza stavano lasciando il posto a una rabbia costernata, proprio quello che volevo evitare. «Perdio dimmi solo perché

Non era la reazione in cui avevo sperato. Tutt’altro.

Ero deluso e seccato che si fosse innervosito a tal punto mentre io ero rilassatissimo. Non lo facevo così esigente (e solo più tardi mi sono reso conto di quanto dovevo essergli sembrato strano), né mi capacitavo della sfacciataggine con cui stava calpestando le norme su cui si basava il nostro rapporto. Noi un’idea di rapporto ideale ce l’avevamo. Concordavamo che ogni coppia di persone fosse un mondo a sé al cui interno due sistemi fra loro compatibili riuscivano a comunicare, oppure capitava che la comunicazione vacillasse come la Torre di Babele. In una relazione amorosa l’uomo doveva poter contare sul fatto che la moglie rivestisse il ruolo della Moglie – vipera o servizievole che fosse. Per l’amante la donna poteva vestire panni completamente diversi, ma a casa, sul set Marito-Moglie, doveva attenersi alla sua parte. Se così non fosse stato, ci saremmo ritrovati tutti quanti a vagare alla cieca senza riuscire a distinguere gli amici dagli estranei. E nei nostri otto mesi di convivenza e consolidata amicizia, io e quel negro sgraziato dalla mascella prominente avevamo stabilito una sfilza di limiti cristallini entro i quali sapevamo di poter confortevolmente comunicare, una sorta di canone drammatico, con lui che interpretava un sagace Zio Remo dalla lingua impastata e faceva da contraltare al mio intellettuale effeminato. In questa cornice, dietro le nostre maschere di scena, eravamo stati in grado di conversare delle più scomode verità personali senza patire la vergogna che simili confidenze si portano dietro. Così avrei preferito continuare, perfino nelle nuove circostanze, quindi ritentai.

«Pensa, i meli saranno in fiore; l’aria satura del profumo della menta e delle more scaldate dal sole – ah, odo il richiamo della mia terra natia. E inoltre avrei un certo conto da pareggiare».

«Oh Signor–» cominciò a protestare all’altro capo, ma io proseguii incurante, incapace di trattenermi.

«No, ascolta: ho ricevuto una cartolina. Permettimi di ricreare la scena a tuo beneficio – una sintesi, beninteso, perché presto dovrò salire sulla corriera, ma comunque ascolta. La vignetta è magnificamente concepita: sono appena rientrato da una passeggiata sulla spiaggia – dalle parti della casa di Mona; no, non sono entrato, c’era quella strega della sorella – ad ogni modo, sono appena rientrato da una di quelle che mi piace definire peregrinazioni “Essere o Non Essere”, e conclusa una serie di decisi colpi di tosse mi sono finalmente risolto a imbracciare le armi contro un mare di guai… e a mandare tutto a farsi benedire».

«Lee, ti prego, cos’avresti–»

«Ascolta. Lasciami finire». Aspirai nervosamente dalla sigaretta. «Le interruzioni non fanno che ritardare l’inevitabile». Udii uno sbatacchiare metallico nelle vicinanze. Un pingue Tom Sawyer aveva in quel momento attivato il flipper accanto alla mia cabina di vetro; le luci vorticavano nel frenetico susseguirsi di cifre in astronomica ascesa, e il punteggio cresceva con fulminea rapidità. Mi affrettai.

«Mi sono fatto largo nella nostra discreta minuteria. È mezzogiorno circa, un po’ prima. L’appartamento è freddo; avevi lasciato aperta un’altra volta la serranda dello stramaledetto garage–»

«Sfido io, se non avessi fatto entrare un po’ d’aria fresca non ti saresti mai trascinato fuori dal letto. Ti sei risolto a far che? Che significa che finalmente ti sei risolto a–»

«Silenzio. Osserva. Chiudo la porta, la chiudo a chiave. Strofinaccio, umido, premuto sulla fessura in basso. Controllo le finestre con mistica scrupolosità. Poi apro le bocchette dei radiatori a gas – no, zitto, ascolta – tutti i fornelli di quella cucina sudicia che m’hai lasciato… mi ricordo della luce pilota della stufa… torno indietro, mi genufletto piamente davanti allo sportelletto per estinguere la fiamma (che si sprigionava simbolicamente da tre bocchette descrivendo una croce infuocata. Avresti applaudito la mia freddezza: ho fatto un bel respiro… “Una divinità dà forma ai nostri” – pff – “piani”). Al che, soddisfatto della mia organizzazione, e dopo essermi tolto le scarpe, bada bene – un signore fino alla fine – salgo sul letto in attesa che sopraggiunga il sonno. E chissà quali sogni. Pronti. Decido che, via, nemmeno il re pazzo della Danimarca si sarebbe negato un’ultima sigaretta, voglio dire, se solo quell’insulso codardo avesse avuto il mio stesso coraggio, o le mie sigarette – e in quel preciso istante, con mirabile tempismo, nell’istante preciso in cui la spettrale mano compare, fissa, in quella finestrella, sai, quella sopra la buca delle lettere, e lascia cadere il messaggio che mi convoca a casa… proprio quando il biglietto volteggiando atterra sul pavimento… con un guizzo del pollice sulla rotella dell’accendino faccio esplodere tutte le finestre».

Attesi. Peters taceva, così ne approfittai per dare un altro tiro alla sigaretta.

«Ecco. Come al solito, l’ennesimo fallimento senza speranza. Ma con un risvolto non male stavolta, eh? Non mi sono fatto niente. Solo qualche bruciacchiatura qua e là, barba e sopracciglia andate, nessuna perdita grave, giusto l’orologio s’è fermato – vediamo: ora è ripartito. Il postino invece se l’è fatta in volo fino in fondo ai gradini ed è atterrato fra le ortensie. Presumo che al tuo rientro troverai la sua carcassa ancora lì, sbocconcellata dai gabbiani, o scomparsa del tutto a parte borsa e berretto. No, ascolta: c’è un flipper impazzito qui accanto alla cabina e comunque non riuscirei a sentirti. Perciò limitati ad ascoltare. Dopo uno scomodo frangente in cui non mi riusciva di capire come mai non fossi morto, mi alzo e vado alla porta – ah, senti questa! La prima cosa che ricordo di aver pensato dopo lo scoppio è: “Leland, sei proprio scoppiato”. Carina, vero? – e recupero il biglietto. Con crescente incredulità decifro i minuti caratteri scarabocchiati a matita. Come come? Mi scrivono da casa? Per chiedermi di tornare a dare una mano? Provvidenziale a dir poco, visto che campo da tre mesi sulle spalle di quel negro del mio coinquilino… Ascolta: mentre me ne sto lì, sento una voce. “ATTENTO!”, tuona, con la brutale autorevolezza del panico. “ATTENTO! GUARDATI ALLE SPALLE!” Ti ho già parlato di questa voce. Appartiene a un caro amico d’altri tempi, forse il più vecchio nel mio consiglio di amministrazione mentale, il solo e unico arbitro delle mie negoziazioni interiori oltre che facilmente riconoscibile dagli altri membri del consiglio – ricordi che te ne ho parlato? – per via delle sue squillanti e maiuscole ingiunzioni. “ATTENTO!” grida. “GUARDATI ALLE SPALLE!” E mi giro di scatto ad affrontare il mio aggressore. “ALLE SPALLE!” insiste. “GUARDATI ALLE SPALLE!” Mi giro dall’altra parte, e nulla. Mi giro e mi rigiro finché inizio ad avvertire una nausea pronunciata – niente di fatto. E sai perché, Peters? Perché, per veloce che tu sia, non sarai mai pronto a un attacco alle spalle».

Indugiai e chiusi gli occhi. Intorno a me la cabina fremeva come in preda a un’energia anarchica. Posai la mano sul ricevitore e feci un respiro profondo nella speranza di tranquillizzarmi. Sentivo l’altoparlante fuori che diffondeva istruzioni incomprensibili, e l’inarrestabile scampanellio del flipper. Ma non appena udii Peters dire, «Lee, perché non mi aspetti lì buono–», ripartii di gran carriera.

«Pertanto, dopo quel piccolo rituale… me ne sto impalato sulla soglia della nostra casa demolita a rigirarmi in mano il fatidico biglietto. Neanche do il tempo al portalettere di riprendersi dallo stordimento e chiedermi come sto, che già mi è passato di mente che poco prima avevo desiderato di scomparire – ad ogni modo: la polizia non è venuta, ma mentre mi radevo è passata la compagnia a chiudere il gas. Nessuna spiegazione fornita; non so se siano entrati in azione per caso proprio in quel momento perché non avevamo pagato la bolletta, o se i servizi pubblici si facciano un punto d’onore di castigare chiunque si serva del loro prodotto per fini nefasti, condannandolo a zuppa fredda in scatola e notti all’addiaccio. Comunque, ero lì con quel brandello di messaggio a matita stretto fra le mie povere dita cotte in fricassea e nelle orecchie un fischio dieci decibel più forte del botto causato dall’esplosione stessa, e ho avuto un’improvvisa epifania: se da un lato era stata di certo un’umiliazione scoprirsi così colpito da quel biglietto, la sorpresa era di gran lunga più grande. Perché… diamine, pensavo che ormai il passato non mi facesse più né caldo né freddo, sì, pensavo di essermi formato un’identità solida, che non aveva più niente a che vedere con gli anni della fanciullezza; credevo che io e il dottor Maynard fossimo riusciti a disinnescare il passato, un secondo alla volta, come una squadra di artificieri temporali; ero convinto che avessimo disattivato l’infido congegno lasciandolo privo di vita, incapace di nuocere oltre al sottoscritto. E, vedi, giacché mi consideravo libero dal mio passato, non vedevo ragione di guardare in quella direzione. Capisci? Per questo non erano valsi a nulla tutti gli Attento!, e quel girarsi a destra e a manca. Perché le mie belle fortezze, edificate con tanto scrupolo e meticolosità sul sofà del dottor Maynard, si fondavano sull’assunto secondo cui gli unici pericoli sarebbero spuntati da davanti, me li sarei ritrovati in faccia – e le suddette fortezze, ahimè, potevano ben poco di fronte a un’offensiva, perfino la più misera, che fosse sopraggiunta alle spalle. Ci sei? Quindi la cartolina, arrivata così di soppiatto, mi coglieva più impreparato del mio stesso suicidio abortito; l’esplosione, benché senza dubbio scioccante, era passibile d’immediata comprensione, no? Un personale olocausto. Ma la cartolina era un calcio nelle reni sferrato dal passato per vie a dir poco traverse. Aveva saltato tutte le tradizionali rotte postali, ovviamente, per attraversare zone temporali oscure e desolate lande dell’epoca che fu, accompagnata dalla sinistra e lamentosa nota di un oscilloscopio e da altra musica da film di fantascienza… attraverso ombre nembiformi, in balia di una nebbia ondulata di ribollente ghiaccio secco… e all’improvviso, primo piano: Ah. Una solinga mano si materializza nei pressi della buca delle lettere… fluttua un istante, come marmo statuario concepito per dissolversi una volta depositato l’invito che richiede la mia umile presenza a un conciliabolo riunitosi dodici (dodici? Così tanto tempo fa? Gesù…), dico, dodici anni prima della sua consegna! Bah! C’è da meravigliarsi che mi abbia lasciato un filino rintronato?»

Non attesi una risposta, né mi fermai quando la voce all’altro capo del telefono cercò di arrestare il mio folle soliloquio. Con l’altoparlante che annunciava le partenze e il flipper che sferragliava segnando punti a tutto andare in un crescendo di frenesia, proseguii col mio discorso, stipando ossessivamente parole nella cornetta per non lasciare adito a silenzi di cui Peters avrebbe potuto approfittare per parlare a sua volta. O, se vogliamo essere precisi, fare domande. L’avevo chiamato, credo, non tanto per scrupolo nei confronti di un vecchio amico, ma più per necessità di verbalizzare le mie ragioni e per un disperato bisogno di fornire una logica spiegazione del mio operato – che tuttavia volevo fornire senza che venisse messa in dubbio. Di certo sospettavo che un qualsiasi approfondimento in merito avrebbe rivelato – a Peters, a me stesso – che di spiegazioni logiche non ne avevo, né per il fallimentare tentativo di suicidio, né per la decisione che avevo preso d’impulso di far ritorno a casa.

«… perciò la cartolina, fra le altre cose, mi ha fatto capire di essere ancora in balia del mio passato, e molto più di quanto credessi. Aspetta e vedrai; sarà così anche per te: uno di questi giorni riceverai una telefonata dalla Georgia e capirai di dover pareggiare più di un conto giù a casa, prima di poter tornare a farti i fatti tuoi».

«Dubito di poterli pareggiare tutti» ribatté Peters.

«Vero; il tuo è un contesto diverso. In quanto a me, di conto ce n’è uno soltanto. E un uomo soltanto. È incredibile quante immagini di lui quella cartolina abbia saputo risvegliare nella mia mente: gli stivali chiodati, la felpa sporca di fango, il guanto sempre a grattare l’ombelico o un orecchio. Labbra rosso lampone stirate in un ghigno da avvinazzato. Ce n’è per tutti i gusti, di immagini ugualmente ridicole, ma la più nitida che mi è comparsa davanti è stata quella del suo corpo affusolato e nerboruto che si tuffa nel fiume, nudo, bianco e duro come un tronco scortecciato… questa è l’immagine più nitida. Devi sapere che da ragazzino mio fratello Hank trascorreva ore a nuotare controcorrente in preparazione a una qualche gara. Ore e ore di nuoto ottuso, accanito, che tuttavia lo vedevano immobile nello stesso identico punto a pochi metri dal pontile. Come uno che corre su un tapis roulant liquido. L’allenamento avrà dato di certo i suoi frutti, perché quando io avevo dieci anni lui sfoggiava già una pletora accecante di trofei e coppe; se non sbaglio, in occasione di uno di quegli eventi ha pure stabilito un record nazionale. Santiddio! E tutto è riaffiorato per via di una piccola cartolina insignificante; e con che nitore, poi. Gesù. Una cartolina. Tremo al pensiero di cosa scatenerebbe una lettera intera».

«Sì. Ma mi dici che cazzo speri di ottenere tornando a casa? Poniamo anche che pareggi il tuo conticino–»

«Non capisci? C’è scritto anche lì: “Dovresti essere grande abbastanza ormai”. Era così allora – fratello Hank mi veniva sventolato davanti come esempio di virilità con cui misurarmi – e così è ancora adesso. Simbolicamente parlando, s’intende».

«S’intende».

«Quindi vado a casa».

«Per misurarti con questo simbolo di virilità».

«O per tirarlo giù dal suo piedistallo. No, non ridere; è dolorosamente chiaro adesso: fintanto che avrò un conto in sospeso con questo fantasma del passato–»

«Stronzate».

«–non potrò che sentirmi inferiore e inadeguato».

«Stronzate, Lee. Ce l’hanno tutti un fantasma così, un padre o qualcun altro–»

«Neanche son stato buono di asfissiarmi col gas».

«–ma non si precipitano a pareggiare conti, miseria ladra–»

«No, sul serio, Peters. Ci ho pensato bene. Ascolta, mi rincresce lasciarti le beghe della casa e tutto, ma ho– ho riflettuto a lungo e non mi resta altra scelta. Glielo dici tu al dipartimento?»

«Che cosa? Che ti sei fatto saltare in aria? Che sei andato a pareggiare i conti col fantasma nudo di tuo fratello?»

«Fratellastro. No. Digli solo… che sono stato costretto da contingenze economiche e sentimentali a–»

«E dai, bello, non puoi fare sul serio».

«E cerca di spiegarlo a Mona, okay?»

«Lee, aspetta; tu sei fuori di testa. Ora vengo–»

«Stanno annunciando la mia corriera. Devo scappare. Appena potrò ti spedirò quanto ti devo. Addio, Peters; vado a dimostrare che Thomas Wolfe era in errore».

Riappesi un recalcitrante Peters al gancio e respirai a fondo ancora una volta. Mi congratulai con me stesso per l’autocontrollo. Me l’ero cavata egregiamente. Mi ero mantenuto religiosamente entro i confini, nonostante i tentativi di Peters di sovvertire il nostro sistema e nonostante il miscuglio di dexedrina e barbiturici che avrebbe reso leggermente schizzato chiunque. Ebbene sì, mio caro, vecchio Leland, non ti si venga a dire che non hai fornito una spiegazione concisa e del tutto logica a prescindere da qualsivoglia triviale interferenza…

E più si andava avanti più le interferenze si facevano triviali; ci ragionai mentre spingevo gli sportelli della cabina e m’immettevo nel viavai del deposito. Il grassone chino sul flipper si preparava a un delirante orgasmo visivo e sonoro. Ruggendo, l’altoparlante mi avvertì che qualora non mi fossi affrettato a salire a bordo sarei stato lasciato a terra!

«Troppo alta» stabilii, e alla fontanella mi sciacquai in gola altri due barbiturici. Appena in tempo per essere risucchiato da un gorgo di movimenti che mi depositò, miracolosamente e giusto in tempo, sulla banchina davanti alla mia corriera.

«Lasci il bagaglio e si cerchi un posto» mi disse con impazienza l’autista, come se stesse aspettando solo me. Cosa che per altro si dimostrò del tutto corretta: la corriera era vuota. «È finita la corsa all’Ovest, eh?» domandai, ma non ricevetti risposta.

Mi avviai barcollando verso un sedile in fondo (cui sarei rimasto incollato immobile per quasi quattro giorni, scendendo solo durante le soste per andare al cesso e comprarmi la Coca). Mentre ero in piedi che mi levavo la giacca, all’altro capo del veicolo la portiera si richiuse con un forte sibilo d’aria compressa. Trasalendo mi voltai verso il rumore, ma nella corriera ancora ferma in garage era talmente buio che non vedevo niente. Immaginai che l’autista fosse sceso per poi richiudersi dietro lo sportello. Lasciandomi lì, solo e prigioniero! Poi il motore rombò sotto di me e intonò un lamento acuto. La corriera uscì dal suo oscuro antro di cemento nel pomeriggio assolato del New England, e dondolando allegramente superò la banchina, inchiodandomi alfine al mio posto. Appena in tempo.

Ancora non avevo visto l’autista tornare.

La bizzarra, crescente anarchia di suono e movimento iniziata nella cabina telefonica tornò a esigere la mia attenzione, come se il polverone, rimasto sospeso per aria nelle ore successive all’esplosione, si stesse finalmente depositando. Scene, ricordi, facce… come ricami su tende gonfiate dal vento. Avevo il flipper negli occhi. La cartolina nelle orecchie. Lo stomaco mi sciabordava, e un coro di voci mi riecheggiava in testa – il mio sorvegliante interiore urlava OCCHIO! BADA CHE CI SEI! STAI DEFINITIVAMENTE, IRRIMEDIABILMENTE PERDENDO LA BROCCA! Mi aggrappai ai braccioli del sedile in preda a un terrore disperato.

A ripensarci (ora, intendo, in questa particolare congiuntura temporale in cui sono obiettivo e ardimentoso grazie a quel miracolo che è la moderna tecnica narrativa) lo vedo con chiarezza, quel terrore, ma onestamente fatico a individuarne la radice in boccio nella tanto abusata paura di impazzire. Per quanto all’epoca affermare di sentirsi sull’orlo della follia fosse pratica alquanto diffusa, credo di non essere stato in grado, almeno per un bel pezzo, di convincermi di avere il diritto di affermare una cosa simile. A dire il vero ricordo che una delle immagini che mi vorticavano davanti, mentre stringevo i braccioli con tutta la forza che avevo, era una scena con il dottor Maynard, una seduta nel suo studio in occasione della quale gli avevo tragicamente confessato, «Dottore… sto dando di matto; frana tutto, e presto rimarrò sepolto!».

Lui aveva sorriso con condiscendenza, terapeuticamente. «No, Leland, tu no. Tu, e in effetti con te buona parte della tua generazione, sei stato esiliato per una ragione o l’altra da questo specifico santuario. Per voi è diventato pressoché impossibile “impazzire” nel senso tradizionale. Un tempo c’era chi opportunamente “impazziva” e non se ne sentiva più parlare. Come il personaggio di un romanzo. Ma adesso» – e se non erro, aveva osato addirittura sbadigliare – «siete tutti troppo consapevoli di voi stessi a livello piscologico. Avete troppa familiarità con i sintomi della follia per farvi sorprendere con la guardia abbassata. E un’altra cosa: siete bravissimi a rilasciare frustrazione attraverso una fantasia intelligente. E tu, tu sei il peggiore di tutti su questo fronte. Perciò… sarai anche un nevrotico per il resto dei tuoi giorni, e triste anche, magari ci scapperà perfino una capatina al Bellevue e di sicuro potrò contare su di te come paziente pagante per altri cinque anni buoni – ma no, temo che non perderai mai definitivamente la testa». Si era abbandonato all’indietro sull’elegante poltroncina. «Spiacente di deluderti, ma il massimo che posso offrirti è la solita, noiosa schizofrenia con disturbo delirante».

Ricordando questo, e le sagge parole del medico, rilassai la presa sui braccioli e tirai la leva per reclinare il sedile. Accidenti, sospirai: esiliato perfino dal santuario dell’infermità mentale. Che disdetta. La follia poteva esser un buon modo per spiegare il terrore e giustificare l’anarchia, rimuginai, un ottimo capro espiatorio in caso di sconforto, un interessante passatempo con cui occupare il lungo pomeriggio della vita. Disdetta totale…

Però… d’altro canto, mi dissi mentre la corriera attraversava rombando la città, non si può mai sapere: poteva risultare una disdetta tanto quanto poteva esserlo il suo opposto, ovvero la sanità. Ti ci dovevi impegnare troppo, in ogni caso. E presto o tardi, quasi sicuramente, un pezzetto di ricordo sarebbe passato inosservato agli occhi del tuo capro espiatorio interiore e in un modo o nell’altro ti sarebbe arrivata una sberla più forte che mai da quella sacchettata di piscio che è la realtà, con i suoi dolori, le sue delusioni amorose, le seccature, la morte. Potevi nasconderti in una qualche giungla freudiana per gran parte della tua miseranda vita, a ululare alla luna e gridare improperi a Dio, ma alla fine della stramaledetta fiera… ti saresti ripigliato quel tanto che bastava a capire che la luna cui per tanti anni avevi ululato non era altro che il lampadario sul soffitto e Dio soltanto una cosa che ti avevano infilato i Gedeoni nel cassetto dello scrittoio. Sì, sospirai ancora, alla lunga la follia non sarebbe stata altro che la solita spietata questione di solida carne, di colpi di fionda e dardi della fortuna insensata.

Reclinai un altro po’ il sedile e chiusi gli occhi, provando a rassegnarmi al fatto che non c’era niente che potessi fare per placare quest’anarchia fuori controllo, se non attendere che il pilota farmacologico assumesse il controllo permettendomi di dormire. Ma le pasticche stavano impiegando un tempo insolitamente lungo a fare effetto. E in quei dieci, quindici minuti in attesa – tra l’ansia, il fischio nelle orecchie e il rombo della corriera, vuota a eccezione di quell’unico passeggero in fondo che sfrecciava sbuffando per la città – che i barbiturici facessero il loro dovere… mi vidi costretto a soppesare i quesiti che per lungo tempo avevo così abilmente scansato.

Esempio: «Che cazzo speri di ottenere tornando a casa?». Ero consapevole che tutta quella pappardella edipica che avevo rifilato a Peters sul misurarsi e tirare giù si approssimava a una qualche verità… Ma anche ammesso che fossi stato capace di mettere a segno un tale colpo, che cosa mai speravo di ottenere?

Secondo esempio: «Perché diavolo uno dovrebbe fantasticare di svegliarsi da morto?». Se è vero che la grandiosa menata del ciclo nascita-morte è la sola che ci spetta… se la nostra magnifica ed esaltante Lotta per la Vita è davvero solo una contingenza tragicamente effimera rispetto agli eoni di Prima e Dopo – perché mai rinunciare anche solo a una manciata di preziosi secondi?

E terzo: «Se è una menata, perché lottare per sorbirsela?».

Ce li avevo in riga davanti agli occhi, questi tre quesiti: tre bulli ostinati, con le mani piantate sui fianchi e il ghigno stampato in faccia, che mi sfidavano ad affrontarli a viso aperto una volta per tutte. Il primo mi risolsi a farlo fuori subito, per via della sua natura più pressante e dell’aiuto di cui disponevo durante il viaggio. Il secondo non trovò soddisfazione che qualche settimana più tardi, quando le circostanze successive al viaggio diedero casualmente adito a un’altra sfida. E il terzo è ancora lì che aspetta. Mentre io m’imbarco in un viaggio diverso. Nel ricordo del tempo che fu.

Va detto che il terzo è il bullo più tosto di tutti.

Con il primo, dunque, mi misi subito al lavoro. Che cosa speravo di ottenere tornando a casa? Be’, me stesso, tanto per cominciare… il mio povero, vecchio io!

«Bello,» fa Peters al telefono «guarda che non funziona così, così stai solo scappando. È come lasciare di corsa una spiaggia per andare a farsi una nuotata».

«Ci sono spiagge all’Est come all’Ovest» lo informo.

«E che cazzo…» dice.

Tornando indietro a quel viaggio (e poi in avanti a questo), faccio due calcoli e so che ci sono voluti quattro giorni (il difetto dell’astrarsi, grazie alla moderna tecnica narrativa di cui sopra, è che pur guadagnandoci in oggettività e prospettiva – gli eventi messi uno in fila all’altro si riproducono come riflessi su due specchi che si guardano, eppure ciascuno è mutato – di fatto sorge un problemuccio con i tempi verbali)… ma se ci ripenso ricordo il deposito, il gas, il tragitto in corriera, l’esplosione, il racconto sconnesso che ho rifilato a Peters al telefono – tutto come se fosse un’unica scena, composta però di decine di eventi che accadono simultaneamente…

«Qualcosa non va» dice Peters. «No, aspetta… è successo qualcosa, accidenti a te Lee, cosa? Sei a New York per identificare cosa? Ma, bello, è roba che risale a più di un anno fa».

Adesso potrei (forse) tornare indietro e stiracchiare quelle ore raggrinzite, staccare le immagini una dall’altra, come sfoglie, disporle in un preciso ordine cronologico (forse; con volontà, pazienza e le giuste sostanze chimiche), ma essere precisi non significa necessariamente essere onesti.

«Lee!» Stavolta è mia madre. «Dov’è che vai? Vai mai da qualche parte

Né tantomeno un resoconto cronologico è sempre il più veritiero (ogni macchina offre la sua verità), specie se uno, anche con tutta la buona volontà del mondo, non può onestamente affermare di ricordare con precisione quanto è avvenuto…

Il grassone mi sbircia di sbieco. «Non si possono vincere tutte, ma questo qui, che colpo!» Mostra i denti. Sulla sua maglietta si legge a grandi lettere arancioni TILT, sottolineato in verde.

O di ricordare con precisione quanto è onestamente accaduto…

E precipitando, la mamma passa davanti alla mia finestra, per sempre.

E comunque ci sono cose che non possono essere vere, nemmeno se sono di fatto accadute.

La corriera si ferma (riaggancio, mi precipito all’auto e vado al Campus Diner) e riparte, a singhiozzi. Il locale è affollato ma l’atmosfera dimessa. Le persone sono come assenti. Un velo di fumo di tabacco davanti al viso le fa sembrare oggetti esposti dietro un vetro. Scruto oltre questo velo, e scorgo Peters seduto al suo tavolo in fondo alla sala, vicino al distributore delle sigarette, che si beve una birra con Mona e qualcun altro che poi se ne va. Peters mi vede arrivare e si lecca la schiuma dai baffi, e la sorpresa rosa della lingua del negro mi guizza davanti. «Ed ecco Leland Stanford, lato sinistro del palco» dice. Prende la candela dal tavolo e la solleva verso di me con un gesto teatrale. «Infuria, infuria e ricorda Dylan Thomas» dice, e Mona: «Quando arrivi a casa, Lee, guardati un po’ intorno e vedi se non ti è caduto lì da qualche parte». Dolcemente.

Li informo che ho appena bocciato di nuovo gli esami. Peters mi fa: «Stronzate. Tutto qui?». E Mona: «Ho visto tua madre precipitare».

«Oh» fa Peters. «E indovina chi c’era con noi un attimo fa? Se n’è andato mentre entravi, sempre nudo».

Il flipper si paralizza di luce e sento Peters respirare nel ricevitore, comprensivo, paziente, in attesa che mi finiscano le smanie. «Bello, nessuno» dice poi, tristemente «può tornare a casa».

Voglio dire loro qualcosa sulla mia famiglia. Dico: «Mio padre è uno schifoso capitalista e mio fratello un pezzo di merda». «C’è chi ha tutte le fortune» fa Peters, e ridiamo. Vorrei dire di più, ma in quel momento sento la mamma entrare nel locale. Riconosco gli affondi decisi dei tacchi sulle piastrelle. Tutti si girano, poi tornano a bere il loro caffè. Non trovo una moneta da dieci e mia madre è ritta sulla soglia che scruta la folla vicino alle pareti. Si sfiora i capelli corvini, e sto male a guardare perché in quel momento si trasforma in cromature e cosmetici. Si dirige al bancone con passo risoluto, appoggia la borsa su uno sgabello e il cappotto corto su un altro, e si accomoda fra loro.

«E poi, bello… per ottenere cosa?»

Guardo la mamma sollevare una tazza di caffè… il gomito posato sul bancone, le dita che ricadono verso il basso per avvolgersi intorno alla tazza… ora accavalla le gambe sotto la gonna grigia e sposta il fulcro del gomito sul ginocchio, e adesso ruota lentamente sullo sgabello. Aspetto che il braccio si abbassi e la mano riversi il proprio contenuto nel camion in attesa. Ma all’improvviso vede qualcosa che la spaventa e le cade la tazza. Mi volto, ma ancora una volta lui se n’è già andato.

Chiedo un bicchiere d’acqua. Il postino me lo porta e l’altoparlante chiama tutti a bordo. Il portalettere fa: «Be’, una cosa almeno l’avrai ottenuta al tuo ritorno: saprai se è vero o no». «Come dice?» domando, ma quello se ne va capriolando all’indietro. Sarà un loro metodo.

Il telefono squilla ed è quell’orribile mostro palustre del predicatore amico di mia madre, che mi chiama da New York per dirmi cos’è successo. E com’è rimasta sconvolta la mamma alla notizia che ho bucato gli esami. E com’è mortificata di non essermi stata abbastanza vicino. E quanto gli dispiace. E che è sicuro che io abbia il cuore in pezzi adesso, poi prova a rincuorarmi dicendo che siamo tutti, caro ragazzo… prigionieri della nostra stessa esistenza. Ribatto che non mi pare né una cosa profonda da dire né una gran consolazione, ma appena mi sdraio sul letto con la luna che mi sega in due continua a comparirmi davanti quest’immagine di una minuscola gabbia tempestata di zirconi, che avanza allegramente lungo un binario e dentro c’è mia madre che esegue il flebile repertorio dei suoi gesti mentre la gabbia seguita a scivolare, e giro girotondo e su sul cemento fino al quarantunesimo piano, dove le rotaie s’interrompono.

«Chi l’ha chiusa lì dentro?» urlo, e il portalettere si precipita dentro a riconsegnarmi la cartolina. «Un messaggio dal passato, signore» dice ridacchiando. «Un passaggio». «Oh cazzo» sbuffa Peters.

A pensarci bene… se sono vulnerabile a questo mondo del passato quanto lo è stata lei… allora forse mi viene negato tutto ciò che potrei avere – Peters, ascolta! – perché mi sento da sempre in obbligo di misurarmi con un ricordo».

«Oh cazzo» fa Peters all’altro capo del filo.

«No, ascolta. Questo biglietto arriva con un tempismo impeccabile. Forse ha ragione. Forse sono davvero Grande Abbastanza, no? Sono Forte Quanto Basta da pretendere che mi venga restituito il sole che mi è stato sottratto… Disperato Il Giusto per esigere che le mie richieste vengano esaudite, a costo di estirpare lo spettro e l’ombra che getta!»

Fomentato da quella possibilità – e dall’incessante strombazzare della corriera che nel frattempo, ferma allo stop, cercava di spronare un cauto furgone del latte a immettersi nel traffico congestionato – mi riscossi momentaneamente. Ero stordito e fatto come pochi, ma se non altro quella strana sensazione di qualcosa che mi gonfiava dentro era cessata. E il terrore aveva ceduto il passo a una sorta di estroso ottimismo. Che il Piccolo Leland fosse davvero Grande Abbastanza? Poteva essere, no? Anche solo a giudicare dagli anni? Hank non era più un giovane virgulto. Un bel po’ d’acqua era passata sotto i ponti dai tempi delle coccarde e dei trofei di nuoto. Se io ero nel fiore degli anni, Hank ormai era oltre – per forza! Potrei forse tornare indietro e strappare al mio passato qualche brandello di un inizio migliore? L’abbrivio per uno scenario più roseo? Per questo sì che varrebbe la pena di precipitarsi a reclamare Dio solo sa…

Il furgone del latte si tuffò finalmente nel flusso del traffico e la corriera avanzò. Lasciai che gli occhi si richiudessero e abbandonai la testa all’indietro, mentre una solleticante euforia m’infondeva una certa sicurezza. «Voi che dite, ragazzi?» interrogai quelli che si nascondevano nelle ombre circostanti. «Il Piccolo Leland ce l’ha una possibilità, contro questo spettro analfabeta sfuggito dal passato per pungolarmi ancora una volta col suo ghigno? Ce l’ho sul serio una possibilità di strappargli via con la forza la vita che mi è stata negata, la vita che entrambi sapevamo essere mia? E mia di diritto? Giustamente mia?»

I miei amici lì presenti non fanno in tempo a rispondere che il fantasma in persona scivola fuori dalle ombre disfatte e mi picchietta una sacca sulla testa, liberando una pioggia di trucioli di barbiturico argentati. Ancorché ebbro di coraggio, faccio mezzo per alzarmi dal sedile e domandare al marcantonio sorridente che incombe su di me con una felpa numero 88, «Dove vuoi tu condurmi?», fulminandolo con lo sguardo più shakespeariano che i miei occhi da fesso riescano a sfoggiare. «Parla, io non verrò più oltre».

«Ah sì?» Un ghigno gli solletica il labbro. «Non verrai oltre? Vediamo se no! Adesso trascini fin qui la coda e ti siedi; non hai sentito che ti chiamavo?»

«Non hai alcun controllo su di me» – con voce tremante – «nessuno».

«Ma senti, dice che non ho controllo su di lui. Giovani, avete sentito? Non ho controllo sul signor Sotuttoio, qui. Bimbo, sentimi bene: io te lo chiedo per favore un’altra volta soltanto poi perdo la pazienza. Allora muoviti, mannaggia a te! E basta gingillare! In piedi. Muoviti, ho detto!»

Il nostro giovane eroe, umiliato e strattonato e in preda alla frustrazione più nera, si lascia cadere a terra fremendo di protoplasmico smarrimento. Il gigante pungola l’agglomerato con la punta dello scarpone. «Ah, che macello ha fatto. Cristo santo… Ragazzi!» Alza il mento e urla, «Dategli una raccolta e portatelo a casa perdio, che di tempo da perdere qui non ne abbiamo. Ma guardatelo…»

Un’orda di congiunti erompe dalle quinte; le camicie di flanella, gli scarponi chiodati, i fisici torniti tradiscono una certa confidenza con le attività di disboscamento e commercio del legname; l’uniformità dei tratti rivela che sono tutti membri della stessa famiglia, lo dicono i nobili nasi aquilini, le chiome biondo sabbia agitate dai fragranti venti del nord, lo dicono gli occhi verde ferroso. Sono tutti caratterizzati da una bellezza ruvida. Tutti tranne il Piccolissimo, il cui volto è orribilmente sfigurato dall’uso costante che la famiglia ne fa come bersaglio; le freccette sono acuminate e la carne penzola a brandelli là dove le punte l’hanno lacerata. Il poveretto inciampa per la foga e crolla di botto. Il gigante si china, lo solleva stretto tra il pollicione e l’indice, e lo studia con il bonario disappunto che si riserverebbe a un grillo.

«Joe Ben,» osserva il marcantonio, paziente «tra che farfugli, sfiati e fromboli a terra, non ne avevamo già parlato? Non capisci che finirai per fare un volo fuori dal clan se continui in questo modo? Che dirà la gente? Uno Stamper che casca sempre di culo… Sbrigati adesso, vieni ad aiutare i cugini a raccogliere il mio fratellino, prima che coli giù nelle tane dei topi. Sbrigati!».

Depone il Piccolissimo sul pavimento e lo segue con sguardo bonario mentre quello accorre in aiuto dei compagni. «Il buon vecchio Joby». Hank sorride, e il sorriso che quell’adorabile gnomo gli ispira svela che un cuore tenero batte in realtà sotto la gretta scorza. «Son proprio contento che il vecchio Henry non l’ha affogato come ha fatto col resto dei cuccioli; Joe ti fa fare certe risate».

Intanto i congiunti sono riusciti a raccogliere il nostro eroe disciolto e lo stanno portando verso casa dentro una busta in poliuretano; nel tragitto attraverso l’ampio e raffinatamente concepito pantano d’ingresso, l’ardito fanciullo si riprende dallo spavento quel tanto che basta per tornare ad assumere, poco alla volta, una parvenza di sembianze umane.

La casa è camuffata da catasta di legname di scarto la cui vetta si perde tra le nuvole; la porta, che può essere aperta solo inserendo un ciocco nella toppa immensa, oscilla verso l’interno, e attraverso il suo trasparente confino per un attimo Leland intravede le cupe insegne di un vasto salone – mastini che si rincorrono fra grandiosi pilastri d’abete in cui sono incastonate asce bipenni, giacche di montone appese con noncuranza ai loro ganci – poi la porta si richiude con un tonfo che riecheggia tra le mura in lontananza, e il buio torna ad avvolgere ogni cosa.

Questo è il Grande Palazzo degli Stamper. Fu eretto durante il regno di Henry (Stamper) VIII e per secoli condannato da ogni agenzia di pubblica sicurezza della zona. Perfino nei periodi di siccità più intensa si sente l’acqua sgocciolare, e nel lungo dedalo di corridoi bui e cadenti risuona un costante zampettìo e un perenne tamburellare di ranocchie cieche. Tali rumori sono intervallati dall’occasionale crollo tonante di un’ala oscura dell’edificio, e interi rami della famiglia sono svaniti in quei passaggi e non se n’è mai più avuto notizia.

Nel feudo vige una monarchia assoluta che scoraggia chiunque, compreso lo stesso principe ereditario, a prendere iniziative senza previa consultazione con il Magnifico Sovrano. Hank si porta in testa al corteo di congiunti e chiude le mani a coppa davanti alla bocca, al fine di convocare l’eccelso potentato.

«Mh… PAH

Il boato rimbomba nelle tenebre d’inchiostro rimbalzando sulle pareti di legno. Hank ripete il grido e stavolta una candela si accende in lontananza, illuminando prima il profilo segnato, poi l’intero, terribile volto del vecchio Henry Stamper. Siede su una seggiola a dondolo in attesa di diventare centenario. Gira lentamente il rostro da falco in direzione della voce del figlio. Gli occhi da falco bucano l’oscurità. Tossisce con vigore poi sputa un carbone ardente che sfrigola nell’aria umida. Tossisce ancora e, adocchiando la busta di plastica, si accinge a parlare.

«Bene bene… cagnacci miei… eheheh… vediamo un po’ cos’abbiamo qui. Che diamine avete pescato dal fiume stavolta, voi giovinastri? Da non credere, ogni volta si tiran dietro una porcheria diversa…»

«Non l’abbiamo trovato, Pa’, è che prima non c’era proprio».

«Ma senti!» Il sovrano si piega in avanti, mostrando accresciuto interesse. «Si presenta maluccio… secondo te cos’è? L’ha portato la piena?»

«Temo, Pa’» – Hank china il capo e prende a strusciare la punta del piede per terra, sollevando un polverone di trucioli di pino strobo – «che sia» – si gratta la pancia, deglutisce – «il vostro figliolo più piccolo, Leland Stanford».

«Per tutti i diavoli! Te l’ho detto non una, cento volte te l’ho detto che non voglio più sentir nominare quel mollaccione in questa casa! Puah. Mi fa schifo il nome, figuriamoci la faccia! Cristo, figliolo, che razza di cretinata t’è saltata in mente?»

Hank si accosta al trono. «Pa’, lo so che vi fa star male, non vorrei ma sto male anch’io – peggio di voi, forse, vi dirò; giuro che preferivo non sentir più quel nome per il resto della vita mia – ma mi pare che non ci sia altro verso di uscire da questa rogna».

«Quale rogna?!»

«La rogna del lavoro».

«Vuoi dire–» Il vecchio trasale; la mano si solleva in un gesto d’involontario orrore.

«Già. Siamo alla frutta, vecchio mio, peggio di così. Lo sapevate quando abbiamo risparmiato Joe Ben che eravamo a raschiare il barile. Non avevamo scelta perciò, Pa’…» E incrocia le braccia, in attesa…

(Ai piedi delle montagne i corvi si agitano nel sonno. Jenny si affaccenda con necessità, solitudine e la magia della propria ignoranza. Alla vecchia dimora la discussione accesa dall’idea di Joe Ben di scrivere ai parenti che risiedono in altri Stati subisce un’improvvisa battuta d’arresto quando Orland chiede di vedere i libri contabili. «Li porto subito giù» si offre Hank, che si avvia verso le scale… ben lieto di quell’occasione di allontanarsi un momento dal chiasso e dalla baraonda…)

Con mestizia Henry osserva il giovane Leland, che agitando debolmente la mano saluta il venerabile padre da dentro la busta di plastica. Henry fa oscillare la vecchia testa.

«Allora è così, eh? A questo ci siamo ridotti». Poi, avvampando di una furia improvvisa, s’inclina pericolosamente in avanti e alzandosi dalla sedia prende a brandire il bastone in faccia al parentado sottomesso. «Non lo dicevo a voi giovani che prima o poi andava a finire così? Non l’ho ripetuto fino a diventare blu in faccia, “Piantatela di gingillarvi con sorelle, cugine e simili, e uscite a cercarvi qualche altra donna, tanto per cambiare!”. Sono arcistufo di tutti questi scherzi della natura e fessi senza speranza che mi tirate fuori. Non si può accoppiarci sempre fra noi come porci! La famiglia deve essere robusta e in salute per continuare a produrre come si deve. Non ho più intenzione di tollerare anelli deboli! No, perdio, non più. Ci servono buoni esempi, come mio figlio Hank, come la roba che tiro fuori io–»

Il viso si paralizza per un istante, mentre gli occhi si avvedono ancora una volta della busta di plastica, poi di colpo gli imperturbati tratti vanno in frantumi sotto il peso dell’umiliazione. Trasalendo, il grand’uomo s’abbandona sulla sedia a dondolo e si porta le mani al cuore provato. Passata la crisi, Hank riprende la parola in tono dimesso:

«Lo so, Pa’, che vi secca a dir poco. Lo so che con la sua debolezza e il suo frignare vi ha portato via la vostra giovine e fedele moglie. Ma vi dirò che cosa ho ragionato quando è diventato chiaro che non si poteva girare intorno allo sgradito argomento». Avvicina un ciocco facendolo rotolare e vi si accomoda, assumendo un atteggiamento confidenziale. «Ho ragionato… che innanzitutto siamo una famiglia, e questo è l’importante. Dobbiamo evitare a tutti costi di inquinare la razza. Non siamo mica negri o ebrei o gente qualunque; siamo Stamper».

Squilli di tromba; Hank, elmetto in mano, attende che i ranghi portino a termine l’Inno della Famiglia.

«E ho ragionato che ancora più importante è che perdio la gente qualunque non se lo deve scordare mai

Strepiti e fischi. «Diglielo, Hank!» «Ben detto, ragazzo!» «Urrà!»

«E l’unico modo di non farglielo scordare è… tenerci stretto il nostro impero, a tutti i costi; non importa se dobbiamo andar pescando nella feccia di famiglia – solo così possiamo dar prova di che razza superiore siamo».

Ancora applausi. Le mascelle si induriscono, le teste annuiscono la loro secca e virile approvazione. Il vecchio Henry si asciuga gli occhi e deglutisce. Hank si è alzato in piedi. Con uno strattone stacca una delle sue asce da un pilastro e la brandisce enfaticamente.

«E non abbiamo forse firmato col sangue che quant’è vero Iddio avremmo lottato fino all’ultimo stramaledetto uomo? Ebbene… lottiamo

Ancora squilli di tromba. Gli uomini si uniscono a Hank in una marcia a ranghi serrati intorno a una bandiera issata al centro della sala. Marciano, ciascuno stringendo saldamente nella mano destra la spalla del compagno davanti, intonando stralci di inni di battaglia della Prima guerra mondiale. C’è aria di sollievo e cameratismo tra i congiunti ora che l’emergenza è cessata, e si apostrofano l’un l’altro con aspre voci: «Oh sì! Puoi scommetterci! Sacrosanto!». Sfilando accanto alla busta di plastica celano la vergogna dietro una patina d’umorismo: «Guarda guarda». «Fino all’ultimo uomo, s’è detto, ma questo».

«Siamo sicuri che si qualifichi come ultimo? Magari diamo una controllata…»

«Per carità. Così il vecchio ce lo fa maneggiare un altro po’; già è stato un incubo infilarlo in quel sacchetto» ribatte Hank.

(Hank sale le scale, malfermo sulle gambe. Imbocca il corridoio verso la stanza adibita a studio. Sente Viv, in cucina a lavare piatti con le altre mogli, esclamare: «Gli scarponi, tesoro». Si ferma e, sorreggendosi al muro, si toglie gli scarponi incrostati di polvere. Si sfila i calzini di lana, li inserisce negli scarponi e prosegue a piedi scalzi mentre un profondo sospiro gli sfugge dalle labbra…)

I membri del clan si son tutti accosciati al cospetto della vecchia stufa a legna nella quale periodicamente sputano tabacco; ciascuno di questi proiettili orali causa un delizioso fiorir di fiamma che accende i ferrei volti di un bel rosso vivo. Uno dopo l’altro aprono il coltellino e cominciano a intagliare. Schiarimenti di voce sparsi…

«Uomini…?» prosegue Hank. «Dunque veniamo ai fatti: chi insegna al ragazzo a guidare la motocicletta, a gingillarsi con le cugine e questo genere di cose?»

(Entrato nello studio, Hank si ferma e chiude un istante gli occhi prima di andare alla scrivania a recuperare i registri che Orland ha richiesto. Li trova in una cartellina che riporta sull’etichetta, con la grafia aggraziata di Viv, la dicitura «Bilanci P & L, gennaio – giugno 1961». Richiude il cassetto della scrivania e attraversa la stanza. Apre la porta di uno spiraglio, ma non esce in corridoio. Se ne sta lì, a fissare la carta da parati ingiallita, con l’orecchio vagamente teso a cogliere il brusio che proviene dal piano di sotto; ma non distingue che la continua risata abbaiante dell’impiastro con cui è sposato Orland…)

«Chi gli impara a radersi con l’accetta? O a prendere un negro a calci nelle palle? Questi son dettagli che dobbiamo curare. Chi si assicura che andrà a tatuarsi la mano?»

(In cucina la moglie di Orland ride, un rumore come di bastoncini spezzati. La luce palpitante del flipper esplode in un giro di steel guitar, «Butta il carbone, diamogli da mangiare al bel serpentone… io me ne vado da questa regione». Evenwrite raggiunge barcollando l’auto per dormire, con i pugni insanguinati ma l’orgoglio che ancora reclama vendetta: chi l’avrebbe mai detto che quell’imbranato là dentro si ricordasse il nome del fullback della squadra All-State del liceo di vent’anni prima? Jonathan Draeger è una gobba liscia sotto la trapunta, e una faccia bella e imperturbabile al centro preciso del cuscino. Lee si affloscia contro il finestrino mentre la corriera rallenta a uno stop. Hank fa un bel respiro, spalanca la porta dello studio ed esce in corridoio. Il suo viso assume un’espressione di divertita belligeranza, inizia a fischiettare e si batte sulla coscia la cartellina dei bilanci. Joe Ben esce dal bagno e si sofferma in cima alle scale a riabbottonarsi la patta dei pantaloni larghi, mentre vede il cugino farglisi incontro…)

«Ma guardatelo». Joe contorce il viso in un ghigno di scherno. «Guardate come fischia e si batte la coscia, con quell’aria da chi non ha un pensiero al mondo» bisbiglia, nel frattempo che Hank si avvicina.

«Apparenze, Joby. E lo sai come la pensa il vecchio sulle apparenze…»

«In paese, forse, ma a chi importa delle apparenze in mezzo a quel branco di ratti?»

«Joe! Ragazzo mio, è pur sempre della tua famiglia che stai parlando».

«Non Orland. Lui no». Joe affonda di nuovo le mani nelle tasche per recuperare altri semi di girasole. «Avresti dovuto tirargli un cazzotto in bocca, Hank, per quello che t’ha detto giù».

«Zitto. E dammi un po’ di quei semi. E perché mai avrei dovuto tirargli, al povero cugino Orly? Non ha detto una parola–»

«Be’, di parole non ne avrà dette tante, ma con tutto quello che pensano su Leland e sua madre e tutto il resto–»

«Me ne importa un accidenti di quello che pensano. Quello che pensa la gente, Joby, non mi sfiora manco di striscio».

«Sì ma–»

«Ora piantala. E dammi un po’ di quelli».

Hank allungò la mano. Joe Ben gli diede dei semi. I semi di girasole erano la recente ossessione di Joe e nel mese che lui e la famiglia trascorsero con Hank nella sua vecchia dimora, mentre la nuova casa giù in paese veniva ultimata, i gusci erano disseminati ovunque per le stanze. Appoggiati al travetto lucidato a mano che fungeva da balaustra, i due rimasero un bel pezzo a rosicchiare semi in silenzio. Hank iniziava a sentire i nervi distendersi. Ancora un po’ e sarebbe stato pronto a scendere per fare a cornate. Se solo Orland – che in quanto membro del consiglio scolastico era naturalmente preoccupato per la propria reputazione – avesse tenuto la bocca chiusa riguardo al passato… D’altro canto da Orland non ci si poteva aspettare tanto, e lo sapeva. «Dai, Joe» – gettò da parte i semi che gli restavano – «chiudiamola una volta per tutte».

Hank si chinò bruscamente a raccogliere gli scarponi, sputò da una parte un guscio di seme di girasole e marciò giù per le scale, verso i parenti in subbuglio, dicendosi, Mi fa un baffo quello che pensa la gente.

A ovest, circa una settimana più tardi, Jenny l’indiana si convince che doveva esserci una ragione, oltre al fatto che era indiana, se Henry Stamper la evitava; non si trastullava forse con le squaw Yachat, su a nord? E quelle altre a Coos Bay? No, non è soltanto il suo essere indiana a tenerlo a distanza. Dev’essere piuttosto che qualcuno vicino a lui gli vieta di divertirsi con le indiane… un’altra persona che per tutti questi anni li ha divisi…

Al piano inferiore Hank chiuse la riunione il più rapidamente possibile, dicendo ai parenti, «Lasciamo la questione in sospeso finché non avremo trovato una risposta nelle lettere che abbiamo inviato. Ma mettiamo che si decida di lavorare per la WP, badate bene: a fare come volevano giù in paese, a quest’ora avevamo già chiuso baracca da anni». E a se stesso, E comunque, se anche quello che dicono dovesse toccarmi, poco male.

Più a nord Floyd Evenwrite viene svegliato da un agente della polizia stradale. Borbotta un grazie, sguscia fuori dal sedile posteriore e parte alla ricerca di un’area di sosta per usare i servizi. E una volta lì, giura al proprio riflesso dal naso e gli occhi arrossati che, perdio ballerino, farà pentire Hank Stamper di aver sfruttato il prestigio della propria famiglia per essere scelto in quella squadra All-State al posto suo!

Dieci minuti dopo la fine dell’assemblea Hank era nel fienile, e se ne stava con la guancia accostata al ventre caldo e pulsante, teso come la pelle di un tamburo, della vacca da latte, sorridendo al pensiero di come aveva acconsentito a occuparsi della mungitura mentre Viv aiutava a sbaraccare la cucina. «Stavolta soltanto, donna» l’aveva informata. «Stavolta soltanto. Non farti strane idee». Lei aveva sorriso e distolto lo sguardo; non si era lasciata ingannare, lo sapeva, da quel tono da duro, non più di quanto Joe si fosse fatto ingannare dalla sua baldanzosità nel salire le scale. Viv sapeva come la pensava il vecchio Henry sulle apparenze. E chissà se sapeva anche quanto Hank adorava andar lì fuori a mungere.

Spostando l’orecchio sul corpaccione liscio dell’animale sentì le viscere al lavoro. Gli piaceva quel rumore. E gli piaceva la vacca. Gli piacevano il suo calore e il getto ritmico del latte nel secchio. Era da fessi tenere una mucca adesso che il latte costava meno dell’erba medica, ma vuoi mettere una tetta con un’ascia, e poi quel soffice brontolio viscerale era un balsamo dopo tanti scaracchi e scorregge del vecchio, le stronzate che sparava John e il gracchiare stridulo della moglie di Orland. Vabbè, non facevano mica male a nessuno.

Il latte risuonò nel secchio, poi attutì il proprio risuonare in risvolti di spuma bianca, cadenzati rintocchi di denso e caldo candore.

Questa è la campana di Hank.

Sul fiume la barca a motore azzannava l’acqua screziata di foglie mentre Joe Ben trasportava carichi di passeggeri da una sponda all’altra. Le auto si rianimarono, sputacchiarono ghiaia reimmettendosi sulla nazionale. Il gesso di Henry tonfava e rollava sul pontile.

Proprio da fessi, tenere una mucca.

Nel cielo che imbrunisce, là dove le punte degli abeti affilate come lance graffiano le nuvole, ecco che già si scorge la luna come una scorza dismessa dal sole calante. Anche questa è la campana di Hank.

Ma benedetto Iddio quanto sono calde ad appoggiarci la faccia?

Sul pontile quel picchio d’uomo sfila avanti e indietro scuotendo la chioma, che vista da vicino è gialla e grossolana come un mazzo di stuzzicadenti rotti; da cinquanta iarde di distanza è bianca come la folgore; da cinquanta iarde di distanza, al capo sbagliato del telescopio, le gote di John sferzate dall’alcol brillano di rubizza salute, e col passo misurato ed esitante del puledro purosangue la moglie di Orland sale sulla barca in attesa. La faccia tagliata con l’accetta del povero Joe Ben luccica sull’acqua verde come un fine bassorilievo, e la moglie tuberiforme è un cigno in abito di taffetà a pois. Da cinquanta iarde di distanza.

Questa è la campana di Hank – segreta fra vette di spuma adagiate su calde valli bianche – questi sono i rintocchi della sua campana.

Nella caotica cucina, in mezzo a un capolavoro architettonico di piatti sporchi, Viv si riavvia col polso il ricciolo di capelli che sempre le ricade sulla fronte quando va di fretta, e canticchia, «I miei occhi hanno visto la gloria della venuta là là là». I cani gonfiano la zanzariera sul retro via via che vedono ossa di cervo, croste di pane e resti di salsa ammonticchiarsi sulla teglia di porcellana sbeccata. Oltre il fienile, nell’orto, piccoli alberi di ferro dalle foglie verde opaco e i bordi che iniziano ad arricciare, porgono i propri omaggi al sole: pomi d’ottone, e il sole estivo, scivolando nell’oceano placido e paziente, accetta l’offerta con grazia. I gabbiani ciondolano sopra una rossa battigia; i lunghi stormi dei cormorani dai colli allungati, che amano fingersi parte del mare e sempre volano a pelo d’acqua assecondando ogni cresta, ogni ansa, si abbandonano a un ultimo, fatidico slancio e infine planano sulla superficie, come una coperta maculata contro il gelo della notte.

Ciascun rintocco è uno sprigionarsi di increspature su un lago, che si allargano in ogni direzione.

In paese Grissom legge gli albi a fumetti della sua libreria, con gli occhi che scintillano di Batman e Robin e paregorico. Boney Stokes avanza da casa sua lungo il marciapiede, come una cicogna nera, e con andatura saltellante copre il tragitto fino al suo negozio per controllare i registri del figlio e contare i passi, sia mai che qualcuno si fosse rubato un pezzo di marciapiede. Il coach Lewellyn soffia nel fischietto condannando la squadra all’ultima caotica, fradicia, insipida simulazione di uno schema di gioco che hanno già ripassato una decina di volte; Hank si prepara all’urto con il defensive end, fa una finta di lato, taglia il campo con movimento pulito e intercetta il ragazzo all’altezza del paracoscia. Quello crolla a terra con un rantolo e insieme rotolano in un misto di odori d’erba e sabbia, mentre il running back s’insinua nel varco a tutta velocità; il coach fischia per porre fine all’allenamento; il trillo si allunga nel crepuscolo come un festone…

«Haaa-ank…»

Sarebbe bello se suonasse sempre…

«Hank

Ma è dura tagliare fuori gli altri rumori.

«Qui dentro, Joe; nella stalla».

«Hankus?» Joe Ben fece capolino dalla finestra del capanno e sputò un seme di girasole. «Sai la cartolina per Leland? Ho fatto. Vuoi venire ad aggiungere qualcosa? Di tuo personale, dico».

«Una scrollata e son lì. Le spremo l’ultima goccia».

La testa di Joe Ben si ritrasse. Hank ripose lo sgabello della mungitura sopra la voluminosa cassa che ospitava il generatore d’emergenza e portò il secchio di latte all’ingresso laterale. Appoggiò la spalla alla porta e, facendocela scivolare sopra, la spalancò, poi tornò indietro a liberare la testa sonnacchiosa della mucca dalle sbarre per rispedirla al pascolo con una sculacciata.

Quando finalmente rientrò in casa con il secchio del latte che gli picchiava sulla gamba, Viv aveva terminato di lavare i piatti e Jan era di sopra a preparare i bambini per la notte. Joe era chino sul tavolo apparecchiato per la colazione, intento a rileggere la cartolina.

Hank sistemò il secchio sullo sgocciolatoio e si pulì le mani sulle cosce. «Fammi vedere… immagino che qualcosa dovrò aggiungere».

… e il portalettere, starnutendo sangue su una tavolata di corrispondenza, informa il superiore: «Dubito che sia stato un incidente; troppo perfetta per essere una coincidenza. Io dico che quel tizio è un pazzo furioso e che l’esplosione era pianificata!».

E il flipper lampeggia. E le nuvole sfilano via. Tra un ringhio e uno sbuffo finalmente la corriera s’immette nel traffico, dove giganteggiando e oscillando avanza verso ovest in una luminosa campagna da cartolina a colori. Compare la mano. La cartolina volteggia, atterra, esplode, squarcia legno e vetro. Il prato beccheggia e luccica. Evenwrite spalma il deretano sulla tavoletta del gabinetto di un’altra stazione di servizio e si apre un altro pacchetto di Tums. Jonathan Draeger abbandona una riunione a Red Bluff ancora prima che sia giunta a metà, con la scusa che deve proseguire a nord per Eugene, e invece si reca in un bar dove si siede e annota sul suo taccuino: «L’uomo non possiede altre certezze che la sua stessa capacità di fallire. È la fede più profonda di cui disponiamo, e l’infedele – il blasfemo, il dissenziente – stimola in noi un sacro furore. Lo scolaro detesta il compagno presuntuoso che si dice capace di camminare sulla staccionata senza perdere l’equilibrio. La donna disprezza la ragazza sicura che la propria bellezza le farà conquistare l’uomo che desidera. Niente fa più arrabbiare un lavoratore del padrone che si crede un sovrano. E tale rabbia come può essere provocata, può anche essere sfruttata».

E a bordo della corriera, abbandonato sul sedile accanto al finestrino, Lee si appisolava e ridestava, e di nuovo si appisolava, aprendo di rado più di un occhio alla volta per osservare l’America sfrecciare di là dal vetro fumé: RALLENTA… STOP… LIMITE DI VELOCITÀ… LA QUALITÀ È IMPORTANTE… insieme ai socievoli e raffinati giovani che s’intrattengono vicendevolmente a un barbecue… CONTA CIÒ CHE STA DAVANTI insieme agli stessi socievoli giovani che si rilassano con eleganza in casa dopo la traversia all’aperto… ATTENZIONE… RALLENTA… STOP… LIMITE DI VELOCITÀ

Lee si appisolava e ridestava, muovendo a ovest sul motore strimpellante della corriera; (Evenwrite percorre la 99 in direzione sud a balzelloni, di bagno in bagno) tra un pisolo e una veglia, indifferente a entrambi, guardava i segnali stradali esplodergli accanto (da Red Bluff Draeger viaggia verso nord fermandosi di frequente per bere un caffè e scrivere sul suo taccuino) e si rallegrava di non essersi portato dietro quel romanzo tascabile (Jenny osserva le nuvole marciare verso il mare aperto e sottovoce intona un’appassionata invocazione, «Oh nuvole… oh pioggia…»). Da New Haven a Newark a Pittsburgh DOVE C’È VITA e sorrisi smaglianti, e spaghetti e pane bruschettato C’È BUD e lattine di birra con l’etichetta rivolta verso l’obbiettivo. (Continuo a sciogliermi in merda, gli venisse un accidente a tutti! Evenwrite segna un’altra tacca col gessetto accanto alla sua Nemesi mentre sterza imboccando l’ennesima stazione di servizio.) Cleveland e Chicago, «Get your Kicks… on Route 66!» («Il proprietario del bar è più frustrato dell’operaio comune» scrive Draeger. «Il comune operaio ha soltanto il capomastro cui render conto; il proprietario di bar invece rende conto a chiunque varchi la soglia del suo locale».) St. Louis… Columbia… Kansas City, per assorbire i cattivi odori MENNEN SPEED STICK, e profumi di uomo! (Chi cazzo si pensa di essere, quel bastardo di un mulo, Iddio onnipotente?) Denver… Cheyenne… Laramie… Rock Springs LA CAPITALE MONDIALE DEL CARBONE BITUMINOSO. («Il più duro degli uomini» scrive Draeger «non è che un guscio».) Pocatello… Boise… BENVENUTI IN OREGON RISPETTARE IL LIMITE DI VELOCITÀ IMPOSTO. (Aspetta solo che gli metta davanti questo rapporto, a quel maledetto testone!)… Burns… Bend… 88 MIGLIA A EUGENE IL SECONDO MERCATO DELL’OREGONL’uomo» scrive Draeger «è… ha… sarà… non può…»)… Sisters… Rainbow… Blue River («Oh nuvole,» canta Jenny «oh pioggia… sorgete contro l’uomo che vi dico…»)… Finn Rock… Vida… Leaburg… Springfield… e soltanto a Eugene sembrò destarsi del tutto. Senza rendersene conto era giunto a destinazione. Durante le soste aveva acquistato barrette di cioccolato e Coca Cola, ed era andato al gabinetto, per poi tornare a bordo anche se mancavano venti minuti alla ripartenza. Ma via via che si avvicinavano a Eugene, il paesaggio aveva iniziato ad aprire porte da tempo serrate e scuotere lucchetti arrugginiti, e mentre la corriera – una nuova, cigolante e scomoda – affrontava ora l’ascesa da Eugene alla lunga catena montuosa che separa la costa dalla Willamette Valley e il resto del continente, si sentì cogliere da uno stato di crescente lucidità e agitazione. Osservò la verde schiera dei monti ergersi dinanzi a lui, la macchia della vegetazione infittirsi nei fossati, le chiare nubi d’argento ancorate al suolo tramite fili sottili di fumo autunnale e tesi, come dirigibili. E quei grandi autocarri da tronchi col grugno ingrigliato che ringhiando e gracchiando spuntavan dal bosco… somigliavano (alla madre di Grendel, mi azzarderei a dire, o meglio, mi sarei azzardato allora, al tempo, per mantenere l’allitterazione, ma da piccolo mi apparivano come terribili draghi che nottetempo scendevano berciando giù dalle montagne incantate per venire a far scempio dei miei sogni di bambino. Aerostati di argentea foschia, demoni targati GMC… resurrezioni, e di certo non le ultime di una serie di fantasie di volo e malignità che sarebbero scaturite da quella cartolina venuta dall’Oregon. Aerostati di argentea foschia, demoni targati GMC… tali effigi riesumate dall’infanzia, tali fantasie di volo e ferocia erano state le prime, rivelatorie visioni in quei giorni esplorativi. Nonché il primo indizio che potessi aver preso una decisione affrettata).

«Posso sempre fare dietrofront e tornarmene da dove sono venuto» mi rammentai. «Posso farlo».

«Come come?» chiese il tizio seduto dall’altra parte del corridoio, un ispido sacco d’afrore cui fino a quel momento non avevo fatto caso. «Cos’ha detto?»

«Niente. Scusi; stavo solo riflettendo ad alta voce».

«Io sogno ad alta voce, sa? Son sicuro. La mia signora la manda ai pazzi».

«Perché, la sveglia?» domandai cordialmente, vergognandomi un po’ del mio scivolone.

«Eh sì. Cioè, non io, è lei che resta sveglia aspettando che sogni. Vede, ha paura di perdersi qualcosa di quello che dico… mica che non si fidi – lo sa che ormai sono oltre certe cose, hai voglia se lo sa – è che dice che dai discorsi che faccio sembro un indovino. Sogno a tutto spiano, e predico pure».

A riprova della veridicità della sua affermazione lasciò ricadere la testa sul cuscinetto del sedile e chiuse gli occhi. La bocca si allargò in un sorriso – «Stia a vedere» – poi le labbra si rilassarono e socchiusero, e un istante dopo russava e borbottava a più non posso. «Non lo devi comprare, quel posto da Elkins. Dammi retta…» Santiddio, pensai, dove sei andato a ricacciarti?

Distolsi lo sguardo da quello spettacolo d’irsute gote che avevo accanto per rivolgerlo fuori dal finestrino, sulla sfuggente geometria del suolo coltivato nella Willamette Valley – rettangoli di boschetti di noce, parallelogrammi di campi di fagioli, verdi pascoli trapezoidali punteggiati di fulvo bestiame; un tocco astratto d’autunno – e provai a infondermi coraggio pensando, Ti sei ricacciato nel buon vecchio Oregon, ecco dove. Il buon vecchio Oregon in tutto il suo lussureggiante splendore…

Ma il sognatore al mio fianco ebbe un sussulto e aggiunse: «… posto è invaso dal cardo campestre e dalle teste di negro». E il coraggio che mi ero appena infuso svanì nel vento.

(… una manciata di miglia più avanti rispetto alla corriera di Lee, sulla medesima strada, Evenwrite decide di fare una sosta a casa Stamper prima di entrare a Wakonda. Vuole metterlo davanti alla realtà dei fatti, Voglio guardarlo dritto in faccia, quel bastardo, mentre realizza che l’abbiamo incastrato!)

Scavallata la cima, iniziammo la discesa. Su un ponte bianco e stretto scorsi un cartello che si ergeva a sentinella della mia memoria. WILDMAN CREEK, mi istruiva. Si riferiva al torrentello che avevamo appena attraversato. Ma pensa, Wildman Creek; come galoppava l’immaginazione dietro al nome di quel torrente – il Selvaggio – quando accompagnavo la mamma nelle sue frequenti incursioni a Eugene. Accostai la faccia al finestrino per vedere se su quelle sponde preistoriche abitasse ancora qualcuna delle creature che la mia fantasia aveva partorito. Il Selvaggio correva su un noto tratto di strada nazionale, sbuffando, sgroppando e sbavando, con la schiuma che schizzava tra le zanne di roccia incrostate di muschio, i verdi capelli arruffati avvolti intorno a lembi di pino e cedro, e una barba di felce e viticcio intrecciati… Attraverso il vetro appannato lo vidi accucciarsi ringhiante in una piccola radura, riprendere fiato in una polla azzurra e poi, dopo un balzo giù da un gradone, proseguire strappando a morsi brandelli d’argine e fondale in un accesso di frenesia incontrollabile, e allora rammentai che era il primo tra gli affluenti a sfociare a valle nel grande Wakonda Auga – il più breve grande fiume al mondo.

(Joe Ben udì il colpo di clacson di Evenwrite e andò a prenderlo con la barca sull’altra sponda. Nella casa trovarono Hank chino a leggere le strisce a fumetti sul giornale della domenica. Dopo avergli infilato il rapporto sotto il naso, Evenwrite esordì: «Che odore senti, Stamper?». Hank alzò lo sguardo e diede una bella annusata intorno. «Odore di uno che s’è insozzato le brache, Floyd…»)

E mentre vedevo, un po’ con gli occhi e un po’ con la memoria, le fattorie e i luoghi noti sfilarmi accanto, non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che la strada su cui viaggiavo non attraversasse tanto miglia e montagne, ma più che altro procedesse a ritroso, attraverso il tempo. Così come la cartolina aveva marciato in avanti. Il disagio percepito m’indusse ad abbassare gli occhi sul polso, e ivi scoprii che i giorni di inattività avevano permesso al mio orologio a carica automatica di scaricarsi.

«Ehi, scusi». Mi voltai verso il sacco. «Sa dirmi che ora è?»

«Che ora è?» Un ghigno si fece strada nel pelo irsuto. «Perdinci, amico, mica ce n’abbiamo una sola, qui, di ora. Mi sa tanto che viene da fuori, c’ho preso?»

Confermai e quello si ficcò le mani in tasca, poi rise di gusto come se lì dentro gli stessero facendo il solletico. «Le ore… il tempo… Cos’è il tempo? Io dico che ce l’hanno talmente incasinato da queste parti che nessuno più lo sa. Prenda me» suggerì, protendendo il corpaccione dalla mia parte. «Le dico, prenda me. Lavoro in segheria, a turni alterni, certe volte solo i giorni feriali, altre un giorno lì, una notte là, e si direbbe che già così sia un bel casino, no? Poi però si sono messi a badare a ’sta faccenda dell’ora, e adesso lavoro un giorno e l’altro pure. In pratica entro ed esco che è sempre notte. Che ora è, vuole sapere. Be’, non c’è che l’imbarazzo della scelta: abbiamo l’ora legale, l’ora solare, l’ora di punta, l’ora di riposo, l’ora di pranzo, le ore piccole e pure la malora… Vede, se noialtri qui in Oregon ci mettessimo a smerciarle, le ore, se ne potrebbe vendere un bel po’ di varietà! C’è una confusione che più di così non si può».

Rideva facendo oscillare il capo qua e là, come se non si capacitasse che il caos potesse essere tanto divertente. Il guaio si era presentato, spiegò, quando al distretto di Portland era stata imposta l’ora legale e al resto dello Stato no. «Tutti quegli stramaledetti contadini che si sono riuniti, è colpa loro se dalle altre parti l’ora legale non l’hanno messa. Che mi venga un accidenti se riuscirò mai a capire perché una mucca non può imparare a svegliarsi a un’ora diversa come fa l’uomo, eh?» Durante il tragitto mi parve di capire che le camere di commercio delle cittadine più grandi – Salem, Eugene – avevano deciso di seguire l’esempio di Portland perché gli conveniva, ma quei maledetti bifolchi nelle campagne non ne avevano voluto sapere dei loro intrallazzi elettorali e avevano continuato a gestire l’ora come sempre. E quindi alcuni paesini non avevano ufficialmente adottato l’ora legale bensì la cosiddetta ora solare, cui ricorrere solo durante la settimana. Altri rispettavano l’ora legale solo durante l’orario lavorativo. «Fatto sta che in tutto lo stramaledetto Stato ce ne fosse uno che sappia mai che ora è. La dice lunga, no?» Mi unii alla sua risata, poi mi rilassai contro il finestrino, compiaciuto che tutto lo stramaledetto Stato ne sapesse dell’ora quanto me; tipico, come fratello Hank che si firmava in stampatello.

(A casa Hank terminò di sfogliare il rapporto, poi si rivolse a Evenwrite dicendo: «Un gran sciopero a questa maniera solo per un po’ di tempo libero… che ci fate, voialtri, con qualche ora in più al giorno?». «Lascia stare questo. Fa sempre comodo un po’ di tempo libero». «Sarà, ma sta’ a vedere se pago io il conto mentre quello sta lì a girarsi i pollici».)

Giù nella foresta dei druidi vidi il Selvaggio intercettare la Mannaia, o Cleaver Creek che dir si voglia, e ingrossare barattando il suo precedente aspetto patito e scarno con uno di fervente benessere. Al che, strepitando, giunse Chichamoonga, l’Influenza Indiana, le cui rive erano tinte con i colori di guerra del lupino e dell’aquilegia. Poi fu la volta di Dog Creek, Olson Creek, Weed Creek – il Cane, lo Scandinavo, il Malerba. Sul ciglio opposto di una gola scorticata da un ghiacciaio vidi la Lince d’Acqua, Lynx Falls, spiccare il balzo soffiando e spruzzando dalla sua tana d’acero rosso fiamma, ghermire l’aria con artigli d’argento e schiantarsi con alte grida nel groviglio sottostante. La pia Ida, Ida Creek, s’affacciava pudicamente da un ponte coperto per contribuire con la propria virginale presenza e vedersi subito imbrattare il cognome dalla spensierata volgarità di quell’impertinente della sorella, l’esuberante Nellie. A seguire si avvicendavano parenti di varia provenienza: White Man Creek, il Bianco, Dutchman Creek, l’Olandese, Chinaman Creek, il Cinese, Deadman Creek, il Morto, e perfino un Lost Creek, il quale sosteneva con vigoroso ruggito che, a dispetto delle centinaia di altri torrenti dell’Oregon che andavano sotto lo stesso nome, era lui l’unico e inimitabile fiumiciattolo perduto… E poi c’era il Saltatore, Leaper Creek… il Nascondiglio, Hideout Creek… il Capo, Bossman Creek… Li guardavo sfilare uno dopo l’altro sotto i loro ponti, per poi confluire nella gola e correre lungo la nazionale come membri di un grande clan che andavano schierandosi per la battaglia fra strepiti e cori di guerra via via sempre più profondi e minacciosi.

(Al culmine della discussione il vecchio Henry irruppe nella stanza con tale clamore e fracasso da impedire a Hank, come a Evenwrite, di udire nient’altro. Joe Ben lo prese da parte. «Henry, la tua presenza qui peggiorerà le cose. Che ne dici di aspettare in dispensa–» «Quella diavolo di dispensa!» «Come no, così potrai origliare senza avere seccature, eh?»)

Stamper Creek fu l’ultimo a unirsi alla banda dei piccoli affluenti. La storia di famiglia narrava che fra le acque di questo torrente fosse scomparso mio zio Ben, che in un impeto di ubriachezza e disperazione si era avviato sulle sue sponde per masturbarsi alla morte. Il corso d’acqua passava sotto lo stradone, precipitava nella gola con gli altri e tutti insieme reclutavano il South Fork, che a sua volta aveva già radunato la propria banda dalle montagne alla mia sinistra, dopodiché, con un bel respiro e il polso accelerato, vidi quelli che poche miglia prima erano ruscelli e rivoletti di poco conto tramutare il verde e bianco spumoso della loro corsa a perdifiato nella placida distesa blu del Wakonda Auga, che scivolava per la rigogliosa valle come acciaio liquido.

Mancava solo una musica di sottofondo.

(Da uno spiraglio nella porta della dispensa, il vecchio Henry udiva discutere Hank ed Evenwrite. Erano voci arrabbiate, questo gli era chiaro. Si concentrò per distinguere che cosa stessero dicendo, ma il suo respiro faceva troppo rumore; ululava fra le pareti dell’angusto ripostiglio come vento di burrasca. Non ci sento più un accidenti. Respirare, però, respiro ancora. Ascolta e sta’ zitto. Ghignò fra sé nel buio, fiutando le mele nelle loro cassette, l’odore del Clorox che usavano per pulire i ricordini lasciati dai topi, quello dell’olio di banana per il vecchio fucile che stringeva in mano… C’è pure un buon odore. Il vecchio segugio non ha perso il suo olfatto sopraffino. Come ghignava armeggiando col fucile nel buio, contrariato solo di non udire quel tanto che bastava per capire cosa fare.)

Quando la corriera riemerse dalla vegetazione pedemontana e superò una curva spalancandomi la visuale sulla casa oltre la fredda distesa celeste, mi sentii attraversare da una piacevole scossa; la vecchia dimora era un spettacolo dieci volte più impressionante di quanto ricordassi. Non mi capacitavo di come avessi potuto scordare una tale magnificenza. Devono averla totalmente ristrutturata, riflettei. Man mano che la corriera si avvicinava, però, dovetti ammettere di non discernere alcun cambiamento sostanziale, alcuna miglioria o rinnovamento di sorta. Anzi, delle due sembrava invecchiata. Ma insomma. Qualcuno aveva scrostato via la vernice bianca scadente dalle pareti. Davanzali, persiane e altre finezze erano state mantenute di un verde scuro tendente al blu, ma per il resto la casa era stata completamente sverniciata; l’eccentrica veranda con i rozzi supporti, l’ampio rivestimento in assi di legno che copriva il tetto e le pareti esterne, l’enorme porta d’ingresso – tutto era stato scrostato, e la salsedine che impregnava il vento e la forza logorante della pioggia avevano levigato il legno, donandogli una lucentezza grigio peltro.

I cespugli lungo la riva erano stati potati, ma non piegati alla logica geometrica che così spesso si accanisce sull’architettura paesaggistica delle periferie – solo potati, e per un preciso scopo: far entrare la luce, o permettere una vista migliore sul fiume e agevolare l’accesso al pontile. I fiori che crescevano senza logica intorno alla veranda e lungo i due lati dell’argine dovevano aver richiesto cure a profusione, eppure anche in questo caso nulla risultava forzato e innaturale: quelli non erano fiori coltivati in Olanda e cresciuti in California giunti lì per via aerea e coccolati in serre locali; erano tutti diffusi nella zona, rododendri e rose selvatiche, Trillium e felci femmina, e perfino l’odiato fiore del rovo da more, cui gli abitanti della costa dichiaravano guerra tutto l’anno.

Ero basito perché, per quanto faticassi a credere che la fine e sobria bellezza che intravedevo di là dal fiume fosse opera anche solo accidentale del vecchio Henry, di fratello Hank o addirittura di Joe Ben, l’idea che chiunque di loro l’avesse fatto di proposito mi sembrava centomila volte più assurda.

(Era tutto più semplice quando ci sentivo bene. Mi raccapezzavo meglio. Se ti trovi davanti un masso che ti blocca la strada, lo salti o lo scaraventi di lato. Adesso non lo so. Venti, trent’anni fa vedrai se non mi assicuravo che in questa canna c’era una cartuccia, anziché il contrario. Adesso non lo so. ’Sto vecchio d’un negro è diventato duro d’orecchi, il guaio è questo.)

Con l’ultimo dollaro che avevo in tasca acquistai dall’autista della corriera il privilegio di essere lasciato davanti alla rimessa, invece di proseguire altre otto miglia verso il paese per poi dover tornare indietro. Mentre me ne stavo impalato in mezzo alla polvere, quello mi informò che il mio misero dollaro valeva soltanto il disturbo di essersi fermato per farmi scendere; non poteva compromettere la tabella di marcia per venirmi ad aprire il compartimento bagagli – «Figliolo, questa non è mica la Wells Fargo!». E mi lasciò a protestare nei suoi fumi di scarico.

Eccolo, dunque, il nostro eroe, con nient’altro che il vento fra i capelli, pochi indumenti in groppa e il monossido di carbonio nelle narici. Un bel contrasto, ragionai attraversando la strada, rispetto a quella barcata di effetti personali vari su cui me ne sono andato dodici anni fa. Speriamo che il vitello sia bello in carne, quantomeno.

Nello spiazzo ghiaioso adiacente alla rimessa luccicava al sole una Bonneville verde pisello che non avevo mai visto. La superai dirigendomi verso la tettoia che fungeva da riparo, officina meccanica, capitaneria e rimessa per le barche. La polvere e l’untume tappezzavano pavimento e pareti di un sontuoso velluto color malva; le vespe vasaio attraversavano ronzando pulviscolosi raggi di sole penetrati dal tetto; una Jeep gialla gravata di attrezzatura varia riposava a mo’ di scatola nei pressi di una parete, rassegnata al proprio carico, e guardando oltre i suoi fari crepati notai che Hank si era comprato una motocicletta più grande e appariscente; era legata a una catena a ridosso della parete in fondo, e adornata di pelle nera e ottone lustro che neanche un cavallo da concorso in finimenti da parata. Cercai un telefono; davo per scontato che avessero provveduto a installare un qualche sistema per segnalare l’eventuale necessità di una barca, invece niente; quando, dalla finestra piena di ragnatele, lanciai uno sguardo alla casa dall’altra parte del fiume, vidi uno spettacolo che mi fece perdere ogni speranza riguardo una tale moderna comodità; appeso a un’asta dondolava un cencio con su scritti dei numeri – il segnale utilizzato per ordinare una consegna al camioncino dell’emporio Stokes che passava di lì a giorni alterni, lo stesso metodo di comunicazione cui si ricorreva già anni prima che venissi al mondo.

(Ma, perdio, un vecchio segugio non ha bisogno di orecchie buone per certe cose. Non gli servono le orecchie per sapere dove tirare la stramaledetta riga! E tutto quel dirmi che è meglio se non mi faccio vedere in giro e sto fuori dai guai non mi sta bene per niente. Sono stufo! Sono arcistufo!)

Abbandonai la rimessa e, proprio mentre mi domandavo in che modo il mio registro linguistico, modulato sulle garbate interazioni che avevano luogo nelle aule accademiche di un mondo civilizzato, sarebbe cambiato una volta attraversata la distesa d’acqua, mi avvidi di un certo subbuglio davanti all’immensa porta d’ingresso dall’altra parte. (Non ci sentirò bene ma, perdinci, so ancora distinguere se una cosa è giusta o no, mi venisse un colpo se non sono capace!) Vidi un uomo tarchiato in completo marrone attraversare di corsa il prato con impacciata premura, tenendosi il cappello in testa con una mano e reggendo nell’altra una valigetta ventiquattrore mentre sbraitava qualcosa in direzione della casa. Riscossa da quelle grida, una batteria di segugi sgusciò fuori da sotto l’edificio e l’uomo interruppe bruscamente la sua corsa, si fermò un attimo per ricacciare indietro i cani agitando in aria la valigetta, che si spalancò in una bufera di carta gialla, poi riprese a correre, con i cani e la carta a fargli da codazzo svolazzante. (C’è una cosa che, Cristo, non tollero!) La porta d’ingresso si spalancò di nuovo e un’altra sagoma si scapicollò fuori (Una cosa, perdio, ed è è è;), brandendo uno sgraziato fucile nero e scatenando un tale putiferio che in confronto le grida e i latrati di poco prima non erano nulla. Il tizio in completo lasciò cadere la valigetta, tornò indietro a recuperarla, si avvide della terrificante minaccia che gli si faceva incontro e desistette, proseguendo giù dal declivio fino al pontile, dove con un gran balzo montò sulla lancia rosso antincendio attraccata all’ormeggio e prese a tirare come un forsennato la cordicella del motore. Solo una volta indugiò per risalire con lo sguardo la passerella di legno, fino a quella formidabile creatura circondata dai cani che si precipitava a infliggergli la sua vendetta, al che si rimise all’opera con il doppio dell’energia per accendere il motore (Torna indietro, Henry Stamper! Invecchiare ti fa male, in questo Paese esistono delle leggi [è È è] oh Gesù, ha un fucile, Parti! Parti!), mentre l’altro gli si faceva sempre più appresso (Che diavolo ha che non va questo maledetto fucile [Parti! Parti!] se piglio quello che l’ha scaricato se c’è una cosa che perdio non tollero è è è) e minaccioso. (Parti! Oddio eccolo che arriva [È È È] oddio ti prego PARTI!)

Sull’altra sponda del fiume, Henry aveva deposto il fucile. No; ora lo stringeva di nuovo! Ora veniva giù. Ora avanzava verso il pontile!, con la chioma svolazzante come una candida criniera. Il braccio ingessato lo incitava alla riscossa. Che spettacolo era nella sua camicia di flanella, i mutandoni di lana lunghi fino al ginocchio e un gesso che a pezzo unico gli partiva dalla punta del piede, saliva su per il fianco e rispuntava sulla spalla, costringendolo a portare il braccio piegato davanti a sé come se si fosse ossificato in quella posa. Ma guarda, il vecchio condottiero è così venerabilmente invecchiato, riflettei, da voler preservare per i posteri la propria impareggiabile imbecillità facendosi rimodellare un pezzo alla volta nel gesso (non ci pensino neanche per un dannato minuto che solo perché sono sono sono).

Vacillò e traballò nella sua limitata mobilità, e fece per colpire la banda di segugi con il fucile che alla bisogna fungeva da arma da fuoco, stampella e mazza. Raggiunse il pontile e a quel punto udii i tonfi tonanti del suo gesso sull’assito, e dato che l’eco mi arrivava un secondo dopo che il piede toccava terra mi pareva che il rumore fosse causato dal sollevarsi del piede invece che dal pontile stesso. Così, pesantemente, avanzava sul pontile a guisa di moderno Frankenstein, e pestava il piede, e abbatteva il fucile in ogni dove, e infilava un’imprecazione dietro l’altra con tale velocità e veemenza che le parole venivano inghiottite dal frastuono generale (ché ANCORA LA DEVO VEDERE l’alba del giorno che non riuscirò più a star dietro ai miei STRAMALEDETTI affari e se un BASTARDO qualsiasi si crede di).

Con un ultimo strattone il tizio sulla barca riportò in vita il motore e slegò la cima, appena in tempo perché gli altri tre personaggi di questo dramma facessero la loro comparsa uscendo di corsa dalla casa per dirigersi al pontile: due uomini, e quella che mi avventurai a definire una donna, in jeans e grembiule arancione, con una lunga treccia di capelli che le rimbalzava sul retro dell’onnipresente felpa. La donna superò i due e si scapicollò giù dal pendio per andare a tranquillizzare il vecchio Henry, delirante sul pontile: gli uomini rimasero indietro ad ascoltarlo maledire la qualunque, ridendo al punto da riuscire a malapena a camminare. Henry ignorò tanto il tentativo di calmarlo quanto le risate, e continuò a inveire contro il tizio sulla barca, il quale doveva aver intuito che il fucile fosse scarico o rotto, dal momento che ormai aveva messo una ventina di iarde fra sé e il pontile e indugiava in un punto nella corrente dove l’acqua stagnava, approfittando dell’occasione per prendere gli altri a male parole. Ovunque guardassi vedevo gabbiani spaventati sbatacchiare in aria le ali per fuggire da quell’inferno.

(Signore mio caro che ci faccio qui con il fucile a pallettoni? Signore, non ci sento bene. No, non sento bene affatto…)

Henry appariva spossato. Uno dei due uomini, quello alto, che avevo stabilito fosse Hank – quale caucasico si sarebbe mai mosso con altrettanta svogliata indolenza? – si staccò dagli altri, si diresse a grandi passi verso la rimessa, vi entrò e riemerse stranamente curvo, come per proteggere qualcosa che custodiva fra le mani chiuse a coppa. Si fermò all’inizio del pontile e rimase lì per un momento, dopodiché raddrizzò la schiena per lanciare verso la barca ciò che reggeva in mano. (Oh Signore mio, che sta succedendo?) Al che seguì il silenzio più totale mentre la compagnia – le sagome sul pontile, l’escrescenza bruna pietrificata sulla barca, la muta di cani perfino – restava paralizzata sul posto per due secondi e tre quarti, prima che una roboante esplosione sollevasse una colonna bianca d’acqua alta una decina di metri proprio accanto al barchino, nell’aria calda e fumigante, kabuuuum!, a mo’ di Old Faithful che erompeva dalla superficie del fiume.

Nel frattempo che l’acqua ricadeva sulla barca, quelli sul pontile scoppiarono in una fragorosa risata. Risero a crepapelle fino a fiaccarsi le ginocchia, e infine cedettero come ubriachi sotto il peso di tanto sganasciarsi. Perfino le imprecazioni del vecchio Henry ne furono a tal punto soffocate che alla fine l’uomo dovette rassegnarsi, e stremato si appoggiò a un pilastro, incapace di reggere oltre il proprio corpo e la colossale ilarità che lo scuoteva. L’escrescenza sulla barca vide che Hank tornava nella baracca per ricaricare e si riebbe dallo spavento quel tanto che bastava a spingere il motore al massimo e allontanarsi, tanto che il successivo lancio di Hank lo mancò di un metro buono. L’esplosione fece impennare la barca come una tavola da surf che incrocia un cavallone di cinque metri, e giù altre risate dal pontile. (E comunque mi sa che gli ho fatto capire che, perdio, non deve venirmi a insegnare come gestire le mie, le mie… faccende, duro d’orecchi o no!)

La barca si fermò all’approdo da dove assistevo alla scena, e l’uomo si aggrappò a uno degli pneumatici che galleggiavano nell’acqua. Balzò sulla passerella senza legare la barca né spegnere il motore, tanto che mi venne spontaneo slanciarmi in avanti per afferrare la cima legata a poppavia e impedirle così di proseguire giù per il fiume orfana di timoniere. Mentre me ne stavo lì coi piedi ben piantati a terra, a tenere la barca che tirava per liberarsi come una balena al guinzaglio, ringraziai cortesemente l’uomo di avermi fornito un mezzo per attraversare e mi congratulai con lui per il siparietto di benvenuto in cui si era così generosamente lasciato coinvolgere. Quello si fermò a radunare ciò che restava delle sue scartoffie e alzò il rubicondo viso nella mia direzione, come avvedendosi solo allora della mia presenza.

«E scommetto che tu sei un altro di quei bastardi pidocchiosi!» sbottò, spingendo verso di me quella sua faccia alla Jiggs. Dei rivoletti d’acqua gli scendevano giù dalla crespa chioma rossa e gli colavano di continuo negli occhi, costringendolo a strizzarli e stropicciarli con i pugni chiusi come un moccioso frignante. «Ho ragione o no?» domandava, stropicciando e strizzando a più non posso. «Eh? Ho ragione?» Ma non feci in tempo a uscirmene con una risposta intelligente come si conveniva che si girò e puntò dritto in fondo alla passerella dove sostava la sua auto nuova, infilando una sequela di improperi tale che non sapevo più se ridere o aver pena di lui.

Legai la scalpitante barca a un pilastro e tornai alla rimessa a recuperare la giacca che avevo buttato sulla Jeep. Al mio ritorno vidi che sull’altra riva Hank si era levato camicia e scarpe, ed era in procinto di sfilarsi i calzoni. Lui e il compare – Joe Ben, a giudicare dalle gambe storte – se la ridevano ancora. Con fatica assai maggiore di quando era sceso, il vecchio Henry stava riguadagnando la via di casa.

Per sfilarsi una gamba dei calzoni Hank si sorresse alla donna in piedi accanto a lui. Doveva trattarsi del suo pallido e delicato fiore di campo, conclusi; scalzo e ammorbidito nelle forme da una dieta a base di mirtilli e pemmican. Hank terminò l’operazione e si tuffò spanciando nel fiume, proprio come gli avevo visto fare per anni sbirciandolo dalle tende della mia stanza quando si preparava alle gare. Osservandolo mi accorsi che la bracciata precisa, vigorosa del nuotatore agonista era vagamente compromessa. Un gesto scattoso turbava il fluido movimento ogni due o tre bracciate, un’interruzione del ritmo che sembrava causata da semplice mancanza di allenamento; se così si poteva dire di un nuotatore, era come se Hank avesse iniziato a zoppicare. Lo guardavo e rimuginavo, Avevo ragione a credere che non fosse più nel fiore degli anni; il gigante si sta indebolendo. Forse ottenere la mia vendetta di sangue non sarà poi così difficile.

Rincuorato da quella riflessione montai sulla barca, sciolsi la cima, e dopo qualche tentativo riuscii a girare la prua e puntare in direzione di Hank. L’imbarcazione procedeva a una velocità che si approssimava allo stallo, ma non trovavo la valvola del motore e dovetti rassegnarmi a procedere al ritmo che Jiggs aveva impostato per me; quando lo raggiunsi, Hank aveva già completato più di metà traversata.

Al mio arrivo smise di nuotare e rimase a galleggiare, strizzando gli occhi per capire chi fosse venuto a recuperarlo, in attesa che la barca si fermasse per farlo salire. Peccato che fossi capace di fermarmi tanto quanto lo ero stato di accelerare. Tre giri dovetti fare, prima che afferrasse il concetto; al terzo si aggrappò al fianco della barca e si issò a bordo, col lungo braccio venato che fece schizzare il suo corpo in aria come una freccia scoccata da un arco in legno di limone. Mentre rotolava sulla barca, mi avvidi della ragione per cui nuotava strano e si era aggrappato con una mano soltanto per tirarsi fuori dal fiume: nell’altra gli mancavano due dita, ma a parte quello sembrava ancora piuttosto in forma.

Giacque per un istante sul fondo della barca a sputare acqua, poi si accomodò sul sedile di fronte a me. Chinò il capo sulla mano come per strofinarsi il ponte del naso o asciugarsi la bocca; era il suo classico modo di nascondere il ghigno che sapevi già esser comparso, o al contrario per attirare l’attenzione su di esso. A guardarlo, a ripensare a come si era issato sulla barca, con impeccabile controllo del corpo, e a vedere la compostezza con cui adesso mi affrontava – come se non solo avesse saputo fin dall’inizio che ero io ad andargli incontro, ma l’avesse proprio pianificato – sentii il momentaneo ottimismo che mi aveva colto sul pontile soccombere a un impeto di apprensione… Se è vero che il gigante si sta indebolendo OCCHIO! OCCHIO! allora ha scelto di non darlo troppo a vedere.

E ancora non si decideva a parlare. Bofonchiai una qualche scusa perché non ero stato capace di spegnere il motore per farlo salire, e stavo per spiegargli che a Yale non erano previsti corsi di navigazione, quando quello alzò le sopracciglia umide – senza muovere la faccia, ovvero senza sollevarla dalla mano – alzò le sopracciglia castane imperlate di gocce d’acqua e mi puntò addosso due occhi di un azzurro intenso e venefico da cristalli di solfato di rame.

«C’hai provato tre volte, bimbo,» commentò in tono beffardo «e mi hai mancato in tutte e tre; non ti fa incazzare?».

… Mentre Jenny l’indiana, dopo aver assimilato abbastanza tabacco e whisky da confidare nella capacità della propria razza di influenzare certi fenomeni, attraversò con lo sguardo la ragnatela che rivestiva la sua unica finestra e terminò l’incantesimo: «Oh nuvole… oh pioggia. Invoco terribili flagelli e sventure su Hank Stamper!». Poi posò gli occhietti neri sull’antro oscuro in cui abitava per vedere se le ombre fossero rimaste colpite.

… E in un motel di Eugene Jonathan Draeger scriveva: «Pur di tener lontana la solitudine un uomo sacrificherebbe tutto, perfino se stesso».

… E Lee, attraversando il fiume insieme al fratello verso la vecchia dimora, si chiese, Bene, di nuovo a casa, e adesso?

 

Su e giù per la costa ce ne sono di paesucoli simili a Wakonda e di bar da taglialegna come lo Snag, dove uomini piccoli e stanchi lamentano guai e ristrettezze. Il vecchio vagabondo tagliaciocchi conosce tutti, ha udito ogni discorso. Senza darlo a vedere è tutto il pomeriggio che ascolta i più giovani parlare dei guai d’oggigiorno, come se la loro insoddisfazione fosse uno sviluppo recente, un segno dei tempi che cambiano. Li ha visti discutere a lungo, percuotere il tavolo col pugno e leggere ad alta voce stralci dall’Eugene Register Guard, secondo cui la colpa del generale scontento era di «questi tempi di boicottaggio, sconsideratezza e dinamitismo». Li ha sentiti accusare il governo federale di aver trasformato l’America in una nazione di mollaccioni, poi li ha sentiti condannare lo stesso ente per essersi impietosamente rifiutato di aiutare il loro infiacchito paese a superare la recessione. Si è dato come regola, nelle sue incursioni beverecce, di non impicciarsi di simili sciocchezze, ma quando sente che secondo la delegazione gran parte dei guai della comunità è da imputare agli Stamper e alla loro ostinata riluttanza a sindacalizzarsi, non resiste. Il tizio con la spilletta del sindacato è nel pieno di una tirata sul fatto che oggigiorno allo stramaledetto individuo è richiesto un sacrificio maggiore, quando all’improvviso il vecchio tagliaciocchi s’alza rumorosamente in piedi.

«Oggigiorno?» Avanza fra loro tenendo alta la bottiglia con fare teatrale. «Ma cosa credete, che prima era tutto rose e fiori?»

I cittadini alzano lo sguardo in meravigliata indignazione; è considerato alla stregua di una violazione del protocollo interrompere una di queste sedute.

«Quel gran blaterare di bombe? Tutto sterco di cavallo». Torreggia sul loro tavolo, vacillando in una nuvola di fumo azzurro. «E della depressione e di quell’altra faccenda, quella del sindacato? Altro sterco. Venti, trenta, quarant’anni fa, fin dai tempi della Grande Guerra, c’è sempre stato qualcuno pronto a dire ah, il guaio è colì, il guaio è colà; il guaio è la raaadio, il guaio sono i repubblicaaani, il guaio sono i democraaatici, il guaio sono comuniiisti…» Sputò sul pavimento con uno scatto in avanti del collo. «Tutta merda».

«E qual è allora il guaio, secondo lei?» chiede l’Agente Immobiliare, inclinando all’indietro la sedia e ghignando dal basso all’intruso, pronto a farsene beffa. Ma il vecchio lo batte sul tempo esalando una risata triste, tramutando l’improvvisa rabbia in subitanea pietà; scuote la testa e gira lo sguardo fra i compaesani – «Ah giovani miei…» – poi posa il fiasco vuoto sul tavolo e piega un lungo, nodoso indice intorno al collo di un fiasco pieno e, strascicando i piedi, esce dal raggio di sole che taglia lo Snag in due dalla vetrina sul davanti. «Non lo capite che è la solita, vecchia merda di sempre?»