Con la punta arroventata di un bastone puoi tracciare un solco nella notte, e vederlo fissato nella sua finitezza. La sua infida precarietà ti apparirà come cosa certa. E questo è quanto. Hank lo sapeva…
Come sapeva che il Wakonda non aveva sempre seguito il medesimo corso. (D’accordo… volete saperne di più dei fiumi, amici e conoscenti tutti?)
Per la bellezza di venti miglia, meandri e lanche, paludi e ristagni punteggiano il suo antico letto. (Volete che vi racconti un paio di cosette sui fiumi?) Alcune di queste paludi sono mantenute pulite dalle deboli correnti di ruscelli limitrofi, che ne fanno una catena di bacini d’acqua limpida e profonda color verde bottiglia, con grassi cavedani acquattati sul fondo come ciocchi affondati; d’inverno queste polle d’acqua stagna costituiscono punti di sosta notturna per uncinate parentesi d’oche del Canada che sorvolano la costa, dirette a Sud; in primavera i salici che crescono lungo gli argini allungano sull’acqua i flebili rami in archi aggraziati; quando una brezza leggera stuzzica l’albero, le punte frondose solleticano la superficie e piccoli salmoni e trote iridee si slanciano verso l’alto, talvolta mirando al sole come piccoli proiettili d’argento sparati dalle profondità. (Il buffo è che questa cosa sui fiumi non l’ho imparata dal vecchio o da uno zio, e nemmeno da Boney Stokes, ma dal caro Floyd Evenwrite un paio d’anni fa, la prima volta che ci siamo scornati riguardo al sindacato.)
Alcune di queste paludi sono campi inondati di tifa e cavolo puzzola, dove si accoppiano la strolaga e il fischione; altre sono pantani veri e propri dove le foglie di acero, zostera e serpentaria scheletriscono nella putrefazione e si dissolvono in silenzio nell’untuoso fango color porpora; altre ancora si sono completamente riempite di limo, per poi seccare a sufficienza da tramutarsi in ricchi pascoli verde-azzurro per cervi, o in boschetti di rovi. (È andata che quel giorno che è venuto fuori l’affare del Negozio Chiuso avevo deciso di scendere giù in paese per incontrarmi con Floyd Evenwrite, ma invece di prendere la moto ho pensato di usare la barca per provare questo Johnson Seahorse 25 nuovo di zecca che avevo trovato a Eugene neanche una settimana prima, e mentre bel bello mi dirigevo verso il molo municipale, ho urtato contro qualcosa che galleggiava sotto la superficie, probabilmente una vecchia trappola sciolta, e la barca e il motore sono colati a picco come un sasso, così ho dovuto nuotare, incazzato nero e per nulla in vena di parlare di Organizzazione Sindacale.)
Di questi boschetti ce n’è uno a monte rispetto a casa Stamper, uno talmente fitto, talmente attorcigliato e intrugliato che perfino gli orsi lo evitano: dalle ossa muschiose di cervi e alci rimasti intrappolati mentre cercavano di aprirsi un varco tra i rovi si erge un muro di spine all’apparenza impenetrabile. (All’incontro ha parlato quasi sempre Floyd, e in quanto a me ascoltavo solo con mezzo orecchio. Non riuscivo a concentrarmi. Me ne stavo lì seduto a guardare fuori dalla finestra, verso il punto in cui barca e motore erano affondati, mentre sentivo i calzoni della domenica ritirarmisi addosso via via che si asciugavano). Ma a dieci anni Hank era riuscito a penetrarlo, quel muro di spine: aveva scoperto che conigli e procioni si erano scavati un complesso sistema di cunicoli sotterranei piuttosto superficiali, pertanto, con l’ausilio di una cappa d’incerata con cappuccio a proteggere la pelle dai rovi, era riuscito a farsi largo, un po’ carponi, un po’ strisciando come un verme, nell’intrico di viticci. (Floyd non la finiva più di parlare; secondo me si aspettava di stenderci con la logica del suo discorso, a me e quegli altri. Che poi loro non so, ma io non riuscivo a stargli dietro manco a provarci. Mi si erano asciugati i pantaloni; mi stavo scaldando; ho messo gli occhiali da moto, così magari non mi vedeva se mentre parlava mi calava la palpebra; mi sono appoggiato allo schienale della sedia e ho continuato a rimuginare sulla barca e sul motore.)
Quando il sole primaverile splendeva sopra il boschetto, tra le foglie filtrava luce a sufficienza da permettergli di vedere, e trascorreva ore a esplorare a gattoni quei levigati cunicoli. Spesso si ritrovava faccia a faccia con un collega esploratore, un vecchio procione che al primo incontro col ragazzo aveva ringhiato e sbuffato e soffiato, poi ne aveva sganciata una da far impallidire una puzzola, ma col tempo il vecchio fuorilegge mascherato si era risolto a considerare l’intruso incappucciato alla stregua di un complice di marachelle; in un tunnel di rovi immerso nella penombra, ragazzo e animale se ne stavano naso a naso a confrontare i rispettivi bottini prima di proseguire nel loro furtivo vagabondare: «Cos’hai lì, vecchio procione? Un bel wapato? Be’, dai un’occhiata al mio teschio di talpa…». (Floyd parlava e parlava e – a furia di star lì mezzo addormentato a rimuginare sulla barca, il fiume eccetera – mi è tornata in mente una cosa di un sacco di tempo prima, una che avevo del tutto rimosso…) Di tesori ne aveva trovati a non finire in quei corridoi: una coda di volpe impigliata alle spine; un insetto fossilizzato che ancora si dimenava nel fango vecchio di mille anni; una pistola a percussione incrostata di ruggine che ancora puzzava di rum e notti brave… ma mai niente che si avvicinasse neanche lontanamente alla scoperta che fece in quel gelido pomeriggio d’aprile. (Mi sono tornate in mente le linci che avevo trovato fra i rovi, ecco; mi son ricordato delle linci.)
In fondo a uno strano, nuovo cunicolo erano apparsi tre micetti, tre gattini dagli occhi cerulei aperti solo da pochi giorni che lo sbirciavano da un nido di muschio bordato di pelo. Non fosse stato per il minuscolo mozzicone della coda e i ciuffetti in cima a ciascun orecchio, erano identici a quelli che ogni estate Henry annegava a sacchettate nel fienile. Incredulo, il ragazzo li guardava giocare nel loro nido, ammutolito al pensiero della fortuna che gli era capitata. «Corna del diavolo» aveva mormorato con riverenza, come se una scoperta simile meritasse una rispettosa e timorata esclamazione di meraviglia in stile zio Aaron, piuttosto che il tonfo sgraziato delle imprecazioni di Henry. «Tre cuccioli di lince rossa tutti soli soletti… corna del diavolo».
Ne aveva raccolto uno e poi si era messo a strappare e tirare tralci e viticci fino a creare abbastanza spazio da girarsi. Era ripartito nella direzione da cui era venuto, ragionando senza rendersene conto che probabilmente la madre sarebbe passata da un punto diverso, che avrebbe evitato un cunicolo intriso dell’odore di un essere umano. Si era poi accorto che tenere in mano l’esserino soffiante e scalciante lo rallentava, così l’aveva afferrato dalla collottola con i denti. Il micetto si era calmato ed era rimasto a penzolare pacificamente dalla sua bocca, mentre Hank si trascinava sui gomiti più in fretta che poteva. «Dai che ci sei; dai!»
Una volta riemerso dal fitto dei rovi era graffiato e sanguinava in più punti sulle mani e sul viso, ma non era il dolore ciò che ricordava, non aveva più memoria dei graffi; ricordava solo quel lieve fremito di panico nel petto. Che sarebbe accaduto se la madre si fosse ritrovata davanti all’improvviso un ragazzino con il suo piccolo in bocca? Un ragazzino sepolto sotto quattro metri e mezzo di rovi intrecciati, praticamente in trappola? Si era seduto a fare qualche respiro profondo prima di percorrere l’ultima decina di metri che lo separavano dalla vecchia cassetta della dinamite in cui intendeva depositare il felino.
Poi, chissà perché, anziché chiudere la cassa e portarla dentro come si era ripromesso di fare, aveva indugiato a sbirciare la refurtiva. Con cautela aveva fatto scivolare il coperchio all’indietro e si era chinato a guardare.
«Ehi, gattino, ciao…»
Il piccolo aveva cessato il suo frenetico andirivieni e, nell’udire la voce di Hank, aveva levato il musetto peloso. Dopodiché aveva cacciato un grido così acuto, così intriso di supplica, paura e sconforto, da strappare al bambino una smorfia di compassione.
«Ti senti solo, eh? Vero?»
La risposta gnaulante del micio aveva gettato il bambino in un intenso conflitto interiore, ma dopo cinque minuti passati a rammentarsi che nessuno, nessuno tranne un moccioso imbecille sarebbe tornato a ficcarsi in quel buco, Hank aveva ceduto a quello gnaulare.
Raggiunta la tana, aveva trovato gli altri due piccoli addormentati. Si erano acciambellati l’uno contro il fianco dell’altro e facevano piano le fusa. Hank si era fermato a riprendere fiato, e nel silenzio, ora che le spine non gli graffiavano più stridendo il cappuccio d’incerata, udì il primo gattino piangere nella sua cassa al limitare del roveto; l’acuto, disperato miagolio trafiggeva la foresta come un ago. Un rumore così poteva viaggiare per miglia e miglia! In fretta e furia aveva afferrato l’altro piccolo chiudendo i denti intorno al pelo della collottola, a fatica si era rigirato nel piccolo spazio che già stava assumendo un aspetto liscio e battuto, e trascinandosi sui gomiti si era precipitato verso l’apertura che si scorgeva di lontano, e da cui lo separava un angusto tunnel di rovi e terrore. Gli era parso di metterci delle ore. Il tempo restava impigliato nelle spine. Sibilavano i viticci al suo passaggio. Forse aveva iniziato piovere, perché il cunicolo si era fatto buio e il suolo viscido. Il bambino sgusciava tra le piante aguzzando la vista, con la piccola lince penzoloni dalla bocca che di tanto in tanto lanciava un grido d’aiuto, grido che subito l’altro nella cassetta intercettava e ritrasmetteva. Di una cosa era certo: il tunnel si era allungato via via che il cielo scuriva. O era il contrario. Non respirava bene con quel pelo fra i denti. Aveva lottato contro il fango e i rovi come fossero acqua che minacciava di annegarlo, e quando finalmente era uscito dal tunnel, si era riempito i polmoni di squisita aria come un nuotatore rimasto in apnea per molti minuti.
Aveva depositato il secondo cucciolo nella scatola col primo. Subito i due fratelli si erano placati e poco dopo sonnecchiavano uno contro l’altro. Nel lieve fruscio della pioggia che cadeva fra i pini avevano iniziato a fare le fusa. L’unico rumore che si udiva in tutta la foresta era il pianto straziante del terzo piccolo di lince, spaventato e fradicio, rimasto solo in quella tana in fondo al tunnel.
«Te la caverai!» aveva urlato verso il roveto per rassicurarlo. «Promesso. Piove, adesso; la mamma tornerà di corsa dalla caccia, ora che piove».
E stavolta aveva fatto anche il gesto di sollevare la cassetta e camminare per qualche metro verso casa.
Ma qualcosa non gli tornava; per quanto sapesse di non avere nulla da temere – aveva recuperato il .22 dal tronco cavo dove lo lasciava durante le sue incursioni nel boschetto – sentiva il cuore martellargli nel petto e un macigno di paura sullo stomaco, e l’idea della furia di mamma lince lo tormentava.
Si era fermato ed era rimasto perfettamente immobile, con gli occhi chiusi. «No, Hank. Nossignore». E scuoteva la testa con vigore: «No. Non sei così cretino, e non t’importa!».
Ma la paura continuava a percuotergli le costole, e si era reso conto di sentirsi così sin da quando aveva trovato i tre gattini che giocavano pacifici nel loro covo. Perché lei sapeva – lei, la paura, la ribalta-stomaco – aveva sempre saputo, fin dal primo sguardo, che non si sarebbe accontentato finché non fosse entrato in possesso di tutti e tre i cuccioli. Fossero anche stati cuccioli di drago, con la madre che gli soffiava fuoco addosso a ogni spron battuto.
Pertanto, solo dopo essere riemerso dal cunicolo per la terza volta con l’ultimo cucciolo tra i denti, Hank aveva potuto tirate un sospiro di sollievo, rilassare le spalle e dirigersi tranquillamente verso casa, con la cassetta della dinamite buttata sulla spalla a mo’ di bottino di una grandiosa battaglia. E quando aveva incrociato il vecchio procione che traballante avanzava verso di lui sul sentiero melmoso, aveva salutato l’imperscrutabile animale ammonendolo: «Magari oggi sta’ alla larga dal boschetto, eh, Zorro? È tosta laggiù, per un nonnetto come te».
Henry era nel bosco. Zio Ben e Ben Junior – che tutti chiamavano Little Joe tranne il padre ed era un bambino più basso e piccolo di Hank, che già mostrava in nuce le belle sembianze di quel combinaguai del genitore – soggiornavano da loro per consentire all’allora compagna di zio Ben di sbollire la rabbia e riaccoglierli nella casa giù in paese. Avevano visto i gattini e lo stato in cui versava Hank, graffiato e sanguinante, ed entrambi erano giunti alla medesima conclusione.
«Non dirmelo» aveva detto il bambino. «Hank, hai sul serio fatto la lotta con un gatto selvatico per acchiapparli?»
«Non proprio» aveva risposto lui, con modestia.
Ben aveva studiato il viso segnato e incrostato di fango del nipote, il suo sguardo trionfante. «Oh sì, invece. Sì che l’hai fatto. Magari non corpo a corpo. E magari non era un gatto selvatico. Ma con qualcosa hai lottato». Poi aveva sorpreso sia Hank che il suo stesso figliolo passando il pomeriggio a dar loro una mano a costruire una gabbia sull’argine del fiume.
«Non mi piacciono le gabbie» aveva chiarito. «Mai piaciute, di nessun tipo. Ma se questi gattoni dovessero crescere tanto da tenere testa a quei segugi là, meglio essere attrezzati. Perciò adesso ci facciamo una bella gabbia, una gabbia comoda; la migliore del mondo».
E così la pecora nera della famiglia, minuta e ben fatta, che si faceva un vanto di non aver mai faticato in vita sua se non per strizzare l’occhio e sorridere, aveva sgobbato tutto il pomeriggio per aiutare i due bambini a mettere insieme una gabbia come non ve ne erano di eguali. Era ricavata dalla copertura di un vecchio cassone di pick-up, che un tempo campeggiava sul furgone di Aaron ma si era presa anche troppa polvere per i suoi gusti. Una volta terminata, la gabbia era stata verniciata, calafatata, rinforzata e ora faceva la sua figura, sollevata a qualche metro da terra su delle traversine di legno. Una metà, pavimento compreso, era di rete metallica perché sarebbe stata più semplice da pulire, e la porta era talmente ampia che Hank e Joe Ben ci passavano senza sforzo. C’erano delle scatole in cui nascondersi, della paglia per crearsi una tana e un palo rivestito di iuta per salire sulla punta della gabbia, cui era fissata una cesta di vimini tappezzata di indumenti di lana. C’erano anche un alberello per arrampicarsi e delle palline di gomma appese al soffitto con dello spago, e infine una bacinella piena di sabbia di fiume, nell’eventualità che le linci, come il resto dei felini, gradissero disporne. Era una gabbia bellissima, robusta. Quanto a comodità, quella stupida casa per gatti – come aveva preso a chiamarla Henry ogni volta che l’odore tradiva la necessità di dare una ripulita – era il massimo che si potesse desiderare.
«Il meglio del meglio» aveva sancito Ben con un sorriso mesto, facendo un passo indietro per ammirare il loro operato. «Che altro si può desiderare?»
Hank aveva trascorso buona parte di quell’estate nella gabbia in compagnia dei tre cuccioli di lince. In autunno erano ormai talmente avvezzi alle sue visite mattutine, che se poco poco faceva di ritardare cinque minuti levavano un tale coro di lamenti da indurre il vecchio Henry a congedarlo da qualsiasi faccenda stesse svolgendo per spedirlo a badare al serraglio della malora che lo attendeva in quella sua stupida casa per gatti. Per il giorno d’Ognissanti i cuccioli erano così addomesticati che li si poteva far entrare in casa a giocare; arrivato il Ringraziamento Hank aveva promesso ai compagni di classe che il giorno della recita, l’ultimo prima delle vacanze natalizie, li avrebbe portati tutti e tre a scuola.
La notte precedente al lieto evento il fiume era cresciuto di un metro circa in seguito a tre lunghi giorni di piogge abbondanti; Hank si angustiava al pensiero che le barche venissero strappate dagli ormeggi com’era avvenuto l’anno precedente, impedendogli di attraversare per andare a prendere lo scuolabus. O, peggio, che il fiume salisse fino alla gabbia. Prima di coricarsi si era dunque infilato gli stivali di gomma e la cappa impermeabile sopra il pigiama, ed era uscito con la lanterna a controllare. La pioggia era ridotta a un’acquerugiola minuta e fredda portata a folate dal vento; il peggio era passato; il chiarore in cima alle montagne tradiva gli sforzi della luna di aprirsi un varco fra le nuvole. Nella luce giallo burro proiettata dalla lanterna aveva intravisto la barca a remi e quella a motore, coperte da teloni verdi, che dondolavano nell’acqua scura. Invano strattonavano le cime, desiderose d’esser libere. Il fiume nel frattempo stava esondando alla foce. Anziché verso il mare, la corrente aveva iniziato a scorrere verso l’interno: solitamente fluiva per quattro ore verso il mare, poi ristagnava un’oretta e alla fine cambiava senso e per due, tre ore scorreva nella direzione opposta. In quella sua corsa all’incontrario, verso monte, quando l’acqua salmastra proveniente dal mare correva incontro a quella piovana che scendeva dai monti, densa di melma, il fiume raggiungeva la sua massima altezza. Hank aveva fatto caso al livello dell’acqua sull’indicatore del pontile – le onde nere danzavano intorno al numero cinque; cinque piedi, dunque, ben oltre il limite abituale – poi si era diretto al pontile e aveva percorso la scricchiolante passerella di legno che faceva il giro della banchina fino al punto in cui il padre se ne stava aggrappato col braccio a un cavo, come incollato al basamento dalla luce appiccicosa della sua lanterna, e infilava cunei a martellate in un paletto che stava aggiungendo all’accrocchio di legno, cavi e tubature. Impugnando meglio il martello, Henry si era voltato verso di lui strizzando gli occhi nel vento sferzante.
«Sei tu, ragazzo? Che ci fai qui fuori a quest’ora di notte?» aveva domandato in tono perentorio, poi come pentito aveva chiesto: «Sei venuto a lottare contro il fiume con il tuo vecchio, eh?».
L’ultima cosa che il bambino desiderava era rimanere un’ora in quel vento a congelare e tirare martellate alla cieca su quell’assurda catasta che il padre aveva messo insieme, ma aveva risposto: «Mmm… forse sì, forse no». Aggrappatosi al cavo, si era sporto a sbirciare dietro il profilo rigato di pioggia del genitore; grazie al bagliore che usciva dalla finestra della madre, al piano di sopra, era riuscito a scorgere i contorni della gabbia dei gatti contro le nuvole nere. «Nossignore, è che non so… quanto salirà ancora secondo te?»
Henry si era piegato in avanti per sputare nell’acqua un ciuffo di tabacco ormai insapore. «Fra un’oretta la corrente gira. Alla velocità con cui sale ora, direi che manca mezzo metro ancora, uno a dir tanto, poi comincerà a scendere. Specie adesso che sta spiovendo».
«Eh sì,» aveva concordato Hank «dico anch’io». Osservando la gabbia aveva stimato che il fiume dovesse salire ancora di quattro metri buoni per arrivare anche solo a lambire le zampe dei felini, ma tanto a quel punto la casa, il fienile, forse l’intero paese di Wakonda sarebbero stati sott’acqua. «Boh, io torno in branda, eh. È tutto tuo» aveva urlato da sopra la spalla.
Henry era rimasto un bel pezzo a osservare il figlio. La luna era finalmente riuscita a trovare un varco, e quel bambino che camminava lungo la passerella nella sua informe cappa, una sagoma nera bordata d’argento lucente, era per lui un mistero al pari delle nuvole cui rassomigliava. «Piccola peste cocciuta» aveva mormorato, infilandosi tra le fauci un’altra presa di tabacco, poi aveva ripreso a martellare.
Nel tempo che Hank aveva impiegato a rimettersi a letto, la pioggia era cessata del tutto e fra le nubi facevano capolino sprazzi di stelle. La grande luna lasciava presagire un buon raccolto di vongole sulle piane fangose, e il sopraggiungere di un clima più asciutto e freddo. Prima di addormentarsi Hank aveva dedotto dal silenzio che il fiume aveva raggiunto l’apice, e che da quel momento sarebbe defluito in mare.
Al suo risveglio, il mattino seguente, aveva sbirciato fuori trovando le barche al loro posto e il fiume non troppo più alto del solito. Aveva fatto colazione in fretta, poi aveva preso la scatola che si era preparato ed era corso fuori. Si era fermato nel fienile a recuperare dei sacchi di iuta da sistemare sul fondo della scatola. Era una mattinata fredda; le ombre erano soffuse di una brina leggera, e il fiato delle mucche si addensava nell’aria come latte scremato. Hank aveva pescato qualche sacco dal mucchio nella mangiatoia mettendo in fuga i topi, poi aveva infilato di corsa la porta sul retro. L’aria gelata nei polmoni gli dava una sensazione di leggerezza e ilarità. Svoltato l’angolo, si era arrestato di colpo: l’argine! (Proprio mentre ero lì lì per abbandonarmi al mio sogno sulle linci, Floyd e il vecchio Syverson, che un tempo gestiva la piccola segheria a Myrtleville, hanno iniziato a scaldarsi e a furia di urlacci mi hanno svegliato.) … L’intero argine su cui era posata la gabbia non c’era più; quello nuovo luccicava al sole come se nel corso della notte una gigantesca lama, affilata sul bordo della luna, avesse tagliato via una fetta di terreno. («Syverson,» bercia Evenwrite «brutto zuccone, svegliati! Ti dico che ti conviene!». E Syverson: «Mi conviene un corno!». «Fidati, che ti conviene!» «Ma se in pratica mi stai dicendo che devo cedere a te tutto quello che c’ho? Un paio di palle mi conviene!») All’estremità di quel taglio, tra le radici nel fango, un angolo della gabbia spunta dalla superficie tesa dell’acqua. E nell’angolo, dietro la rete metallica, galleggia il suo contenuto – le palline di gomma, l’orsetto di pezza, la cesta di vimini, la paglia bagnata, e i corpi molli dei tre cuccioli di lince. («Quant’è che vuole,» strepita Syverson «quant’è che chiede, quest’organizzazione di cui tanto ci parli?». «Accidenti a te, Syve, chiederà il giusto–» «Il giusto…! Vuole guadagnarci, altroché!») Così piccoli apparivano col pelo appiattito dall’acqua, piccoli, bagnati e brutti. («Sì! È vero!» grida Floyd, innervosito. «Ma vuole solo quanto gli spetta!»)
Hank non vuole piangere; non se lo concede da anni. E per impedire a quell’antico ricordo urticante di ostruirgli il naso e la gola, si costringe a immaginare nel dettaglio che cosa dovevano aver provato i suoi mici – il crollo, la gabbia che vacillava, la scivolata fino in acqua insieme alla fetta di terra, i tre gattini che dal caldo del loro rifugio sprofondavano in una morte agghiacciante, intrappolati e incapaci di nuotare fino in superficie. Visualizza tutto con dolorosa accuratezza e poi ripercorre la scena più volte finché non gli resta impressa nella mente, finché una voce che lo chiama da casa non pone fine alla tortura… (Tutti hanno riso di quell’uscita di Floyd, Floyd compreso. E anche dopo gli facevano ancora il verso. «Vuole solo quanto gli spetta!» In quanto a me non gli prestavo attenzione, e anzi, sonnecchiavo; pensavo ai miei cuccioli di lince annegati e al mio nuovo Johnson fuoribordo finito in fondo al fiume, e nella testa trasformavo le sue parole in qualcos’altro.) Finché il dolore e il senso di colpa e la disperazione non lasciano il posto a qualcosa di diverso, qualcosa di più grande…
Posati per terra la scatola e i sacchi di iuta, sono tornato in casa a prendermi il pranzo e quel buffetto stitico che la mia vecchia mi rifilava sulla guancia ogni mattina. Poi sono andato dove c’era Henry che stava preparando la barca per portare me e Joe Ben sull’altra sponda ad aspettare lo scuolabus. Stavo immobile, pregavo che nessuno dei due si accorgesse che non avevo la scatola con i gattini come previsto. (… lasciano per sempre il posto a qualcosa di ben più potente del senso di colpa o della disperazione.) E poteva anche essere, perché per via del freddo la barca a motore non voleva saperne di partire, e tira, spingi e calcia e impreca per circa dieci minuti, Henry ci ha rinunciato e a quel punto non era più nelle condizioni di notare un bel niente. Siamo saliti tutti sulla barca a remi e credevo ormai di avercela fatta, ma a metà strada Joe Ben caccia un urlo puntando il dito verso l’argine. «La casa dei gatti! Hank, i gatti!»
Non ho risposto. Il vecchio ha smesso di remare, ha dato un’occhiata, poi si è girato a guardarmi. Io cazzeggiavo, fingevo di essere presissimo ad allacciarmi le scarpe. Ma presto ho capito che non me l’avrebbero fatta passare senza dire nemmeno una parola. Così ho fatto spallucce e gli ho detto con tono freddo e distaccato: «Una brutta mano, sì. Proprio di merda».
«Eh» ha fatto il vecchio. «La palla da football non si sa mai come rimbalza».
«Eh» ha fatto Joe Ben.
«Sfiga» ho fatto io.
«Eh» hanno fatto loro.
«Ma, Cristo, giuro che… giuro…» Il tono distaccato si stava crepando, ma non potevo farci niente. «Se mai– se mai– non m’importa quando– me ne piglierò degli altri ma– oh Pa’, questa merda di fiume, dovevo, dovevo–»
E non potendo più sfogarmi a parole ho continuato sul fianco della barca, finché il vecchio non mi ha afferrato il pugno e mi ha fermato.
Dopodiché la questione è stata chiusa, messa da parte e dimenticata. Nessuno in famiglia ne ha fatto più parola. Per un po’ quel giorno a scuola i compagni hanno continuato a chiedermi che fine avevano fatto le famose linci di cui mi vantavo sempre, e come mai non le avevo portate a scuola con me, ’ste benedette linci?… io però li ho mandati a farsi fottere e, dopo averceli mandati più volte e a un altro paio avergli mostrato anche la via, nessuno ne ha più fatto parola. E me ne sono dimenticato anch’io. O se non altro se n’è dimenticata la parte d’uomo che ricorda ad alta voce. Ma a qualche anno di distanza ho iniziato a chiedermi com’era che ogni tanto, tutt’a un tratto, sentivo il bisogno di svignarmela dall’allenamento di pallacanestro, o da un appuntamento. Proprio non riuscivo a spiegarmelo. Agli altri – al coach Lewellyn o a un compagno di bevute o alla tipa di turno – rifilavo la scusa che se aspettavo troppo il fiume saliva e non potevo più attraversare. «Mi è arrivata voce che il fiume è alto» dicevo. «Se sale troppo, c’è modo che mi porta via la barca e allora sto fresco». Ai compagni e al coach dicevo che dovevo scappare, che «il vecchio Wakonda si sta alzando come un muro tra me e la tavola apparecchiata per la cena». E alle bimbe ormai cotte a puntino, «Scusa bella,» dicevo «tocca che mi do una mossa o mi affonda la barca». Ma a me stesso, a me dicevo, Stamper, c’hai dei problemi con quel fiume. Fattene una ragione. Alle bimbe di Reedsport puoi raccontare tutte le balle che ti pare, ma tanto alla fine lo sai che son balle e che c’hai dei problemi con quella serpe di fiume.
Era come se io e il fiume avevamo firmato una specie di contratto, c’eravamo lanciati una sfida, e io manco sapevo di preciso perché. «Ti giuro, tesoruccio bello» dicevo a qualche zuccherino con cui ce ne stavamo ad appannare i vetri del pick-up del vecchio, parcheggiati chissà dove per l’ennesimo sabato sera di guerra al reggipetto. «Ti giuro che se non vado adesso, poi son brividi tutta la notte ad aspettare di poter attraversare; guarda laggiù, guarda come piove, pare una mucca che piscia su un sasso liscio!» Sparavo una balla qualsiasi, ma tanto lo sapevo che in realtà volevo dire che dovevo – perché ancora non lo sapevo – dovevo tornare a casa, infilarmi l’incerata, recuperare chiodi e martello, e picchiare sul legno come un pazzo, addirittura rinunciare a una chiavata assicurata, per passare mezz’ora a congelarmi le chiappe su quello stramaledetto pontile!
E non ho mai capito il perché fino a quel pomeriggio giù in paese alla riunione del sindacato, mentre me ne stavo seduto lì a ripensare ai cuccioli di lince che avevo perso guardando fuori dalla finestra, verso il punto nella baia in cui era affondata la mia barca, e ho sentito Floyd Evenwrite dire al vecchio Syverson: «Vuole solo quanto gli spetta».
E questo è il massimo che posso dire, amici e compari, per spiegare come mai io e il fiume non andiamo tanto d’accordo. Andrà d’accordo con l’oca del Canada e la trota iridea, semmai. Andrà d’accordo con la signora Pringle e il suo Pioneer Club giù a Wakonda – ogni Quattro luglio organizzano un raduno sul molo in onore dei primi vagabondi dalla faccia di cuoio che avevano risalito il fiume cent’anni prima a bordo di una piroga scavata in un tronco, l’Autostrada dei Pionieri, la chiamavano… e che diavolo, magari lo è stata davvero, proprio come lo è adesso la ferrovia che usiamo per portare giù i tronchi – ma con me non ci va d’accordo di sicuro. E non è solo per le linci; potrei raccontarvi centinaia di storie, darvi centinaia di ragioni per spiegare perché devo combattere con quel fiume. E tutte valide; perché di occasioni per pensare ce n’ho a non finire, quando vado a ispezionare gli alberi della zona e cammino tutto il giorno senza nient’altro cui badare se non il contapassi che c’ho attaccato al piede, o me ne sto appostato per ore a soffiare dentro un richiamo per animali o sono a mungere le vacche, la mattina quando Viv è sdraiata a letto coi crampi – di tempo ne ho a uffa, e in quel tempo mi faccio una ragione di un sacco di questioni mie: so ad esempio che se vuoi giocartela così, il fiume può figurare al posto di qualsiasi cosa. Ma però mi pare che in questo modo uno si distrae soltanto; a volerlo rendere più di quello che è, alla fine diventa meno. E il bello è che così com’è basta e avanza. Quando ti tocca con le sue dita gelide, o lo vedi salire e lo senti nel naso mentre si ritira dal paese con tutta la sua immondizia, i suoi liquami e il sudiciume vario che gli galleggia sopra spargendo un tanfo impossibile, anche quello basta e avanza. E a volerlo veder bene, non lo guardi da dietro – o sotto o di fianco – ma dritto dritto.
E ti rammenti che vuole solo quanto gli spetta.
Perciò, sempre tenendo gli occhi fissi sulla palla, ho capito che la questione alla fin fine era questa: il fiume voleva delle cose che secondo me erano mie. Ne aveva già prese alcune e tutto il tempo si affannava per accaparrarsene altre. E siccome si dà il caso che la gente mi considerava uno dei Dieci Hombres Più Duri da questo lato delle Rockies, io mi davo da fare per ostacolarlo.
E per come la vedevo io, ostacolare una cosa significava – da sempre – dargli addosso senza pietà, lottare con le unghie e coi denti, fargli male, calpestarla, graffiarla e se ancora non bastava, maledirla. E nel farlo metterci tutto quello che hai in corpo. Mi pare logico, no? Più semplice di così. Se punti a vincere, dai tutto. Uno se lo può addirittura scrivere su una placca e appiccicarsela sopra il letto. Così se lo ricorda. Tipo uno dei dieci comandamenti per il successo. «Se Punti a Vincere, dai tutto». Chiaro come il sole; una regola che proprio non ci piove.
Eppure c’è voluto che il mio fratellino tornava a stare con noi per un mese, per capire che esistono altri modi per vincere – si può vincere cedendo, ascoltando, tutto men che ringhiando… e, sicuro come la morte, puoi vincere senza essere uno dei Dieci Hombres Più Duri da questo lato delle Rockies. E ho capito anche che certe volte l’unico modo per vincere è essere debole, è perdere, è fare del tuo peggio invece che il meglio.
E a scoprire una cosa del genere a momenti mi disfo.
Quando dall’acqua gelata son salito sulla barca e ho visto che il quattrocchi mingherlino era niente popò di meno che Leland Stamper – che borbottava fra sé maledicendo la barca, incapace, com’era sempre stato, di manovrare qualsiasi macchinario più grosso d’un orologio da polso – mi sono emozionato. Giuro. E sono rimasto pure parecchio sorpreso, anche se non l’ho dato a vedere. Ho balbettato qualche scemenza, poi mi sono messo a sedere tutto tranquillo come se niente fosse, come se trovarmelo lì in mezzo al Wakonda Auga, dove nessuno lo vedeva da una decina d’anni almeno, era una cosa come un’altra che mi era successa quel giorno – semmai un po’ deluso che non era venuto ieri o il giorno prima. Non so perché. Mica per cattiveria. È che non sono mai stato uno che si perde in smancerie, e gli avrò detto quello che ho detto perché ero a disagio e volevo punzecchiarlo un po’, come mi capita con Viv quando inizia a fare la ruffiana e mi mette a disagio. Ma vedo subito dalla faccia che l’ha presa male e che gli sta dando più importanza di quanto volevo.
Ci avevo pensato tanto a Lee nel corso dell’anno, a com’era a quattro, a cinque, a sei anni. In parte, immagino, perché la notizia di sua madre mi ha fatto tornare in mente i vecchi tempi, ma un po’ anche perché è stato l’unico bambino che ho mai avuto fra i piedi e un sacco di volte mi sono ritrovato a pensare, Mah, ora sarà all’incirca così. Ora direbbe cosà. Per un verso era uno con cui valeva la pena di misurarsi, per altri no. È sempre stato furbo, ma di buon senso ne aveva poco; non ha fatto in tempo a iniziare la scuola che già sapeva le tabelline fino a quella del sette, però non gli tornava proprio come mai tre touchdown valevano ventuno punti se la squadra li trasformava tutti, anche se l’avevo portato a non so più quante partite. Ricordo – c’avrà avuto, bah, nove, dieci anni – che ho provato a insegnargli a lanciare saltando. Io correvo in avanti e lui lanciava. Non era malaccissimo, e ho pensato che un giorno magari poteva diventare un quarterback di tutto rispetto, se qualche volta faceva andare le chiappe invece che il cervello; ma dopo dieci, quindici minuti si schifava e diceva: «È solo uno stupido gioco, non m’importa di imparare a lanciare».
E io: «Vabbè, allora senti, sei il quarterback dei Green Bay Packers. Quarto down e tre nel terzo quarto, quarto e tre, siete sotto diciannove a dieci e manca un quarto alla fine. Siete sulle loro trenta. Okay… cosa fai?».
Lui gingilla, si guarda intorno, guarda la palla. «Non lo so. Non m’importa».
«Cerchi il piazzato da tre punti, testa di legno, e perché non t’importa?»
«Perché no».
«Non vuoi che la tua squadra vinca il campionato? Quei tre punti del calcio vi servono come il pane. E poi dopo puoi provare ad andare per il bersaglio grosso, e se trasformi passate avanti venti a diciannove».
«No».
«Cosa, no?»
«Non m’importa se vincono il campionato. Non me ne importa niente».
E lì m’incazzavo. «Allora cosa giochi a fare se non per vincere?». E lui pigliava e se ne andava.
«Non gioco, infatti. E mai giocherò».
Fine della storia. Ed era così in tante altre cose. Niente sembrava appassionarlo. Tranne i libri. Le cose che trovava nei libri per lui erano più reali di quelle che mangiavano e respiravano. Per questo era così facile dargli a bere qualcosa, perché era disposto a credere a qualsiasi diavoleria decidevo di rifilargli – specie se mi tenevo sul vago. Del tipo… su due piedi mi viene in mente questa: quando era piccolo se ne stava sempre sul pontile con il giubbotto di salvataggio ad aspettare che tornavamo dal lavoro; un giubbotto arancione fosforescente, tipo ghiacciolo all’arancia. Stava lì, abbracciato a un pilastro a guardarci da dietro gli occhiali, e magari arrivando gli dicevo una stronzata qualsiasi. «Ehi, bimbo,» gli dicevo «lo sai cos’ho trovato oggi lassù su quelle colline?».
«No». Distoglieva lo sguardo con le sopracciglia aggrottate come per convincersi a non cascarci, stavolta. Non dopo la figuraccia del giorno prima. Nossignore! Nessuno l’avrebbe fatta al piccolo Leland Stanford, brillante divoratore di libri che già sapeva recitare a memoria le tabelline fino a quella del sette e sommare a mente fino a dodici numeri. E quindi mentre noi mettevamo via l’attrezzatura lui restava lì a gingillarsi, a far saltare i sassi di piatto sul fiume. Ma si capiva che, anche se faceva l’indifferente, gli interessava.
Io facevo finta di aver abbandonato l’argomento, mi mostravo quello indaffarato.
Alla fine diceva: «No… non hai trovato niente secondo me».
Io scrollavo le spalle e continuavo a portare roba nella rimessa.
«Avrai visto qualcosa, ma non hai trovato niente».
Allora gli puntavo gli occhi addosso e lo guardavo a lungo come indeciso se dirglielo o no, dato che era un moccioso e roba così; lì cominciava a spazientirsi.
«Eddai, Hank, cos’è che hai visto?»
E io: «Ho visto un Nascondietro, Lee». A quel punto mi guardavo intorno per assicurarmi che nessuno aveva origliato la terribile notizia; c’erano solo i cani. Abbassavo il tono. «Sissignore, un Nascondietro fatto e finito. Porco cane. Speravo che non ci avrebbero più dato grane. Ne hanno combinate di tutti i colori negli anni Trenta. E invece, oh per l’amor…»
Poi facevo schioccare la lingua e scuotevo la testa, giravo lo sguardo verso la barca o altro, come se avevo detto più del dovuto. O non lo vedevo abbastanza interessato. Ma ogni volta sapevo di averlo preso all’amo. Mi seguiva fino a casa, sempre fingendosi indifferente, e non chiedeva nulla per paura che mi prendevo gioco di lui, come la settimana prima con quella balla dell’uccello con una sola ala che era costretto a volare in cerchio o dell’animaletto con le zampe a monte più corte di quelle a valle, che si arrampicava senza sforzo sui pendii. Stava lì fermo, il volpone. Ma se aspettavo abbastanza, alla fine cedeva e chiedeva:
«E cosa sarebbe questo Nascondietro?».
«Cos’è un Nascondietro?» E gli puntavo addosso due occhi come due padelle, per dirla alla Joe Ben, e poi: «Mai sentito parlare dei Nascondietro? Che mi venga un accidenti. Oh, Henry, miseriaccia ladra… senti qua: Leland Stanford non sa cos’è un Nascondietro. Che te ne pare, eh?».
Il vecchio si voltava sulla soglia, con la trippa villosa che spuntava dalla patta già sbottonata di mutande e pantaloni, e scoccava al moccioso un’occhiata come a dire, Sei un caso disperato. «Figuriamoci». E varcava la soglia.
«Lee, bimbo,» gli dicevo io, portandomelo dentro issato su un fianco «un Nascondietro è la creatura peggiore che a un boscaiolo gli può capitare di incontrare. O una delle peggiori. È piccolo, non grande, ecco, ma lesto, Cristo Santo se è lesto, ha l’argento vivo addosso. E ti si para dietro dietro, così che tutte le volte che ti giri, lui si sposta in fretta di lato e tu non lo vedi. A volte lo senti, magari in una palude, quando c’è silenzio, e il vento non fischia. Altre è capace che lo intravedi con la coda dell’occhio. Hai mai notato, quando sei solo nel bosco, che ti sembra sempre di aver visto qualcosa muoversi con la coda dell’occhio? Poi ti giri e, puf, niente».
Lui annuiva con due occhi come due padelle.
«Il Nascondietro s’acquatta, in attesa; si assicura che ci siete solo tu e lui – perché il Nascondietro ha paura di impadronirsi di un uomo se c’è il rischio che qualcun altro nei dintorni lo acciuffi senza lasciargli il tempo di mollare la presa con le zanne e darsela a gambe – sta fermo immobile dietro le tue spalle finché non ti sei inoltrato ben bene nel bosco e poi, bam!, colpisce».
Il marmocchio mi ha guardato, mezzo convinto e mezzo no, ha guardato il vecchio che leggeva il giornale e ci ha pensato un po’ su. Poi fa: «Okay, ma se ce l’avevi sempre dietro come hai fatto a capire che c’era?».
Mi sono seduto tirandolo a me per sussurrargli: «C’è una cosa che ancora non sai sul Nascondietro: non ha riflesso. Come i vampiri, sai? Quindi questo pomeriggio quando mi è parso di avere qualcosa dietro, ho infilato la mano in tasca per tirare fuori la bussola – questa qui, vedi che riflette come uno specchio? – l’ho sollevata e mi sono guardato alle spalle. E miseriaccia ladra, Lee, non c’era niente!».
Lui è rimasto un pezzo e via a bocca aperta, e allora ho capito che ce l’avevo ancora in pugno e che potevo rifilargli davvero di tutto, peccato che il vecchio a quel punto rideva sotto i baffi che a momenti si strozzava e non mi è più riuscito di restare serio. Ed è finita come tutte le altre volte che l’avevo preso all’amo. «Hank!» ha urlato il moccioso «Eddai, Hank!», ed è scappato a rifugiarsi dalla madre, che subito ci ha fulminato con gli occhi e l’ha portato via, lontano da noi bugiardi ignoranti che non eravamo altro.
Insomma, lungo il tragitto sul fiume, quando vedo che si scalda perché l’ho punzecchiato, quasi mi aspetto di vederlo urlare, «Oh, Hank!», e scappare via. Ma le cose sono cambiate. Per agitato, permaloso e inquieto che è rimasto, non è più un bambino di sei anni. Dietro quei tratti affilati scorgo ancora qualcosa del vecchio Lee, il piccolo Lee che mi mettevo sul fianco e che portavo su a casa dal pontile, quello che stava lì a chiedersi quante stronzate del fratello mezzo tocco doveva ingoiare, ma le cose sono cambiate. Prima di tutto adesso è uno studente dell’università – il primo nella nostra famiglia di analfabeti – e tutta quell’istruzione l’ha reso di sicuro più sveglio.
Secondo di poi, non c’ha più nessuno da cui correre.
Ora che ce l’ho seduto davanti, gli vedo qualcosa negli occhi che mi dice che non è in condizioni di reggere le mie stupidaggini. Stavolta sembra lui quello convinto di avere un Nascondietro alle calcagna, e la terra gli trema un po’ sotto i piedi e cose tipo quelle che gli ho detto non lo aiutano per niente. Quindi mi preparo a darmi una bella tirata d’orecchie più tardi quando sarò solo, e cerco di rendergli la vita semplice per il resto del tragitto in barca, facendogli qualche domanda sugli studi. A lui non gli pare il vero e parte a raccontare di lezioni e seminari e della pressione delle politiche accademiche, e va avanti così finché non arriviamo al pontile lenti come un giorno senza mangiare. E per tutto il tempo controlla di non incappare in un qualche ramo sommerso o che il cielo non si rannuvoli, oppure guarda un martin pescatore che si tuffa, qualsiasi cosa tranne me. Si rifiuta di guardarmi. Non vuole incrociare il mio sguardo. Allora smetto di provarci anch’io, e lo spio di nascosto ogni tanto mentre chiacchiera.
È diventato una bella bestia, non c’è che dire, nessuno se lo sarebbe aspettato. Sarà un metro e ottanta come minimo, uno o due centimetri più alto di me, e forse una decina di chili in più, nonostante la figura allampanata. Sotto la camicia bianca e i pantaloni è tutto spalle, gomiti e ginocchia nodose; tiene i capelli lunghi alle orecchie, occhiali con una montatura che a portarli appesi al collo ti fanno il solco, una giacca a scacchi lunga fino alle ginocchia con un bozzo nella tasca che è sicuro una pipa, ci scommetto quello che volete… poi biro nel taschino della camicia, scarpe da tennis lerce, calzini di spugna lerci. Che mi caschi in testa un fulmine se non pare la morte riscaldata. Tanto per cominciare ha la faccia bruciata che manco si fosse addormentato sotto una lampada abbronzante; sotto gli occhi ha delle mezzelune nero inchiostro e il piglio impassibile da gufo che aveva un tempo ha lasciato il posto a un mezzo sorriso incerto e ansioso, come quello che aveva la madre. Solo che il suo è più simile a un broncio, a significare che ne sa un briciolo di più sul mondo di quanto ne sapesse lei. E che lo rimpiange pure. Mentre parla il broncio ha la meglio sul ghigno, solo per un istante, un battito di ciglia, e lo fa sembrare più triste che mai perché trasforma il ghigno in uno di quelli che compaiono sulla faccia di uno seduto dall’altra parte del tavolo da gioco quando cali un full sulla sua doppia coppia all’asso, ed è andata così per tutto il giorno e qualcosa gli dice che sarà così anche tutta la notte. Quel ghigno che fa Boney Stokes quando, dopo aver tossito nel fazzoletto, abbassa lo sguardo e vede che butta male come temeva… e che ha da ridere?, direte voi. Eh, ride perché:… Boney Stokes, vecchissima conoscenza di Henry, pensa che il miglior modo di passare il tempo è morire un po’ alla volta. Ogni tanto Joe Ben – che un po’ alla volta non affronta niente, e anzi corre sempre come un treno – lo incrocia allo Snag, o li vede, a lui e al vecchio, che giocano a domino con i gettoni commemorativi che Boney aveva preso per il negozio durante l’Oregon Centennial e che poi s’era tenuto per sé, stava aspettando che passasse un altro po’ di tempo prima di cambiarli, e insomma ogni volta Joe si precipita a stringergli la mano e a dirgli quanto lo vede bene.
«Signor Stokes, non la vedevo così acciaccato da mesi».
«Lo so, Joe, lo so».
«Ci va dal dottore? Ma sì, son sicuro, però venga sabato sera alla messa che magari Fratello Walker può farle del bene. Gli ho visto riacchiappare certi disgraziati con un piede già nella fossa e l’altro che strascicava nella polvere».
Boney inizia a scuotere la testa. «Non lo so, Joe. Temo di essere già un pezzo avanti».
Joe Ben allora allunga la mano, afferra il vecchio demonio per il mento e gli gira la testa da parte a parte, strizzando gli occhi mentre studia da vicino i grinzosi crateri in cui sono sprofondati gli occhi. «Ci sta. In effetti, ci sta. È a un punto che nemmeno Dio onnipotente può più far nulla». E lo pianta lì, raggiante di malattia.
Perché, vedete, Joe Ben è fatto così; è una delle persone più premurose del mondo. O meglio ci è diventato, una delle persone più premurose del mondo. Da piccolo non era così. Da ragazzini stavamo sempre insieme un po’ come adesso, ma lui non parlava tanto. A volte era grassa se gli uscivano di bocca un paio di parole a settimana. Questo perché aveva paura di ripetere per sbaglio qualcosa che aveva sentito dire al suo vecchio. Era così simile al vecchio Ben Stamper che si cacava sotto al pensiero di diventare la sua copia sputata. E gli somigliava pure fisicamente, mi dicono, e fin dal giorno che era nato, con quella chioma lucida e nera e la faccia pulita, e ogni anno la somiglianza aumentava. Alle superiori si piazzava di fronte allo specchio dell’armadietto a fare smorfie di ogni genere, e provava a tenerle ma non gli riusciva mai; le ragazze gli spasimavano dietro come le donne da sempre spasimavano dietro allo zio Ben. Più diventava bello più si cacava sotto, finché l’estate prima dell’ultimo anno aveva quasi deciso di arrendersi e confessare di non avere voce in capitolo in ciò che ne sarebbe stato di lui – si era persino fatto una Mercury nuova fiammante come c’aveva il padre, tutta lucida e imbellettata con i sedili zebrati – quando così dal nulla un giorno è finito in una specie di zuffa al parco statale con la ragazza più rustica della scuola, e quella gli ha stagliuzzato il bel visino con una roncola. Non ha mai voluto dirci com’era finito in quella zuffa, ma fatto sta che da lì è cambiato. Con una faccia nuova si è sentito finalmente libero di essere se stesso.
«Hank, ti dico solo che se aspettavo un altro anno, guarda che fine facevo».
All’epoca il suo vecchio era appena scomparso tra le montagne e non ne era uscito vivo; Joe era strasicuro di esser scampato per un soffio alla stessa sorte.
«Può essere, Joby, ma volevo solo capire come si è svolta la questione laggiù al parco fra te e quella civetta».
«Che fenomeno eh? Io quella me la sposo, Hank, altroché, sta’ a vedere se non lo faccio. Aspetta solo che mi levino tutti questi punti. Eh già, qui la storia si mette bene!»
Ha sposato Jan che io ero oltreoceano, e al mio ritorno aveva già un figlio maschio e una femmina. Ed entrambi belli come bambolotti, belli com’era stato bello lui. Gli avevo domandato se la cosa lo preoccupava.
«Ma no, fa niente». Mi aveva sorriso solleticando prima un marmocchio, poi l’altro, e ridendo a sufficienza per tutti e tre. «Perché più belli sono, meno è probabile che somiglino al loro vecchio, non credi? Oh sì. C’hanno la loro croce da portare fin dall’inizio».
Dopo ha avuto altri tre figli, uno più bambolotto dell’altro. Nel periodo in cui Jan aspettava l’ultimo, Joe Ben era già immerso fino al collo nella Chiesa di Dio e della Scienza Metafisica e cominciava a prestare attenzione ai segni. Così, quando è nato l’ultimo, lui ha stabilito che era quello decisivo, per via dei tanti segni che aveva ricevuto quel giorno. E ce n’erano stati di notevoli. Sul Texas si era abbattuto un violento uragano; una balena era entrata nella baia di Wakonda con l’alta marea e si era spiaggiata facendo rivoltare lo stomaco a tutto il paese per un mese, finché una squadra di demolitori venuta da Seattle non l’aveva tolta di mezzo; e i resti di Ben Stamper erano stati rinvenuti sulla montagna in una baita isolata strapiena di giornaletti sconci; e quella notte stessa il vecchio Henry aveva ricevuto un telegramma da New York che diceva che la moglie era volata incontro alla morte gettandosi dal quarantesimo piano di un palazzo.
La notizia aveva fatto molto più effetto a me che al vecchio. Ci avevo rimuginato sopra per non so quanto. E nel tragitto in barca per un pelo non scoppio e chiedo a Lee i particolari di quel fatto, e cosa secondo lui poteva averlo scatenato; ma mi trattengo per lo stesso motivo per cui mi sono trattenuto dal domandargli perché ha abbandonato quello spasso di vita che blaterava di fare a Yale per tornare a casa a darci una mano con l’attività. Me ne sto zitto e buono. Alla fine ho già detto abbastanza e a tempo debito mi dirà lui di sua spontanea volontà quello che voglio sentire.
Approdiamo al pontile, io lego la barca e dopo aver spento il motore ci butto sopra un pezzo di incerata. Per un attimo ho la tentazione di chiedere a Lee di spegnere il motore mentre io lego la barca, poi me lo figuro che acchiappa la candela come fa il vecchio Henry almeno una volta a settimana e si prende una scossa da cacarsi addosso, quindi mi trattengo. Ultimamente mi trattengo a destra e a manca, pare. Perché come prima cosa sono sempre più convinto che il ragazzo non sta bene per niente. Non parla più e si guarda intorno. Ha gli occhi che sembrano di vetro. E fra noi c’è un silenzio teso come filo spinato. A parte questo, sono contento. È tornato, perdio, alla fine è tornato davvero. Tossisco e sputo nell’acqua e guardo nel punto in cui il sole ruzzola verso la baia come una grande rosa rossa tutta impolverata. D’autunno, quando bruciano la stoppia nei campi, il sole assume questa patina offuscata, e i cirri che attraversano il cielo nei pressi dalla foce del Wakonda somigliano a verghe d’oro piegate dal vento. È sempre molto bello. Quasi pare di sentirne il rumore.
«Guarda là» dico, indicando il tramonto.
Lui si gira, lentamente, sbattendo le palpebre come riavendosi da un sogno. «Che?» fa.
«Là. Guarda là. Verso il sole».
«Ma cosa?» OCCHIO. «Dove?»
Sto per rispondere, ma poi capisco che niente, non ce la fa, mica lo vede. È come chiedere a un daltonico di riconoscere un colore. È proprio incasinato nella testa. Allora faccio: «Niente, niente. Solo un salmone che è saltato fuori dall’acqua. Te lo sei perso».
«Ah sì?» Lee ha distolto lo sguardo dal fratello, ma è consapevole di ogni suo movimento: OCCHIO ADESSO…
Continuo a ripetermi che dovrei stringergli la mano e dirgli quanto sono contento che è venuto, ma so di non potermi chiedere tanto. Non me la sento, come non mi sento di andar lì a baciare il vecchio sulla guancia basettata e dirgli quanto mi dispiace che gliela stanno mettendo in quel posto. O come il vecchio non se la sente di darmi una pacca sulla spalla e congratularsi perché mi spacco la schiena da quando hanno iniziato a mettergliela in quel posto. Non è nel nostro stile, punto. Quindi io e il ragazzo ce ne stiamo lì a succhiarci i denti finché la banda dei cani si accorge che arriva gente e a grandi balzi scende a vedere se magari ci fa comodo la loro eccezionale assistenza, per un verso o per l’altro. Sbuffano, sbavano, agitano l’inutile coda, e tirano su un gran concorso di uggiolii e guaiti e smancerie del genere che così non capitava dall’ultima volta che qualcuno è sceso dalla barca, ovvero un’ora fa.
«Cristo, guardali. Uno di questi giorni li piglio e li affogo tutti, puzzoni che non sono altro. Guarda che schifo fanno».
Due di loro mi saltano sulla gamba nuda mentre cerco di infilarmi i pantaloni, e non stanno talmente più nella pelle dalla gioia di vedermi che gli viene la bella pensata di graffiarmi la carne fino all’osso. Comincio a frustarli con i pantaloni. «Dentro, figli di buona donna! Giù, accidenti a voi! Se proprio dovete zompare su qualcuno, zompate su Leland Stanford, qui; lui i pantaloni ce l’ha. Andate a dare il benvenuto a lui, se proprio dovete darlo a qualcuno».
Lee allunga la mano: ma, occhio, fa’ attenzione…
E per la prima volta nella sua vita di decerebrato uno di quegli scemi presta ascolto a quanto gli vien detto. Un vecchio botolo fulvo, sordo e mezzo cieco, e con la scabbia sul groppone, mi scende di dosso e si trascina a leccare la mano a Lee. Lee resta fermo un secondo… i colori intorno a Lee e al suo fratellastro squillano nell’aria vibrante; uno squillo azzurro-cielo, bianco-nuvola, e quella chiazza di un giallo smagliante. Lee osserva. Dove si trova?… poi posa la giacca e s’accoscia, e dalla reazione di quel dannato cane sembra che nessuno gli dà una grattata d’orecchio da un secolo almeno. Finisco di mettermi i pantaloni, recupero la felpa e aspetto Lee. Si alza, e il cane si solleva sulle zampe posteriori e gli appoggia quelle davanti sul petto. Faccio per sgridarlo, ma Lee dice no, un attimo: Aspetta; ti prego, aspetta… «Hank… ma questo qui è Plover? È il vecchio Plover? Cavolo, era già vecchio che io ero un bambino… Com’è possibile–»
«Perdinci se è lui, Lee, il vecchio Plover. Come hai fatto a riconoscerlo? Davvero è così vecchio? Diamine… eh sì, se c’era già quando c’eri tu. Guarda lì come si ricorda di te!»
Lee fa un sorriso da orecchio a orecchio, poi si porta il muso del cane vicinissimo alla faccia. «Plover, Plover… ehi, Plover, ciao…» non finisce più di ripetere. «… ciao, bello, ciao…» fa… blu, bianco, giallo e rosso, là dove la bandiera garrisce al vento. Gli alberi luccicano dietro un velo invisibile di fumo lupino. Giganteggiando muta, adagiata su uno sfondo di montagne lontane, la vecchia casa si china sul pontile: che casa è questa? Scuotendo la testa resto a guardare il moccioso e il venerando segugio. «Un ragazzo e il suo cane» dico. «Un’accoppiata imbattibile: guardala, la carogna, come ci dà di coda; si ricorda di te, bimbo, ci scommetto. Guardalo. È emozionato di averti di nuovo a casa, sai?»
Scuoto ancora un po’ la testa, poi mollo Lee a sciropparsi i saluti del vecchietto sordo, raccolgo i miei scarponi e percorro la pedana di legno verso casa, deciso a fare il possibile per aiutare il ragazzo a ripigliarsi, per rimetterlo in sesto prima che cada definitivamente a pezzi. Poveretto. Con le lacrime agli occhi come una ragazzina. Mi toccherà di dargli una raddrizzata, sì. Ma non ora. Più tardi. Lasciamolo in pace, adesso.
Così, con piglio deciso e diplomatico, sono rientrato in casa (anche perché non volevo restare nei paraggi nel caso che il mio fratellino, che ha studiato all’università e a sei anni già sapeva sommare fino a dodici numeri a mente, si ricordava che quando se n’era andato il vecchio Plover aveva come minimo dieci, undici anni ed era già una vecchia ciabatta da cortile. Questo dodici anni fa. Per cui in pratica era una mummia. Non riuscivo a fare bene il conto… certo, non sarò un laureato… ma tanto lo so che se sei duro in aritmetica, è meglio che i conti li lasci stare).
Che terra è questa?, continuava a domandarsi Lee. Che cosa ci faccio qui? Una brezza gentile gettò scompiglio nel mondo capovolto sulla superficie dell’acqua che oscillava piano accanto al pontile, fondendo le nuvole e il cielo e le montagne in un mosaico dalle tinte brillanti. La brezza cessò. Il mosaico tornò nitido, e di nuovo quel mondo sottosopra riprese a palpitare nello spettrale flusso ondeggiante. Lee distolse gli occhi dal riflesso, diede all’ossuta testa grigia del cane un’ultima strofinata, poi si rialzò per seguire il fratello con lo sguardo. Hank stava percorrendo scalzo la pedana, con la felpa buttata sulla spalla lentigginosa e gli scarponi stretti fra l’indice e il pollice della mano menomata. Osservò con ammirazione la miriade di piccoli muscoli sulla schiena stretta e pallida, l’oscillazione delle braccia e l’alzata del collo. Richiedeva un tale sforzo anche solo camminare, o si stava pavoneggiando con il suo virile portamento? Ogni suo gesto era un affronto all’aria stessa attraverso cui passava. Non respira, lui, sancì Lee, prestando ascolto al rantolo proveniente dal setto nasale deviato del fratello, lui trangugia ossigeno. Non cammina, lui consuma le distanze, un passo vorace alla volta. Un affronto bell’e buono, ecco cos’è, concluse.
Eppure non poteva fare a meno di notare come le spalle sembrassero bearsi dell’oscillazione delle braccia, o i piedi bramassero il contatto con la pedana. Questa gente… è la mia gente?
Dopo anni di scarponi chiodati l’assito del pontile si era talmente ricoperto di buchi, intriso di pioggia, poi seccato e di nuovo bucato e intriso di pioggia, che aveva ormai l’aspetto e la consistenza di uno spesso e fitto tappeto di lana grigio argento sapientemente intrecciata. Le assi di legno dondolavano a ogni passo, schiaffeggiando l’acqua. I pilastri su cui il pontile si alzava e abbassava a seconda dei capricci del fiume erano logori e lisci all’estremità, e per il resto incrostati d’ispidi molluschi; un metro sopra la superficie del fiume, cirripedi e mitili sfrigolavano e schioccavano al sole, narrando di maree passate e maree ancora da venire.
All’estremità del pontile uno scivolo di legno incernierato e con un binario al centro correva lungo l’argine fino alla siepe che delimitava l’aia; con l’acqua alta, quando il pontile galleggiante saliva, quella passerella assumeva una mite pendenza; con l’acqua bassa calava così bruscamente che un giorno sì e uno pure, se aveva piovuto da poco, gli escursionisti con calzature normali vi scivolavano sopra come lontre, finendo dritti dritti nel fiume. Hank aggredì lo scivolo di corsa e, quando i cani udirono i tonfi sordi dei suoi passi, gli si accodarono in branco latrando la loro speranza: chiunque puntasse in direzione della casa puntava anche in direzione delle file di barattoli del caffè inchiodati su un lato dei gradini, ragionavano i cani, e ogni momento era buono per uno spuntino.
I cani avevano lasciato Lee da solo. Perfino il botolo fulvo, uggiolando e guaendo in coda al branco, l’aveva abbandonato per la promessa di un pasto. Lee rimase un momento a guardarlo arrancare sullo scivolo, poi recuperò la giaccia dalla copertura incerata della barca e lo seguì.
Dai cavi della corrente che calavano fino sfiorare l’acqua, un martin pescatore si gettò in picchiata sulla sua ombra: Che creature son queste? Questa terra, dove si trova?
In un punto del pontile l’onda d’urto dell’esplosione aveva schizzato acqua sulle assi di legno; di là da quella pozza i cani avevano lasciato un motivo puntiforme sul tessuto del pontile seguendo le orme più grandi lasciate da Hank. «A giudicare dalle impronte» osservò Lee studiando quei segni «si direbbe che appartengano tutti alla stessa razza». La voce gli uscì di bocca acuta e pulita, e per nulla infusa di sarcasmo com’era sua intenzione.
Proseguendo notò un altro gruppo d’impronte, più chiare, le tracce evanescenti di un fantasma. Dovevano appartenere alla donna che aveva visto, la compagna di Hank. Le osservò più da vicino. Aveva indovinato; il fiorellino di campo andava in giro scalza, proprio come lui aveva predetto. Ma mentre seguiva le orme sullo scivolo, ragionò anche che doveva essere incredibilmente sottile e alto il collo del piede che le aveva prodotte, a giudicare dall’appoggio preciso e delicato – quelle impronte erano il risultato non tanto di uno scalpiccio, come quello di Hank o dei cani, ma del tocco di una piuma ricurva. Era una da andarsene in giro scalza, questo sì, ma poteva essersi sbagliato circa le dimensioni e la stazza del soggetto.
Raggiunse la cima del piano inclinato e si fermò a contemplare la casa e il terreno circostante. Oltre il comignolo in pietra di fiume, un’enorme pira di legna da ardere si stagliava contro il sole, come fosse fatta di lingotti di metallo lucente. Una scure a lama singola conficcata in un ceppo rotondo condusse il suo sguardo più in là, al vecchio fienile rosso porto. Un lato era coperto dalle foglie ingiallite di un ardito rampicante. Sul davanti, imbullettate all’immensa porta scorrevole che minacciava di uscire dai binari, uno sfoggio di pelli di procione, volpe e topo muschiato messe a essiccare e irrigidire a dovere. Chi, oggigiorno, cattura ancora gli animali e li scuoia? Chi si diverte a giocare a Young Dan’l Boone tra alberi e arbusti avvelenati? E accanto alla porta, in disparte e isolata, più simile a una grande finestra mal rifinita che a una cotenna d’animale, campeggiava la gigantesca macchia scura di una pelle d’orso. Che tribù è questa, così sprofondata in se stessa da partorire in sogno tali deliri?
Mentre Hank faceva ingresso in casa, Lee fissava l’oscura chiazza di pelliccia come fosse una finestra oscura in cui si sforzava di scorgere qualcosa…
(Appena sono entrato in cucina ho trovato il vecchio già indaffarato. Gli dico che il ragazzo è a casa e quello guarda su con una costina di maiale che gli spunta dalla bocca a mo’ di zanna di cinghiale. «Che ragazzo?» farfuglia, impedito dall’osso. «Che ragazzo, a casa di chi?»
«Il tuo ragazzo, a casa tua» rispondo. «Leland Stanford, in carne e ossa. Ma guardati; non hai perso tempo a grufolare nella spesa, eh?» dico calmo e tranquillo, ché mica voglio farlo incazzare. Mi rivolgo a Joe Ben. «Joby, dov’è Viv?»
«Di sopra a incipriarsi il naso, immagino. Lei e Jan stanno–»
«Fermi tutti! Di che diavolo vai farneticando – un ragazzo?»
«Il tuo ragazzo, per la miseria. Leland».
«Balle!» Pensa che lo sto prendendo in giro come sempre. «Qui non c’è nessuno da nessuna parte».
«Come ti pare». Scrollo le spalle e faccio per sedermi. «Ho pensato che magari volevi saperlo–»
«Che diamine» sbatte la forchetta sul tavolo – «tramate alle mie spalle adesso, voglio sapere! Perdio, se c’è una cosa che non tollero–»
«Henry, levati quell’osso di bocca e ascoltami. Se la smetti di abbuffarti un secondo, magari riesco a farti passare qualcosa per quelle orecchie. Tuo figlio Leland è tornato a casa–»
«Dove? Fammi vedere!»
«Calma, miseriaccia ladra. Per questo sono venuto ad avvertirti; se ti calmi un secondo – non voglio che te lo ficchi in bocca e me lo mezzo ciancichi per poi renderti conto che non è una costoletta di maiale. Ora, ascolta. Fra un attimo entra. Ma chiariamo una cosa. Siediti». Allungo una mano e lo spingo contro lo schienale, poi mi metto anch’io cavalcioni a una sedia. «E per carità d’Iddio levati quell’osso di bocca. Ascolta».
Lee girò la testa, meccanicamente. Oltre il cortile, in un recinto, i maiali rimestavano il terreno come larve litigiose. Più in là, un boschetto di minuti e sottili alberi da frutto offriva al sole mele rachitiche. E più in là ancora incombeva l’ampio sipario verde della foresta, un tessuto di felci, rovi, pini e abeti, lo sfondo bidimensionale di un paesaggio boschivo srotolato dalle nuvole giù fino in terra. Questi falsi scenari usciti da La città dell’oro; chi assiste più a simili rappresentazioni storiche? Chi vi recita più?)
Quel sipario verde era stato uno dei confini del mondo infantile di Lee; quel fiume placcato d’acciaio, l’altro. Due muri che correvano paralleli. La madre aveva fatto del suo meglio per renderlo consapevole di quelle due pareti di confinamento, così come lo era lei. In nessuna circostanza, declamava la donna con voce monotona, Lee poteva inoltrarsi nella foresta e men che meno avvicinarsi alla sponda del fiume. Per lui quelle montagne e quel fiume erano muri, intesi? Sì, madre. Sicuro? Sì. Sicuro? Sì; le montagne e il fiume erano muri. Molto bene, ora puoi uscire a giocare… ma fa’ attenzione.
E gli altri, di muri? Quello a est e quello a ovest, che avrebbero dovuto incontrarsi con quello a sud della foresta e quello a nord del fiume per formare una cella perfetta? E a monte del fiume, madre, dove si trovavano quelle rocce scivolose e coperte di muschio, perfette per romperci sopra ossa goffe? O a valle, dove le viscere rugginose di una segheria abbandonata brandivano a ogni angolo lo spauracchio dell’infezione e una mandria di cinghiali rapaci divorava gli uomini interi… anche quelli erano proibiti?
No; solo la foresta e il fiume. La sua cella aveva soltanto due pareti; alla sua cella non servivano che due pareti. Sin dal suo concepimento la madre era stata condannata al confino a vita fra due linee parallele. O magari non del tutto parallele, visto che un giorno si erano incontrate.
Ma chi aveva tagliato la legna, chi aveva dato la sbobba ai porci, chi cavato le mele da quella terra esausta? E in virtù di quale effetto ottico un uomo vedeva solo quella modesta stella di Trillium laggiù, accanto a un gradone di abeti grigio argento, e non l’ovolo malefico che gli cresceva accanto? Come si poteva ammirare il roseo splendore offuscato del sole sul fiume e non far caso allo scempio col cartellino ancora legato all’alluce?
«Guarda il tramonto un corno!»
(E per la miseriaccia ladra quando finalmente riesco a convincere la vecchia scorreggia a levarsi quell’osso di bocca e me lo sistemo seduto davanti, con uno sbaffo di grasso di maiale sulle sopracciglia, ad ascoltare quel che ho da dire, lì mi rendo conto che non mi riesce di dire quel che ho da dire. «Allora» faccio «la questione è… intanto, Cristo, si è sciroppato un bel viaggio. Mi ha detto che se l’è fatta tutta in corriera. Sfido che ha una brutta cera…» – non mi riesce perché muoio dalla paura che il vecchio s’infiammi e cominci a sparare a raffica le domande che immagino…)
Da sopra la spalla Lee vide il sole ferito annegare in una palude putrescente, e le sue grida agghiaccianti gli penetrarono a fondo nella carne. Scosso da un brivido si avviò su per il sentiero che conduceva all’ingresso, ed entrò. Chiunque avesse rinnovato l’esterno della vecchia abitazione si era limitato a questo; l’atrio era ancora più ingombro e sgradevole alla vista di quanto ricordasse: pistole, romanzetti western da due soldi, lattine di birra, posacenere straripanti di scorze d’arancia e carte di caramelle; parti untuose di macchinari in convalescenza sui tavolini da caffè… Bottiglie di Coca, bottiglie di latte, bottiglie di vino – così equamente sparse per la stanza da suggerire un sotteso criterio di uniformità. Seguono la moda nord-occidentale in fatto di arredamento d’interni, ne dedusse Lee, sforzandosi di sorridere: lo stile discarica. Me lo vedo: «Questo lato della stanza è sbilanciato, procuratevi altre bottiglie da spargere qui intorno…».
Chi l’aveva sparse tutte quelle porcherie?
Non era cambiato molto: decenni di scarponi infangati avevano scurito il sentiero che dalla porta d’ingresso attraversava il pavimento di legno non ancora rifinito passando per il centro della stanza, dove i calzini giallo sporco mandavano ancora vapore penzolando a cavallo dei fil di ferro incrociati e tesi sopra la grande stufa a legna, che buttava ancora fumo dal punto in cui il tubo non aderiva alla canna fumaria.
La grande porta si richiuse da sé in virtù del proprio peso. Le porcherie svanirono. Lee si ritrovò solo nell’algida stanza tinta di fuliggine. Erano soli, lui e la vecchia stufa che gemeva e sbuffava come un robot obeso e lo fissava inebetita col suo lucente occhio di vetro al quarzo. Le orme bagnate di Hank indicavano discretamente la via scomparendo sotto la porta chiusa della cucina, da cui giungeva il mormorio che il suo arrivo aveva scatenato. Non riusciva a distinguere cosa stessero dicendo, ma sapeva che entro breve sarebbero calati tutti su di lui lungo la striscia di luce che partendo da sotto la porta tagliava in due la stanza. Si augurò che aspettassero. Sperava che gli avrebbero concesso un po’ di tempo, soltanto un po’ di tempo per raccapezzarsi. Si fece immobile. OCCHIO. Magari non l’avevano sentito entrare. Se non si fosse mosso, sarebbero rimasti ignari della sua presenza. OCCHIO ADESSO…
Respirando più silenziosamente possibile, iniziò a girare la testa qua e là sforzandosi di vedere nel buio. Le tre piccole finestre della stanza, costituite di molti pannelli tenuti insieme col nastro di piombo, fornivano un’illuminazione scarsa e sanguigna. Alcuni pannelli erano di vetro colorato. E anche quelli trasparenti erano talmente vecchi e di qualità così scadente che la luce trapelava tinta di un verde da profondità marine. La moccolosa luminescenza più che aiutare sembrava indebolire la vista. La stanza era colma di mutevoli nubi di gas iridescente. Non fosse stato per la stufa, non si sarebbe visto un tubo; le fiamme che baluginavano dietro il vetro al quarzo inchiodavano i recalcitranti oggetti al loro posto. Chi mai era così ottuso da servirsi ancora di simili ordigni dal sapore gotico? Che risma di spettri alimenta ancora la stufa ruminante e ne respira i tenui fumi?
Desiderava più luce, ma non si arrischiava ad avvicinarsi alla lampada nemmeno in punta di piedi. Si sarebbe dovuto accontentare del baluginio della fiamma e dell’occhio rotondo della stufa, che dardeggiava per la stanza toccando un oggetto dopo l’altro… una coppia di reali francesi vivacemente decorata danzava un minuetto di ceramica in una sala di ciarpame; un coltello da cacciatore con l’impugnatura in corno scuoiava una parete coperta di pelle di daino; un intero battaglione di edizioni condensate del Reader’s Digest era schierato su un’asse di legno sorretta da rinforzi a L; poggiapiedi accucciati; tende sospiranti; gli sgabelli avanzavano ad ampi passi in una ragnatela di ombre… ma dove sono i veri occupanti?
(«Ascolta». Sbircio in cortile dalla finestra della cucina. «Dev’essere di là, in soggiorno» sussurro al vecchio. «Sarà entrato e adesso è lì che aspetta».
«Tutto solo?» Anche Henry inconsapevolmente sussurra, come si è soliti fare in biblioteca, o in un bordello. «Che accidenti di turbe ha?»
«Non ne ha di turbe, ti dico. Mi è parso solo un po’… fuori fuoco».
«Ma se è lì fuori e non ha turbe, perché non entra a mettere qualcosa sotto i denti? Giuro che non ci sto capendo niente–»
«Ssst, Henry» fa Joe Ben. Tutti i figli sono seduti immobili davanti ai loro piatti con gli occhi come due monete da un dollaro, uguali a quelli di Jan. «Hank dice solo che forse è stanco per via del viaggio».
«Lo so, di questo abbiamo già parlato!»
«Zitto».
«Perdinci, cosa sono tutti questi segreti? Dovremmo forse nasconderci da lui? È mio figlio, che il diavolo ti porti. E voglio sapere perché–»
«Pa’,» lo interrompo «dico solo di dargli respiro, prima di saltar fuori ruggendo e seppellirlo di domande».
«Che tipo di domande?»
«Cristo, dai che lo sai».
«Ma senti un po’ questo. Che ti credi che voglio sapere? Della madre? Chi l’ha spinta di sotto o robe simili? Perdio non son mica un fesso totale, non m’importa di cosa pensate voi due figli di buona donna, chiedo scusa, Jan, ma questi due figli di nessuno si credono–»
«Va bene, Henry, d’accordo…»
«Cioè che diamine, non è forse sangue del mio sangue? Forse a voi pare, ma non sono ancora tutto duro come un sasso».
«D’accordo, Henry, è solo che non volevo–»
«Dunque, con permesso…» Si issa in piedi. Mi rendo conto che parlarci non porta a niente. Incespica e appoggia una mano bitorzoluta sul ripiano in formica del nuovo tavolino cromato che gli fa sempre lo sgambetto, essendo che ha le gambe che non vanno giù a piombo come ti aspetteresti ma buttano leggermente all’infuori, e io mi slancio in avanti per acchiapparlo. Ma lui alza la mano agitando l’indice. Sta lì, in perfetto equilibrio, al massimo della forma, in assoluto controllo, non suda neanche, e ci guarda uno a uno soffermandosi a lungo, poi scompiglia i capelli al piccolo John, che sembra spaventato dalla situazione, e dice: «Dunque con permesso… credo che me ne andrò di là a fare un saluto a mio figlio. Sbaglierò, ma secondo me fin lì ci arrivo ancora». E ruotando sul gesso si allontana a passo ondeggiante. «Almeno fin lì, secondo me, ci arrivo…»)
La stufa piagnucolava e si lagnava impertinente sulle quattro gambe torte. Lee le stava ritto di fronte con un indice posato pensosamente all’angolo delle labbra, mentre faceva vagare lo sguardo sulla minuteria raccolta in anni di vita vissuta: cuscini di raso proveniente dalla San Francisco Exposition; un documento incorniciato che proclamava Henry Stamper socio fondatore della Muscle Monkeys della contea di Wakonda; una faretra completa di frecce e un arco di legno nodoso; cartoline illustrate appiccicate a un travetto; un ramoscello di vischio in agguato sul soffitto; una papera di plastica con tanto di cordino che guardava dall’alto in basso un orsetto di peluche adagiato in posizione equivoca; foto di pesci tenuti in bella mostra; foto di orsi con cani da caccia; foto di cugini e nipoti – tutte contrassegnate dalla data di cattura. Chi le ha scattate per poi scriverci la data sopra, e chi ha acquistato quell’atroce servizio di piatti da cinesi?
(Esco a vedere. Il vecchio si ferma sulla soglia davanti alla scalinata. «Quanto vorrei sentirci meglio». Si affaccia dalla porta. «Ragazzo?» fa. «Sei tu, qui al buio?» Lo supero per andare a premere l’interruttore per lui. Il ragazzo, Lee, sta proprio davanti al vecchio con una mano vicino alla bocca e la faccia di chi non sa se attaccare o battere in ritirata.
«Leland! Ragazzo mio!» esclama il vecchio, e gli si trascina incontro. «Ti venisse un colpo! Che si dice, eh? Qua la mano. Santiddio, Hank, ma guarda che pertica è venuta fuori! Cos’è, t’hanno innaffiato? Ora ci mettiamo un po’ di ciccia su quelle ossa e vedrai che roba. Qua la mano, Leland».
Il ragazzo fa fatica a intervenire col vecchio che lo tempesta in quel modo di parole, e pare ancora più confuso quando quello allunga la mano sinistra, allora cambia mano anche lui, e nel frattempo il vecchio ha deciso che deve tastargli il braccio e le spalle come a un tocco di carne da congelare. E Lee non sa più che mano allungare. Non vorrei, ma mi scappa da ridere.
«Oh, dico, è pelle e ossa, Hank, pelle e ossa. Toccherà metterci un po’ di ciccia su ’st’attrezzo o non vale mica un cazzo. Leland, per la miseria, come andiamo?»)
È lui? La mano che gli stringeva la spalla era dura come il legno. «Ma bene, me la cavo». Lee fece spallucce, a disagio, e chinò il capo per non dover sostenere oltre la vista del grugno spaventoso del padre. Mentre parlava, la sua mano continuò a scendergli giù lungo il braccio, fino ad avvincere le dita in una lenta, inesorabile morsa di radici d’albero che gli accese piccole scintille di dolore fin su alla spalla. Lee alzò gli occhi per protestare e si rese conto che il vecchio lo stava ancora apostrofando con la sua soverchiante, incontenibile voce. Gli riuscì di convertire la smorfia in un sorriso sconfortato; di certo il padre non intendeva nuocergli con quella stretta prolungata. Forse era tradizione fracassare l’altrui metacarpo. Ogni confraternita ha la sua stretta, quindi perché non i Muscle Monkeys di Wakonda? Di sicuro prevedevano anche crudeli iniziazioni e gare tutti contro tutti. E perché non una stretta speciale da Muscle Monkey? E io sono suo?
Mentre era impegnato in simili elucubrazioni, si accorse che Henry taceva e tutti lo guardavano con aria d’attesa.
«Eh sì, sopravvivo…» Com’è che lo chiamavo? Poi, guardando in quegli occhi verdi, col bianco che faceva il giro tutto intorno – Pa’…? – e l’incredibile paesaggio di quel volto solcato d’inverni oregoniani e bruciato dai venti costieri. «Non combino un granché» – mentre il padre gli strattonava la mano in su e in giù come una corda da salto – «ma me la cavo». O babbo?
E di nuovo percepì quello sfarfallio sulla guancia, gli oggetti della stanza che svolazzavano qua e là come disegni su di una tenda di pizzo gonfiata dal vento…
«Bene!» Il vecchio pareva oltremodo sollevato dalla notizia. «Cavarsela oggigiorno è già più che sufficiente, figliolo, con ’sti socialisti sanguisughe. Vieni. Siediti. Hank dice che ti sei fatto un bel pezzo di strada, eh?»
«Da farmela bastare per un bel po’». Pa’? Babbo? Quello lì era suo padre, cercava di persuaderlo un’incredula voce. «Tanto che,» aggiunse «se non vi secca, me ne starei un po’ in piedi adesso».
Il vecchio si fece una risata. «E ti credo. Gli zebedei protestano, eh?» Gli rivolse una strizzatina d’occhio, sempre continuando a stritolargli la mano. Joe si palesò, seguito da moglie e figli. «Ah. Eccoci. Joe Ben – te lo ricordi, Joe Ben, vero, Leland? Il figliolo di tuo zio Ben? Vediamo… era già messo così prima che tu e tua–»
«Oh sì!» Joe si precipitò in soccorso della mano di Lee. «Certo! Lee c’era ancora quando mi hanno riappiccicato la faccia. Mi sa che addirittura – no, aspetta, mi sono sposato con Jan nel cinquantuno e quando lui se n’è andato cos’era? Il quarantanove? Cinquanta?»
«Suppergiù. Ho perso il conto».
«Allora sei andato via prima che mi sono sposato. Non conosci la mia signora! Vieni, Jan. Questo è Lee. Un po’ abbrustolito, ma è sempre lui. Lei è Jan. Non è un amore, Leland?»
Joe balzò di lato e Jan emerse timidamente dal corridoio scuro, asciugandosi le mani sul grembiule. Rimase impassibile accanto al marito dalle gambe torte, che nel frattempo presentava lei e i bambini. «Piasceere» borbottò alla fine, poi tornò a dissolversi nelle tenebre del corridoio come una creatura vespertina nel buio della notte.
«Diventa un po’ nervosa in presenza di sconosciuti» spiegò fieramente Joe Ben, come se stesse elencando le doti di un pluripremiato cane da riporto. «Ma questi due arnesi qui invece no, eh?» E voltandosi verso i bambini prese a conficcargli le dita fra le costole facendoli contorcere e saltare. «Ehi, Hankus, dov’è la tua signora, dato che siamo qui a mostrare la mercanzia a Leland?»
«Ma che ne so». Hank si guardò intorno. «Vi-viaan! L’ultima volta l’ho vista fuori. Avrà adocchiato il vecchio Lee e sarà corsa ai ripari».
«E di sopra a cavarsi i jeans» li informò Jan, affrettandosi ad aggiungere «e infilarsi un vestito, certo, un vestito. Io e lei andiamo a sentire un tale che parla in chiesa».
«Viv sta provando a essere una di quelle che chiamano “donne informate”, bimbo» si giustificò Hank. «Ogni tanto si fanno prendere dallo sghiribizzo sociale, sai. Per aver qualcosa da fare».
«E perdio adesso ci risediamo, sissignore,» – il vecchio ruotò sulla punta di gomma del gesso – «e torniamo a esercitare le mascelle. Partiamo subito a metter su un po’ di ciccia su questo ragazzo». E dondolò fino in cucina.
«Ti va un morso, bello?»
«Mah, non ci avevo pensato».
«Forza!» gridò Henry dalla cucina. «Portami quel figliolo a tavola». Lee guardò con aria assente nella direzione da cui proveniva la voce. «Voi marmocchi fuori dai piedi. Joe, levami ’sti cosi dai piedi o li schiaccio!» I bambini si sparpagliarono fra le risate. Lee non si muoveva, e strizzava le palpebre alla luce invadente della cucina:
«Hank, sai che cosa mi piacerebbe–»
Di nuovo udì il tonfo del gesso.
«Leland! Ti piacciono le costine di maiale, no? Jan, diamo un piatto al ragazzo?»
«Mi piacerebbe–» Chi è mai quest’antica e fragile creazione di legno e malta, interpretata da Lon Chaney? Mio padre?
«Dai, vieni qui. Poggia la giacca. Dannati mocciosi!»
«Ti conviene stare in occhio, bimbo. Mai mettersi fra quell’uomo e la tavola apparecchiata».
«Hank» – OCCHIO – «forse–»
«Siediti qui, ragazzo». Henry lo trascinò per il polso nell’abbagliante cucina. «To’ del caffè, per tirarti un po’ su». Radici d’albero. «Ecco qua, due o tre di queste costine, un morso di patata dolce…»
«Gradisci dei fagioli?» chiese Jan.
«Grazie, Jan, io–»
«Puoi scommetterci!» tuonò Henry intorno alla sedia, e si spostò verso la stufa. «Non c’hai niente contro i fagioli dall’occhio nero, eh, figliolo?»
«No, ma, pensavo che potrei…»
«E che ne dici di un goccio di confettura di pere?»
«Forse è eccessivo… un secondo. Sono appena arrivato. Forse prima potrei andare a schiacciare un pisolo–»
«Ma perdinci!» sbottò di rimando Henry. Brillava nel calore della cucina. «Il ragazzo sarà morto di sonno! Che diavolo andiamo dicendo. Certo. Piglia e portati il piatto di sopra nella tua stanza, figliolo». Alla credenza afferrò una manciata di biscotti da un barattolo a forma di Babbo Natale e prese ad ammonticchiarli sul piatto di Lee. «Ecco qua, to’».
«Mami, possiamo avere anche noi i biscotti?»
«Fra un attimo».
«Oh ma–» Joe Ben balzò di colpo su dalla sedia c’è un gran traffico in cucina e fece per dire qualcosa perché sono tutti in piedi? ma si strozzò col biscotto che aveva in bocca. Iniziò a schiarirsi la voce con rapidi colpi di tosse simili a piccoli scoppi, e spingeva il collo in avanti come un gallo che infreddolito provi a intonare, «Ih-hi-hi-iiih».
«Mamiii!»
«Non ora, tesoro».
«Sicuro, bimbo? Neanche un morso?» chiese Hank, percuotendo con indifferenza la schiena del cinereo e agonizzante Joe Ben. «Fa un freddo cane di sopra per mangiare…»
«Mi fa fatica perfino deglutire, Hank».
Joe riuscì a smuovere il pezzo di biscotto e gracchiò con voce alterata: «Le valigie. Dove sono le sue valigie? Volevo andarle a recuperare».
«Alla buon’ora» ribatté Hank, e si diresse verso la porta sul retro.
«Qualche frutto».
Jan portò due mele rattrappite dal frigorifero.
«Aspetta, Hank–»
«Signore mio bello, Jan. Non lo vedi che il ragazzo casca dal sonno? Gli serve un posto dove riposare, non due melacce striminzite come quelle. Giuro, Leland, che proprio non li capisco quelli che si mangiano ’ste melacce aspre. Ma per caso» – il frigorifero si spalancò ancora – «ce n’è rimaste di quelle pere che ho raccolto l’altro giorno?».
«Come, bimbo?»
«Non ho valigie, ricordi? Sulla barca non ce l’avevo, almeno».
«Giusto. Ricordo che mi ci sono fermato a pensare mentre attraversavamo».
«L’autista non voleva–»
La testa di Henry riemerse dal frigorifero. «To’! Prova una di queste!» La pera si conquistò uno spazio fra i biscotti. «Ottima dopo un viaggio; i viaggi mi scombussolano sempre e non c’è niente di meglio di una pera per riaversi». Tutti OCCHIO in piedi!
«Oh!» Joe Ben fece schioccare le dita. «Ma ce l’ha un letto dove appoggiarsi?»
Oddio. Non fanno che saltar su–
«Eh…» Il vecchio Henry chiuse il frigorifero sbattendo lo sportello. «Giusto». Dondolò fino all’imbocco del corridoio e allungò il collo, come se dal buio dovesse spuntare un maggiordomo. «Giu-sto. Gli servirà una stanza».
Per favore, state tutti–
«Glien’ho preparata una a modino, papà».
«Mamiiiii!»
«Le valigie le acchiappo io!» esclamò Joe Ben precedendoli.
«Dice che sono alla stazione delle corriere».
«Non scordarti il piatto, Lee!»
«Dici che ti basterà questa roba, ragazzo? Allungagli un bicchiere di latte, Jan».
«No. Davvero. Vi prego». Vi prego!
«E dai, bimbo». Hank…
«E se ti serve dell’altro basta un fischio!»
«Io–»
«Lascia perdere, bimbo…»
«Io–»
«Lascia perdere. Vieni di sopra».
Lee non sente la mano di Hank che lo guida per il corridoio; il tocco si perde nel terremoto generale… Questo sono io? Questi sono i miei? Questa gente? Questi squilibrati?
(«Parliamo dopo, figliolo» urla il vecchio. «Ne avremo di tempo per parlare». Il ragazzo fa per rispondere ma intervengo: «Lascia stare, continua a salire, bello, o ti strappa una gamba a morsi». E lo tiro dal corridoio alle scale giusto in tempo. Quello inizia a salire davanti a me come stordito. Sul pianerottolo non c’è neanche bisogno che gli dico dove andare. Si ferma davanti alla porta della sua vecchia stanza e aspetta che gliela apro, poi entra. Pare che ha chiamato per prenotare, tanto è sicuro.
«Magari ti sbagliavi». Gli sorrido. «Magari non ti portavo in questa stanza».
Lui dà un’occhiata dentro, al letto rifatto di fresco, alla biancheria e agli asciugamani puliti, poi ribatte: «Magari ti sbagliavi tu, Hank» dice con calma, e guarda come gli ho sistemato la camera. «Magari non venivo proprio». E non sorride; non lo trova divertente, lui.
«Be’, come dice sempre Joe Ben ai suoi marmocchi: meglio aver paura che buscarne».
«Ci dormirò su» dice quello. «A domattina».
«Domattina? Hai intenzione di sprecare la vita così? Sono solo le cinque e mezzo, sei».
«A dopo, volevo dire. Dopo».
«Bene. ’Notte».
«’Notte» risponde, poi arretra, chiude la porta e mi par proprio di sentirlo sospirare, il povero bastardo.)
Lee rimase un attimo ad assaporare il silenzio balsamico che regnava nella stanza, poi si affrettò verso il letto e posò sul comodino il piatto e il bicchiere di latte. Si sedette con le ginocchia al petto. Avvolto da una nebbia di stanchezza, udì a malapena i tonfi del gesso del padre lungo il corridoio. Erano i passi di una gigantesca creatura mitica che si apprestava a fare banchetto di ignari pastori. «Ucci ucci» mormorò Lee fra sé, poi calciò via le scarpe e distese le gambe sul letto. Incrociò le braccia dietro la testa e si mise a studiare un motivo di nodi nel legno che presto iniziò ad apparirgli familiare. «È una sorta di favoletta morale. Con un risvolto nuovo. Stavolta troviamo l’eroe nella tana dell’orco, ma perché si trova lì? Cosa l’ha convinto? Brandendo con sprezzo la spada della verità è forse venuto a uccidere i giganti che da lungo tempo depredavano la sua campagna? O era lì in qualità di vittima sacrificale? Una nuova interessante aggiunta a Giacomino e il Fagiolo Magico, una nota di mistero; chi ha la meglio, Giacomino? O il gigante?» questa gente… questa scena… come si taglia? Come, Dio mio?
Mentre scivolava in un sonno incosciente rifletté di aver udito qualcuno cantare nella stanza accanto, una risposta che non riusciva bene a interpretare… dolce… acuta… il morbido gorgheggio di un raro uccello fatato:
«… ai bambini, pasticcini
e tanti cavallini…».
Nel sonno il viso si rilassò, si ammorbidirono i tratti. E il canto fluiva come acqua fresca attraverso il suo cervello inaridito.
«… pezzati o neri, sempre dolci e fieri,
tanti cavallini…»
L’eco del canto si propaga in cerchi concentrici. Fuori i martin pescatore bisticciano sul cavo del telefono. Giù in paese, allo Snag, i paesani si domandano che fine abbia fatto Floyd Evenwrite. Nella sua capanna sulla piana alluvionale Jenny l’indiana scrive una lettera agli editori di Classic Comics per sapere se per caso abbiano mai pubblicato una versione illustrata del Libro tibetano dei morti. Sulle montagne del South Fork il vecchio tagliaciocchi si avvia verso il bordo di un crepaccio e lancia un grido nel vuoto solo per sentirsi rispondere da una voce umana. Boney Stokes si alza da tavola e decide di sgranchirsi le gambe andando a contare i barattoli di cibo in scatola. Lasciato Lee nella sua stanza, Hank è di nuovo sul pianerottolo e, udendo Viv cantare, si gira e va a tamburellare delicatamente le dita sulla sua porta.
«Sei pronta, bellezza? Volevate essere là per le sette».
La porta si apre e compare Viv intenta ad abbottonarsi un soprabito bianco. «Di chi era la voce che ho sentito?»
«Quello era il ragazzo, dolcezza. Era lui. Alla fine s’è degnato».
«Tuo fratello? Fammelo salutare–» Si avvia verso la stanza di Lee, ma Hank la trattiene per un braccio.
«Non adesso» mormora. «È uno straccio. Prima lasciamolo riposare un po’». Raggiungono le scale e iniziano a scendere. «Potrai conoscerlo dopo il giro in paese. O domani. Sei già in ritardo… Perché ci hai messo tanto?»
«Oh, non lo so… Hank. Non so decidermi se voglio entrare nel club».
«Ma allora, per la miseria, chi te lo fa fare? Nessuno ti costringe».
«Ma Elizabeth mi ha chiamato apposta–»
«Figurati. Elizabeth Pringle; la figlia del vecchio Pucker Pringle…»
«Se la sono presa tanto, alla prima riunione, quando mi sono rifiu-tata di giocare a quel gioco di parole. Ce n’erano altre di signore che non giocavano e di loro però non gl’importava; cos’avrò mai detto io di sbagliato?»
«Hai detto di no. E per certa gente è sempre sbagliato».
«Sarà. E immagino di non essermi nemmeno mostrata troppo amichevole».
«Perché, loro? Sono mai venute a trovarti? Te l’ho detto prima di sposarci che non ci avresti guadagnato granché in reputazione. Tesoro bello, sei la moglie del tagliagole, per forza ti danno il tormento».
«Non è questo. Non solo, almeno…» Si fermò a controllarsi il trucco nello specchio in fondo alle scale. «Ho l’impressione che vogliono rifarsela su di me. Per punirmi di qualcosa, non so…»
Hank le lasciò il braccio e si avviò verso la porta; «No, amore,» disse, studiando la grana del massiccio portone «è che sei troppo buona, e quelle se ne approfittano». Sorrise sentendo affiorare un ricordo. «Diavolo, dovevi vedere Myra, la mamma di Lee – come le trattava, quel branco di galline».
«Ma, Hank, io ci voglio diventare amica, almeno con alcune…»
«Oh sì,» rammentò con affetto «quanto poco ci metteva lei a mandarle a farsi benedire, branco di vacche. Dai, su».
Dai gradini della veranda Viv lo seguì fin sul prato, risolvendosi a essere un po’ meno buona stavolta, e cercando di ricordare se quando stava ancora a casa sua avesse sempre faticato in quel modo a farsi delle amiche: Nel giro di pochi anni sono cambiata così tanto?
A nord, di ritorno a Portland, sul brecciolino della nazionale Floyd Evenwrite suda sette camicie per cambiare una ruota vecchia di appena due mesi e già esplosa, maledetta! E ogni volta che la chiave a croce gli scivola di mano nel buio, si sbuccia un po’ le nocche, tiene a bada le viscere disobbedienti e riparte a snocciolare la sfilza di nomignoli che ha affibbiato a Hank Stamper dal giorno del fiasco a casa sua: «… succhiacazzi, leccaculo, scorreggione, merdaiolo…» – un salmodiare monotono e cadenzato che assume toni quasi solenni.
E in un motel di Eugene, Jonathan Draeger scorre col dito la lista di persone che dovrebbe vedere, dodici in tutto, dodici appuntamenti prima di proseguire alla volta della ridente Wakonda per incontrarsi con questo – butta un occhio alla lista – questo Hank Stamper e provare a farlo ragionare… tredici appuntamenti, tredici come il numero iellato, prima di poter pregustare il rientro a casa. Oh be’; pietra che rotola, e via discorrendo. Chiude il taccuino, sbadiglia e inizia a cercare il tubetto di antimicotico.
E accompagnata Viv sull’altra sponda del fiume, Hank rincasa appena in tempo per sentire Joe Ben gridare dal portico: «Correte a darmi una mano; il vecchio c’ha una forficola che gli s’è infilata su per il gesso e gli sta dando col martello a sfera!».
«L’ultima delle mie preoccupazioni» borbotta Hank, divertito, affrettandosi a ormeggiare la barca a motore.
E a Wakonda, in un luminoso ufficio della Main Street acquistato a un’asta giudiziaria, l’Arruffapopoli Immobiliare è curvo a cavare trucioli di pino bianco dalla figurina mezzo intagliata che ha in grembo. Mette particolare cura nel volto; talvolta, se non ce la mette, queste facce vengono fuori che paiono caricature in legno di un recente generale e presidente. Nei primi anni Quaranta l’Arruffapopoli aveva prestato servizio nel teatro europeo in qualità di cuoco di bordo, guadagnandosi una modesta reputazione di chef rampante. Era stato allora che aveva conosciuto l’uomo che l’avrebbe perseguitato per i successivi vent’anni. Una mattina costui, il generale, accompagnato dal suo entourage di aiutanti, assistenti e assoggettati adulatori, si era presentato al campo per un incontro. Aveva annunciato che si sarebbe trattenuto a pranzo con gli uomini arruolati ed era rimasto particolarmente contento di scoprire che a una particolare mensa era assegnato un certo chef rampante. A mezzogiorno si era dunque presentato alla suddetta mensa con l’entourage al completo. Si era complimentato col cuoco per il buon profumo del cibo e lo aveva elogiato per le condizioni della cucina, poi, qualche minuto dopo, aveva lamentato la presenza di un corpo estraneo nella sua zuppa di coda di bue. Il corpo estraneo in questione si era rivelato essere l’anello di un ufficiale tedesco, che l’Arruffapopoli aveva acquistato da un soldato di fanteria per inviarlo a suo padre. Avvedendosi di cosa si trattava, era rimasto di sasso. Non solo si era rifiutato di reclamare per sé la patacca negando anche di avervi mai posato gli occhi sopra, ma aveva addirittura insistito – sebbene non fosse mai stato neanche messo in discussione – che l’osso che l’anello aveva adornato fosse proprio di coda di bue. L’espressione del generale la diceva lunga, ma ormai era troppo tardi per ritrattare. E così aveva trascorso il resto della guerra a sudare freddo in attesa di vedersi calare sul collo una mannaia che di fatto mai calò, e al momento del congedo era ormai ridotto a un patetico fascio di nervi. Cos’era andato storto? Nella sua mente era sicuro della rappresaglia. Non aveva mai capito perché la mannaia fosse rimasta al suo posto finché, diversi anni più tardi, lo stesso generale aveva avuto il malefico ardire di candidarsi alla presidenza e pure la faccia tosta di farsi eleggere. Ecco, ora sì che sarebbe calata la mannaia! E infatti… Era arrivata la recessione. La sua nascente impresa di ristorazione era appassita e morta prima ancora di sbocciare. In cuor suo l’Arruffapopoli sapeva che quella siccità economica altro non era che una malvagia tattica, attuata ai danni di un’intera nazione innocente al solo scopo di mandare lui a carte quarantotto. Non della sua impresa gl’importava, quanto dell’intera nazione! Quanta sofferenza! Non poteva non sentirsi in qualche misura responsabile. Non fosse stato per lui sarebbe andata diversamente. E quali altre sciagure incombevano all’orizzonte?
Di ben peggiori. Era sopravvissuto agli otto anni di mandato del generale unicamente in virtù della grazia di Dio e della destrezza di sua moglie con l’ago, e solo adesso iniziava a concedersi di ritirare il giornale senza il terrore di trovarsi accusato di tradimento e condannato alla fucilazione immediata, solo adesso iniziava a muovere i primi passi in quel mondo così ingannevole. Ammesso e non concesso che quel colpo non gli stroncasse la schiena? Quale colpo? Lo stesso che gli era stato…? No. Stabilisce di no; qualcun altro ora attenta alla sua vita, e questo è quanto. Con espressione cupa scava nel legno della figurina che ha in grembo, ringhiando contro antichi ricordi… Quel figlio di puttana poteva almeno ritornargli l’anello!
E sopra il paese sfilano senza sosta le creste boscose sotto il bordo di una luna d’argento, come stecche di legno sotto la muta lama lucente di una sega circolare. Dietro il casolare cerca appigli la mora rampicante, con dita dure e cieche. In silenzio il legno marcisce nel conservificio. Il vento salmastro che soffia dall’oceano risucchia la vita da pistoni, ingranaggi, cavi, trasmissioni… Nella Main Street un soffice e sontuoso pasticcino di donna lascia lo Snag e si avvia sul marciapiede a brevi passi rancorosi. La bruma le si raccoglie sulle ciglia e la luce dei lampioni vela la chioma di riccioli neri. Senza guardare né a destra né a sinistra, la donna supera le amiche con incedere furente. Le morbide pagnotte delle spalle fremono d’indignazione. La bocca è un lugubre strato di marmellata di more. Mantiene quest’aria di offesa decenza finché non svolta l’angolo di Shahelem Street, scomparendo alla vista di chi si trova sulla Main. Lì si ferma, appoggiandosi al parafango della sua piccola Studebaker, e la collera si sgonfia dentro di lei. «Oh, oh, oh» geme, e s’accascia contro il parafango velato di brina col sospiro di sconfitta della torta che crolla…
Si chiamava Simone ed era francese. Sposatasi con un paracadutista nel 1945, era giunta in Oregon come un personaggio smarrito di de Maupassant. Non vedeva il marito da quando era scomparso, sette anni addietro, con un misero Geronimo di commiato, lasciandole un’auto gravata da ipoteca, una lavasciuga per cui aveva versato solo l’acconto e cinque figli ancora in gran parte di proprietà dell’ospedale. Benché lievemente inasprita dal tradimento, Simone era riuscita a tenere la testa sopra il pelo dell’acqua mantenendo il fiorente corpicino sotto le coperte, passando di letto in letto con un boscaiolo caritatevole dopo l’altro. Mai per denaro, badate – era cattolica dichiarata e devota non professionista – ma per amore, per amore soltanto, e qualsiasi altro benefico risvolto l’amore volesse offrirle. Talmente amabile era codesto bignè di malasorte, e così premurosi i suoi benefattori, che nel giro di sette anni la lavasciuga era diventata a tutti gli effetti di sua proprietà, l’auto era stata quasi del tutto pagata e i figli non erano più costretti a presentarsi ogni mese in ospedale. Nonostante il successo da lei riscosso, agli abitanti del paese non era mai neanche passato per l’anticamera del cervello, non più di quanto fosse passato a lei, di considerare un tantino sospetto quel suo sistema per far quadrare i conti. Di contro alla credenza popolare infatti, un paesello non è sempre impaziente di scagliare la prima pietra. Non al rischio di colpire qualcosa di buono, almeno. La convenienza, in un paese piccolo, spesso soppiantava la morale. Così le donne dicevano, «Simone è una brava figliola, da dove viene non c’importa», perché il bordello giù a Coos Bay chiedeva dieci dollari a botta, venticinque a notte.
E gli uomini dicevano, «Simone è una ragazza brava e pulita», perché era risaputo che a Coos Bay giravano gli uomini più impizzicoriti dello Stato.
«Non sarà una santa,» concedevano le donne «ma almeno non è Jenny l’indiana».
Dunque Simone era riuscita a tenere in piedi la sua attività amatoriale, e ogni qualvolta la si criticava, donne e uomini tutti si schieravano in sua difesa. «È una mammina dolce e amorevole» dicevano le donne. «Se l’è vista brutta in passato,» dicevano gli uomini «e io non mi faccio certo indietro se c’è da cavarla d’impiccio».
E d’impiccio la cavavano con dedizione e lealtà. Ma niente di più. I suoi introiti derivavano per lo più dalle occasionali prestazioni che offriva come cuoca. Questo era chiaro a tutti. E prima di quella sera la pingue pulzella non aveva mai ritenuto di doversene accertare.
Quella sera aveva bevuto birra in compagnia di Howie Evans, un boscaiolo arrampicatore della Wakonda Pacific che portava appesa al collo con una catenina una vertebra che gli avevano rimosso all’ospedale dopo una caduta. L’assenza della vertebra nel punto in cui avrebbe dovuto essere, o forse il peso che esercitava sul collo, lo costringeva in una strana posa ingobbita che suscitava orrore nella moglie, disgusto nella suocera e un fiume di compassione materna in Simone. Sfiorandosi il ginocchio sotto il tavolo per tutto il tempo, i due avevano trascorso la serata a chiacchierare amabilmente, e quando il giusto numero di birre era stato bevuto, lei aveva osservato che si era fatta una cert’ora. Howie l’aveva aiutata a infilarsi il cappotto, accennando di sfuggita all’intenzione di fare un salto su alla baita del fratello, per vedere se per caso aveva voglia di mettere un coperchio alla serata insieme a lui. Simone sapeva che il fratello di Howie stava scontando otto mesi a Vacaville per aver messo in circolazione assegni scoperti; l’aveva lasciato finire, sorridendo e pregustando il piacere di dargli una raddrizzata a quella povera schiena nella baita del fratello senza il fratello. Poi aveva alzato lo sguardo su di lui, si era umettata le labbra e, proprio mentre vedeva salire la domanda in superficie – «Perciò, Simone, pensavo che se non hai altri impegni…» – di colpo quello era ammutolito.
Si era fatto indietro. «Perdinci, Simone» aveva detto dopo un po’, sghignazzando e scuotendo la testa con nascente stupore. «Perdinci, stavo proprio per chiederti se ti andava–» E di nuovo silenzio. «Ma tu guarda che bell’affare. Giuro che non ci avevo mai pensato».
Accigliandosi, lei era rimasta a guardarlo mentre ridacchiava e scuoteva la testa e non si capacitava di non aver mai pensato a una certa cosa. Howie aveva scrollato le spalle e sollevato a palmi insù le mani lucide di calli, come a mostrarle che erano vuote. Poi aveva ripreso a sghignazzare e a scuotere nervosamente la testa.
«Sono al verde, Simoncina bella… verde che più verde non si può. Questo stramaledetto sciopero. E i conti di casa e via discorrendo, e non lavoro da un sacco di tempo… Insomma non c’ho la grana».
«La grana? La grana per cosa?»
«Ma per te, bella. Non c’ho la grana per te».
Uno sdegno da irrigidire le membra l’aveva colta all’istante, l’aveva schiaffeggiato con decoro e a passo spedito era uscita dal locale. Mica era Jenny l’indiana, lei! Tale era stata la rabbia scatenata da quell’insinuazione che il fusto e mezzo di birra bevuto – appena un sorso, in circostanze usuali – aveva preso a ribollirle dentro con tale veemenza che, una volta raggiunta l’auto, era stata costretta a rigettarlo tutto.
E così, infiacchita da cotanto rigurgitare – prostrata con la mano morbida sul radiatore dell’auto che di lì a un mese le sarebbe appartenuta – si era sentita colpire da un’improvvisa e ineluttabile rivelazione come Howie poco prima, e si era arresa a un’evidenza a lungo negata. «Mai mai mai più!» aveva esclamato fra singulti d’indicibile vergogna, là, in mezzo alla strada – «Mai più, Santa Madre, lo giuro!» – frugando debolmente nel soffice impasto della mente in cerca di qualcuno da incolpare, da odiare. Le era sovvenuto innanzitutto dell’ex marito – «Il disertore! L’impietoso fuggiasco» – ma la debolezza e l’inaccessibilità ne facevano un bersaglio troppo facile. Doveva essere qualcun altro, qualcuno di più vicino e più forte, robusto quanto bastava da sopportare il peso della colpa che cuoceva nel piccolo forno incandescente del suo cuore…
Il dito punta, Evenwrite impreca. Draeger dorme. L’Agente Immobiliare lavora alacremente alla sua statuina di pino bianco, ne studia le fattezze e borbotta sovrappensiero, in una pioggia di trucioli bianchi. Dall’altra parte della strada suo cognato chiude un sottile libro mastro e si dirige stancamente verso la fontanella nell’atrio per lavar via l’inchiostro rosso dalle dita sbianchite. Respirando brina rivolta alla luna, Jenny infila tre ranocchi in una borsa di camoscio; ogni volta che raccoglie una delle creature semicongelate su un rametto o un sasso, mormora le parole memorizzate quel pomeriggio dal fumetto che aveva sottratto all’emporio, mentre Grissom portava la sua Coca in magazzino per allungarla con una lacrima di paregorico: «“Doppio, doppione, tormento e disperazione”». Il rospo le si agita fra le dita; sente il cuore nel petto accelerare la sua corsa. «“Arde il fuoco e ribolle il calderone…”» (Più tardi avrebbe cotto le sue prede insieme a una foglia d’alloro precedentemente colta, e le avrebbe consumate con burro e limone.) Fuori, tra le dune, sotto la tettoia di un pino contorto, un ovolo malefico irrompe da un tappeto d’aghi come una creatura strisciata via dall’inferno. Nei prati d’erba cervina, ostinati fiori estivi scoccano estremi sguardi nei primi freddi autunnali all’oscuro giardino di stelle che il vento li aiuta a salutare: erba miseria e verbena blu-violetto, giglio trota e lingua di vipera, cuor di Maria e perenne perlato, e l’erba carogna, col suo fiorire al sentore di morte. Nei bassifondi degli scandinavi al limitare del paese, la sanguinaria tende le dita garrotanti verso soglie, stipiti e davanzali. La corrente fa grattare i pilastri sul pontile, il pontile sui pilastri. Le batterie si corrodono. I cavi s’imbrogliano. Lee dorme a labbra socchiuse in un’espressione d’ingenuo terrore fanciullesco, e dormendo sogna come un fanciullo di cadere, correre, essere inseguito e di nuovo cadere, precipitare, finché non lo riscuote un rumore improvviso, così forte e vicino che gli pare solo il sogno di un rumore che indugia nelle orecchie. Ma il rumore continua. D’un tratto completamente desto, Lee si tira in piedi vacillando accanto al letto; lì resta, tremante, gli occhi premuti contro il sempre infido tenebrore. Strano a dirsi, a confonderlo non è l’ambiente circostante; sa subito dove si trova. È nella sua stanza, nella vecchia casa sul Wakonda Auga. È il perché a sfuggirgli del tutto. Perché è qui? E quando? Avverte un martellare dentro l’orecchio, ma quando per la precisione nel corso della sua esistenza risuona questa cupa cacofonia? «Eh? Mm?» Gira la testa da parte a parte nell’occhio di un ciclone di oggetti sfocati. «Che?» Come un bambino destato di soprassalto da uno strano e improvviso rumore.
Non fosse che… non gli era del tutto nuovo; era l’eco beffarda di un rumore un tempo molto familiare (aspetta, ora torna)… un rumore udito di frequente. Per questo ero interdetto: perché, che mi venisse un accidenti, lo riconoscevo.
Man mano che i miei occhi si abituavano alla penombra mi accorsi che non era buio come sulle prime mi era sembrato (un nastro di luce taglia la stanza, inquadrando come un riflettore la sua giacca), né tantomeno il rumore era quel ruggito spaccatimpani che mi era parso di udire (la giacca giace ai piedi del letto e le maniche l’abbracciano, congelate in una posa di paura agonizzante. Il nastro di luce giunge attraverso un foro da una camera adiacente…) e invece che dal mio orecchio arriva da chissà dove fuori dalla finestra. Feci il giro del letto sfiorandone la liscia struttura, poi con qualche esitazione mi diressi verso il quadrato grigio di luce dall’altra parte della stanza e lo aprii. Il suono tagliò come una lama la rigida aria autunnale: «Poc poc poc… booong… poc poc poc». Mi chinai e infilai la testa nell’apertura, e sotto di me vidi il chiarore burroso di una lampada a cherosene che scivolava sul pontile. La luce era offuscata da una bassa nebbia, che d’altro canto sembrava amplificare il rumore. La lampada si fermò, sospesa nel nulla, luccicante come un batuffolo di iridescenza notturna – «Poc poc poc» – poi avanzò di qualche metro e tornò a fermarsi: «Deeeng». Mi ricordai di quando mormoravo nel letto la quinta di Beethoven, «Poc poc poc deeeng!» SOL SOL SOL MIII! E poi mi ricordai che era Hank che scendeva sulla banchina prima di coricarsi e si faceva tutta la passerella di legno scivoloso di rugiada con un martello in una mano e una lampada nell’altra, e giù a tirar colpi ad assi e cavi per capire dal rumore se la costante trazione del fiume aveva smosso un cuneo, o se c’era un cavo mangiato dalla ruggine…
Un rituale notturno, ricordai, questo calvario di puntellare il pontile. Un forte sollievo e una nostalgia mi colsero e, per la prima volta da quando avevo messo piede in quella vecchia stamberga cigolante, fui in grado di apprezzare in una certa misura il chiassoso umorismo della situazione e abbandonarmi a esso. (Sposta lo sguardo dalla luce nel muro alla finestra…) Il rumore provocò in me un turbine variopinto di fantasie di vecchi fogli di giornale ammuffito – non i consueti incubi che accompagnavano il frastuono dei camion per il trasporto dei tronchi, ma fantasie di natura molto più gestibile. Di notte ero solito immaginare di perire in una prigione infernale, condannato per atti che non avevo commesso. E fratello Hank era il fido secondino, che faceva il giro delle celle strisciando l’onnipresente manganello sulle sbarre come nei film polizieschi con Jimmy Cagney. Si spengono le luci! Si spengono le luci! Clangore riecheggiante di cancelli elettrici; sirena del coprifuoco. Seduto alla mia scrivania, al lume proibito di una candela trafugata in precedenza, davo forma a elaborati piani di evasione in cui figuravano mitragliette rubate, frazioni di secondo ben sfruttate e baldanzosi sodali che rispondevano a nomi quali Johnny il Lupo e Grande Louie e il Braccio, che a un mio segnale, un colpetto su un tubo, scattavano sull’attenti: ora zero. Rumore di passi che attraversano di corsa il cortile buio. Riflettori! Urla di sirene! Due figurine bidimensionali vestite di blu spuntano in cima a un muro e iniziano a mitragliare sul fuggi fuggi generale, facendo una carneficina. Ringhiando i detenuti battono in ritirata. Evasione sventata. O così parrebbe a prima vista. Ma è solo uno stratagemma; il Lupo, il Grande Louie e il Braccio si sono sacrificati, era una semplice manovra diversiva, mentre io – e mia madre – percorriamo già il tunnel sotto il fiume che ci condurrà verso la libertà.
Risi un poco di quel baluginante teatrino e del sognatore che l’aveva plasmato (ritira la testa – «Come no, un tunnel sotto il fiume; verso la libertà» – dal freddo della notte fragrante di pino affumicato per reimmergersi nell’odore di naftalina e topi…), dopodiché iniziai a guardarmi intorno nella stanza per vedere di trovare altre vestigia del piccolo drammaturgo o della sua creazione. (Non riesce a chiudere la finestra, che resta spalancata. Rinuncia e torna a sedere sul letto…) Non scovai nient’altro che una scatola di vetusti fumetti sotto il davanzale. (Sgranocchiando la costoletta fredda e una pera guarda dritto davanti a sé, verso la finestra ancora aperta. L’odore di pino bruciato lo raggiunge, gelido, oscuro…) Rimasi seduto sul letto per qualche tempo a chiedermi quale sarebbe stata la mia prossima mossa, sfogliando nel mentre alcune delle avventure contornate di nero di Plastic Man, Superman, Aquaman, Hawkman e, naturalmente, Capitan Marvel. C’erano più Capitani Meraviglia in quella scatola di quanti ce ne fossero nell’assortimento di altre meraviglie al completo. (Posa il piatto sul pavimento, prende la giacca dal letto e si sporge a drappeggiarla su una sedia; mentre raddrizza la schiena, il nastro di luce che si era impegnato tanto a evitare lo coglie in piena faccia…) Il mio unico grande eroe, Capitan Marvel, superava ancora di una spanna i successivi Amleto e Omero (La luce lo incanta – «Un tempo immaginavo il perfido Sir Mordred fare del proprio meglio per catturare quel guizzante saccheggiatore del suo castello. Il valoroso Sir Leland di Stanford, che conosce ogni cunicolo segreto e ogni scalinata di pietra nascosta, dalla torre più alta all’ultima sgocciolante segreta» – gli inchioda il volto e lì lo tiene come una maschera di scena riflessa da specchi nascosti…), e resisteva come mio preferito nella lista dei superbravi. Perché Capitan Marvel non era Capitan Marvel per tutto il tempo. No. Quando non se ne andava in giro volando a sbattere teste di cattivoni una contro l’altra, era un ragazzino sui dieci, dodici anni di nome Billy Batson, un’inconcludente canaglia pelle e ossa che alla bisogna poteva trasformarsi, accompagnato da fulmini e lampi, in un colosso con tanto di fossetta sul mento praticamente capace di qualunque cosa. (Siede per un tempo assai lungo, guardando la luce irrompere dal foro nel muro. All’esterno il rumore prosegue con il ritmo folle e incalzante di una litania voodoo… «Un tempo danzavo sul crepitare degli elettrodi e cantavo con gli interruttori, che scattando animavano golem dalle gambe rigide». E il resto della stanza in penombra sfuma alla sua vista…) E per innescare la trasformazione quel ragazzino non doveva fare altro che pronunciare la sua parola, Shazam, dove S stava per Salomone, quindi sapienza; l’H per Hercules, Ercole, la forza, e così via, Atlante, Zeus, Achille e Mercurio. «Shazam». Mormorai la parola nella stanza gelida, sorridendo ma pensando: forse il mio eroe non era Capitan Marvel; forse il mio eroe era Billy Batson con la sua parola magica. Ci avevo provato, a trovare la mia parola, la mia frase magica che all’istante avrebbe fatto di me una creatura gigantesca e invulnerabile… (Infine anche il resto della stanza svanisce. Resta soltanto quel foro luminoso, come una stella solitaria che implode in un cielo nero assumendo le dimensioni di una nova – «Un tempo intrecciavo afgani ectoplasmici dal fine effluvio rilasciato al passaggio di Uomini Invisibili…».) Che fosse questo che ancora andavo cercando? La mia parola magica? (La luce lo chiama, lo tira su dal letto…)
Un’intrigante pensata; e mentre mi chinavo a esaminare la pagina più da vicino, capii da dove proveniva la luce che illuminava il giornaletto: dal foro. Da quel foro dimenticato nel muro che in passato era stata la mia lente sui fatti più duri e scabrosi della vita. Il foro che dava sulla stanza di mia madre. (Scivola piano sul pavimento, con i piedi avvolti nei calzini. «Ero più basso». Dall’occhio il pallino di luce gli cola giù per la faccia, e dalla faccia al collo – «Ero più basso quando avevo dieci anni e venivo svegliato nel mio pigiama di flanella dai lupi mannari accanto» – dal collo al petto, rimpicciolendo sempre di più finché non si trova davanti alla parete e il punto è una moneta d’argento che ha in tasca…)
Rimasi a osservare il foro luminoso all’altro capo della stanza. Mi stupiva che Hank non l’avesse ancora tappato, e per un attimo mi convinsi che si fosse premurato di farmelo ritrovare, così come si era premurato di preparare la stanza per il mio arrivo. E magari, magari!, si era premurato anche di preparare la stanza accanto! (Sfiora il bordo lucente della piccola apertura, saggiando le imperfezioni lasciate dal coltello da carne, adesso lisce come se il passaggio della luce ne avesse smussato le schegge – «Conoscevo ogni singolo nodo nel legno…») Provavo un’ansia particolare. E per un attimo non vidi altra soluzione (inginocchiandosi: «Da qui ho visto–») che costringermi a dare la sbirciatina (inginocchiandosi, tremante di freddo: «Da qui ho visto cose orribili–») che mi avrebbe confermato quanto fossero folli i miei timori. («…ho visto cose ah!… Ahhh».) Ma un’occhiata fu più che sufficiente. Sospirai e mi riavvicinai al letto per prendere la mia pera e i miei biscotti. Consumai tutto allegramente, rimproverandomi per quell’insensata trepidazione e rammentandomi che per fortuna il tempo non aspettava nessuno, nemmeno uno schizofrenico con disturbo delirante…
Perché la stanza non ricordava assolutamente quella che un tempo occupava mia madre.
Mi rimisi seduto sul letto per un lungo, affatto decisivo istante, sentendomi piuttosto svuotato – il viaggio interminabile, la frenesia dei saluti e ora questa stanza – ma non abbastanza per tenere a freno una curiosità bruciante: dovevo senza meno dare un’altra occhiata alla stanza della nuova signora del maniero. (Trascina una sedia fino alla parete per stare più comodo durante l’operazione di spionaggio. Seduto, però, scopre di essere troppo basso, così accosta lo schienale della sedia alla parete e a quel punto riesce a trovare una posizione ragionevolmente comoda, e all’altezza giusta, mettendosi in ginocchio sulla seduta di vimini. Dà un altro morso alla pera e si china sul foro…)
Dalla stanza erano scomparsi i mobili appartenuti alla madre, le sue fotografie, le tende e i cuscini ricamati. Mancavano le file di boccette fragranti, sfaccettate, che stavano allineate sul suo comò (enormi gemme colme di pozioni d’amore oro-ambra), e mancava il grande letto con la testiera d’ottone lavorato che si ergeva maestoso sopra di lei (canne di un grottesco organo accordato sulle arie della lussuria). E le poltroncine (tappezzate di viscosa rosa dall’odore dolciastro) e la toletta (era solita spazzolarsi le lunghe ciocche nere davanti allo specchio) e il reggimento di animali di peluche (che vestivano i colori dell’università e dai bottoni degli occhi assistevano a mo’ di tifosi della squadra avversaria…): mancava tutto. Perfino le pareti erano diverse: il pallido ed effimero malva era stato abbandonato in favore di un bianco smagliante. Della sua stanza non c’era più nulla… (Eppure mentre osserva non può fare a meno di percepire che qualche sottile parte della sua personalità ancora aleggia in quel luogo. «Con ogni probabilità un oggetto, un qualche oggetto che custodisce il ricordo di una mobilia che non è più; così come il martellare custodiva il ricordo di una notte passata». Si guarda intorno nella piccola stanza per scovare quel piccolo dettaglio ammantato di nostalgia.)
Ora che mi ero sbarazzato dell’insensata angoscia che mi dava il cubicolo accanto al mio, ero impaziente di saperne di più della sua occupante. La stanza era decorata con sobrietà, al limite dello spoglio, del vacuo; ma era una vacuità calcolata, una vacuità da stampa orientale. Niente a che vedere con il pizzo e gli svolazzi della mamma. Su un tavolo comparivano una macchina per cucire e una lampada, e su un altro più piccolo vicino al sofà campeggiava uno snello vaso nero pieno di foglie d’acero rampicante marrone e scarlatto. Il sofà altro non era che un materasso posato su una base di legno, base ricavata da una porta provvista di un set di gambe in ferro battuto; di sofà così se ne vedevano a centinaia negli appartamenti del Village, ma mi avevano sempre ispirato un senso di povertà ostentata, niente a che vedere con la pura, deliberata semplicità di quel pezzo.
Al tavolo, sotto la macchina per cucire, era accostata una sedia; una libreria, fatta di mattoni e assi di legno pitturate di grigio chiaro, esibiva una malandata selezione di volumi dalla copertina rigida e non; il pavimento era parzialmente coperto con un tappeto intessuto dalle tinte vivaci. Oltre a questo tappeto e al vaso di foglie, gli unici ornamenti presenti nella stanza erano ciò che all’apparenza si sarebbe detto un cocomerino di legno sopra la libreria e un grosso ramo portato dalla corrente, che si allungava per tutta la parete in comune con la mia fino a uscire dal mio campo visivo.
(La stanza ha un che di tana, riflette; di rifugio dove qualcuno – una femmina, senza dubbio… anche se non saprebbe dire con precisione che cosa la renda così inequivocabilmente femminile – si reca per leggere, cucire, per stare da solo. Ecco. Questo ha in comune con la vecchia stanza della mamma; anche la sua aveva un che di santuario, di torrione del castello dove concedersi qualche momento di sollievo dall’orrifico lerciume dei piani bassi. È lo stesso tipo di luogo, una sorta di Terra Oltre l’Arcobaleno, dove un’anima stanca può rinfrancarsi al canto di uccelli azzurri e i guai si dissolvono come gocce di limone sopra i comignoli… là mi troverai…)
Stabilii seduta stante che la stanza doveva appartenere al fiorellino di campo di mio fratello Hank. Chi altri poteva averla addobbata così? Di certo non un uomo. E nemmeno quella specie di tubero che avevo conosciuto al piano di sotto. Doveva trattarsi della moglie di Hank; bisognava riconoscere al diavolo ciò che gli spettava, per dura che fosse immaginarselo accompagnato da siffatta creatura. (Scosta l’occhio dal foro e resta un pezzo seduto con la fronte appoggiata al legno freddo; perché meravigliarsi che Hank abbia per moglie una donna tanto straordinaria? Sarebbe strano il contrario. Perché lui ha trovato la sua parola ed è–)
E mentre sedevo nell’oscurità, a ruminare la mia pera ragionando di Hank, di eroi e di come trovare la mia parola magica… (la seduta di corda intrecciata all’improvviso cede…) sentii una voce chiamare dall’altra parte del fiume. (Lui precipita aprendosi il mento sullo schienale della seggiola…) Era una voce di donna (l’incantevole gorgheggio udito in sogno; cade da una parte, con le ginocchia incastrate nello scheletro della sedia…) che mi scivolava incontro attraverso la finestra, sospinta dall’aria gelida e nebbiosa. La udii ancora una volta, e poi sentii il rombo della barca a motore pronta a raggiungerla sull’altra sponda. (Da sdraiato riesce a districare le gambe dalla sedia… si rialza e si precipita di nuovo alla finestra…) Dopo qualche istante udii la barca fare ritorno e due paia di piedi scalpicciare su per lo scivolo di legno. Era il fratellone, e qualcosa lo agitava. Passarono proprio sotto la mia finestra…
«… ma tesoro, te l’ho già detto, non possiamo straziarci l’anima perché una come Dolly McKeever, o se è per questo quel vecchio butterato che si ritrova per marito, ha messo bocca su come gestisco la mia attività. Non sto mica qui a costruire casette per gli uccelli, io».
L’altra voce sembrava sull’orlo delle lacrime. «Dolly McKeever ha detto solo di domandarti».
«Bene, e l’hai fatto. La prossima volta puoi dirle che hai domandato».
«Non ci sarà una prossima volta. Io proprio non ce la faccio– Non le sopporto più queste cattiverie. E da gente che non– non–»
«Oh Cristo, dai, su. Non incaponirti, adesso. Te la caverai. Non manca molto».
«Non manca molto? Ma se non s’immaginano neanche! Che succede quando Floyd Evenwrite sarà di ritorno? La può fare una copia di quel rapporto, no?»
«Sì, sì».
«Lo dirà a tutti–»
«Ho capito, e tutti sapranno. Nessuna delle signore di qui è mai stata eletta Regina di maggio. Ma se ne sono fatte una ragione… Dovevi sentirle le cattiverie che dicevano, per esempio, alla seconda moglie di Henry o–»
A stento udii la risposta della ragazza – «Forse dovrei…» – poi la porta d’ingresso si chiuse sulla conversazione. Nel giro di poco mi giunsero dei singhiozzi dalla stanza accanto. Trattenni il respiro, in attesa. La porta si chiuse e sentii il mormorio supplichevole di Hank. «Scusa, micetta. Ce l’avevo con McKeever, mica con te. Dai, vieni a letto, ci ragioniamo domattina. Domattina andrò a scambiare due parole col vecchio. Dai, Viv, ti prego, micetta… Dai…»
Facendo meno rumore possibile mi rimisi a letto e mi coprii, e per lungo tempo ascoltai il mormorio stanco, irritato e tutt’altro che eroico di Hank nella stanza accanto. (Chiude gli occhi con un sorriso leggero. «Credevo che nel suo regno a fumetti non avesse pari: c’era un solo e unico Capitan Marvel e il piccolo Billy era il suo profeta…») E ripensai a quel difetto che avevo notato nel suo modo di nuotare. Piagnucolone e zoppo: erano le prime due prove che avevo raccolto finora per convincermi che quell’uomo non valesse poi tanto, e che non sarebbe stato così difficile superarlo o abbatterlo quando fosse giunta l’ora. («Ci ho provato. Con gli occhi chiusi in atto di preghiera avevo esaurito ogni pronuncia possibile del magico Shazam, prima di arrendermi all’evidenza che nessuno, figurarsi il sottoscritto, poteva sperare di contendere quella prerogativa al potente Gigante Arancione con la fossetta nel mento e le brachette…») E che non avrei fatto fatica a trovare – non stavolta, al secondo tentativo – («Ci ho provato…») la mia parola magica. («Ma finora non mi era mai passato per la testa… che magari non solo pronunciavo lo Shazam sbagliato, ma che sbagliata era anche la fonte da cui mi aspettavo il fulmine…») E mi addormentai sognando di volare anziché precipitare…
Nella stanza accanto a quella di Lee, sola soletta e imbronciata, Viv si spazzola i capelli prima di coricarsi: forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa prima di lasciarlo andare a letto in preda alla furia, solo per fargli capire che non le interessava sul serio ciò che aveva da dire Dolly McKeever – o il suo vecchio butterato… ma… perché una volta tanto non può vederla come me? Poi si rimprovera quell’eccesso di autoindulgenza e si alza a spegnere la luce.
A Wakonda l’Agente Immobiliare termina di intagliare la sua statuina e la sistema a fianco delle altre: be’, perdiana, il volto stavolta non fa pensare a quel generale – sebbene si evinca qualcosa di familiare nei tratti, di irrisoriamente familiare, di spaventosamente familiare – e sente il coltello da scalco inumidirsi nel palmo sudato.
A Portland Floyd Evenwrite riversa il suo consumato turpiloquio sul galoppino del sindacato, che non ha fatto una copia e non potrà compilare il rapporto prima di due settimane perché il mattino seguente lo ricovereranno in ospedale per rimuovergli un’ernia… brutta serpe traditrice!
E Simone si addormenta davanti alla Vergine illuminata dalla fiamma della candela, certa che la statuina di legno non dubiti della sua purezza, ma la ritenga più che mai avvinta dal dubbio. E Jenny si alza dal letto con un dolore allo stomaco e getta gli avanzi dei suoi tre rospi bolliti nel vaso da notte, e la sua copia illustrata di Macbeth nella stufa. E il vecchio tagliaciocchi, dopo tanto strepitare di là dal fiume e un bel po’ di torcibudella, non riconosce più che la voce che lo chiama è la sua. E salgono i rampicanti e sale l’acqua; la muffa invade lo zerbino dove Hank ha lasciato le sue umide impronte; e come uccello rapace dalle piume lucenti si aggira il fiume tra i campi.