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In vetta

 

«La questione del razzo rosso è in effetti – a pensarci bene – di scarsissima rilevanza, e questo che sia vera l’una oppure l’altra versione. In nessun caso avrebbe potuto o dovuto significare che Günther Messner avrebbe partecipato all’impresa.»

Karl Maria Herrligkoffer,
«Dolomiten» (quotidiano, Bolzano), 7 ottobre 1970

 

 

«Tutti i campi erano presidiati. Ognuno dei partecipanti faceva del suo meglio affinché la salita fosse coronata dal successo. Addirittura Peter Vogler, che era stato male a lungo, affrontò nuovamente la parete per non fare mancare il suo contributo.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«Il dottor Karl Maria Herrligkoffer è stato sempre aspramente criticato, tuttavia in difesa del suo onore mi preme ricordare che fu proprio quest’uomo ostinato e caparbio che nel corso di decine di anni ha offerto a numerosi giovani e validissimi alpinisti di lingua tedesca l’opportunità di cimentarsi a un livello assai elevato. Era inevitabile che nelle spedizioni di Herrligkoffer, durante le quali era quasi sempre in gioco la sopravvivenza dei partecipanti, si verificassero dei contrattempi. E allo stesso modo che in tali situazioni caratteri differenti arrivassero a uno scontro.»

Ruald Naar

 

Ora è in piedi su una cupola di ghiaccio, sulla vetta del Nanga Parbat. Si guarda in giro.

Günther è seduto più in basso e fotografa. Adesso lo raggiunge, passo dopo passo. Arriva su, si sfila uno dopo l’altro tutti i guanti a manopola che indossa, e allunga la mano al fratello. Sono entrambi sulla cupola di neve. Si vede la nebbia che scorre a banchi, non si sente niente. Il volto di Günther. Radioso.

Questa immagine fa sì che il tempo trascorso sulla vetta sia per me meraviglioso. I suoi occhi li vedo ancora oggi, come allora. Non so per quale motivo si fosse tolto anche gli occhiali.

I due scambiano qualche parola, indicano la Sella d’Argento, sotto di loro.

Dal momento che non eravamo mai stati su un ottomila ci comportammo come abbiamo sempre fatto. Stretta di mano, guardarsi in giro, mi sorprese il fatto che Günther mi desse una pacca sulla spalla.

Günther: Complimenti.

Non riesco più a ricordare cosa esattamente gli risposi.

Dalla Sella d’Argento di nuovo si levano banchi di nebbia, a occidente in un qualche punto deve esserci il sole. Lo si intuisce dal colore delle nuvole.

Adesso tante persone ripetutamente mi chiedono l’ora esatta in cui arrivammo alla vetta. Io direi verso le cinque, e questa mia risposta li sconcerta, poiché non ne sono sicuro al cento per cento. Con questa gente non posso parlare delle sensazioni provate in quei momenti, non posso parlare delle nebbie e dei nostri occhi lucidi, senza invece fornire alcun dato preciso. Gradi di difficoltà, lunghezze, tempi, questo vogliono sapere, magari qualche informazione circa l’attrezzatura e il materiale fotografico.

Poco dopo Reinhold fissa alla sua piccozza il guidoncino della «Hochgebirgsgruppe Bozen».

Ci fotografammo a vicenda, ci guardammo intorno, ci trattenemmo un’ora.

Decisi a riprendere il cammino, Reinhold tenta di rinfilarsi i grossi guanti norvegesi. Sono talmente congelati che non riesce assolutamente a farli scorrere sopra le altre due paia. Dato che ne ha un paio di riserva, depone sulla roccia più vicina i due guanti resi un ammasso unico dal gelo, a ovest della cupola della vetta, poi li fissa con qualche pietra.

Avevamo costruito il nostro ometto che segnalava la vetta del Nanga Parbat.

Günther sorride di quell’ometto. Che scopo ha, vorrebbe chiedere. Tanto prima o poi una tempesta lo spazzerà via.

Quella sera ancora non sapevo che quelle manopole avrebbero costituito l’unica prova della nostra salita alla vetta. In quel momento mi rendevo solo conto che i grandi uomini sono sempre in cerca di prove, motivo per il quale avevamo scattato tutte quelle foto.

Günther e Reinhold pochi metri al di sotto della vetta. Hanno iniziato la discesa. Si girano a guardare un’ultima volta.

Il giorno dopo Felix e Peter hanno trovato i miei guanti, per caso, li avevano presi per un brandello di stoffa. Ma ciò nonostante ci sono stati individui che hanno messo in dubbio la nostra salita alla vetta, dal momento che tutte le foto sono andate perse. E se io a queste persone dicessi che la dimostrazione della nostra salita sta nella nostra stretta di mano, nelle pacche sulle spalle e nelle nostre risate di gioia, nel fatto che in discesa ci siamo voltati ancora una volta a guardare, allora probabilmente alzerebbero le spalle e pretenderebbero foto dimostrative. Ma se uno queste immagini le ha nella testa, questo significa che lassù ci è stato. E inoltre, se il giorno dopo qualcuno trova sulla vetta una traccia, appunto i nostri guanti, questo costituisce una dimostrazione del fatto che lassù siamo stati. Se infatti sulla vetta hanno trovato un paio dei nostri guanti, per forza noi dobbiamo aver lasciato sulla vetta un paio dei nostri guanti, e se sulla vetta abbiamo lasciato un paio dei nostri guanti, sulla vetta dobbiamo per forza esserci stati. Questa spiegazione è troppo semplice. È una spiegazione da bambini. I grandi uomini non la capiscono. I guanti erano attribuibili a noi, il loro ritrovamento li ha resi attribuibili alla vetta, la conseguenza logica è: la vetta è attribuibile a noi.

È così che abbiamo imparato a ragionare a scuola. Ma anche così per alcuni grandi uomini è troppo semplice.