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I primi esseri umani

 

«Nel frattempo Kuen e Scholz erano rientrati al campo base. Avevano portato a termine la salita alla vetta e la discesa, senza intoppi. Il loro racconto dei miei tentativi di stabilire un contatto provocò l’irritazione del capo spedizione, la sua conclusione – i Messner devono essere morti lassù – è comprensibile.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«Reinhold abbandonò il campo V il giorno 27 giugno alle ore 3.00. Alle ore 4.00 Gerhard e Günther avrebbero dovuto attrezzare il primo tratto del canalone Merkl.»

Felix Kuen

 

 

«Dopo cinque giorni passati senza mangiare, senza avere un ricovero protetto, alla fine senza un interlocutore, crollai e persi conoscenza.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«Mentre al campo base stavano già organizzando il rientro, io finalmente mi ritrovai fra esseri umani.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«A tenermi in vita nella valle Diamir furono innanzi tutto alcune donne. Gli uomini mi aiutarono solo alla fine.»

Reinhold Messner, 2009

 

Reinhold scende lungo il pascolo, si ferma alla capanna vicino al masso e di nuovo chiama. Nessuna risposta. Lancia un sasso sul tetto. Senza esito. Procede, è incerto. Si ferma nel punto dove prima aveva visto l’uomo. Si odono colpi regolari. Da qualche parte qualcuno sta tagliando la legna.

Mi diressi verso la fonte di quel rumore, vidi tre uomini impegnati a fare legna.

Reinhold: Sindabad!

Non rispondono.

Reinhold: Salem aleikum!

I tre lo guardano stupiti.

Tutti e tre: Salem.

Reinhold si avvicina e cerca di parlare inglese con loro. Non capiscono niente. Appare chiaro dai loro sguardi. Reinhold si siede vicino a un albero abbattuto. Due di loro si accovacciano vicino a lui, uno resta in piedi. Continua a scuotere la testa.

Reinhold: Nanga Parbat... Tap... Nanga Parbat qui. Prende un sasso e lo depone in un punto a terra. Con il dito traccia la sua via di salita e la discesa sul versante Diamir. I tre lo fissano, non capiscono. Quello in piedi fa il segno «uno» con il pollice. Vuole sapere se Reinhold è solo.

Come avrei fatto a spiegare che eravamo in due, che c’era anche Günther.

Reinhold fa il segno «due» e chiude gli occhi.

Capirono e abbassarono lo sguardo.

Reinhold si sforza di spiegare altri dettagli, usa il linguaggio dei gesti, traccia segni sul terreno.

Un poco alla volta compresero varie cose. Lo intuii dai loro sguardi. Dopo un’ora capirono anche che ero affamato.

Gli danno un pezzo di pane.

Il primo cibo dopo tre giorni di digiuno.

Dopo un po’ decidono di andare via. Fanno segno a Reinhold di unirsi a loro. Vanno verso valle percorrendo un sentiero stretto. In qualche modo Reinhold li segue. Fa fatica a stare dietro ai tre, benché loro siano molto attenti e si fermino spesso ad aspettarlo. Traversano il ruscello e arrivano a una specie di cascina. Fra gli alberi ci sono alcune capanne, mentre parecchie capre di taglia piccola corrono su un prato, insieme ad altrettanti bambini. Al centro un asino che raglia.

Ebbi la sensazione di essere a casa, in mezzo a tutta quella gente. L’unico pensiero che mi inquietava era che nessuno era ancora passato di lì e che a casa i miei non sapessero niente.

I taglialegna parlano con altri uomini continuando a indicare con il dito Reinhold, che sembra perso in mezzo ai bambini.

Lo conducono sotto un grande albero davanti alle capanne. Uno di loro stende un telo in terra. Reinhold si siede, sistema il suo fagotto a mo’ di cuscino, si sfila gli scarponi e li appoggia di fianco al telo.

Nel frattempo molti ragazzini si sono radunati intorno a lui, stanno lì accovacciati. Lo osservano. Continuano ad aumentare. Alcune donne e ragazze si affacciano alle soglie delle casupole. Qualcuno porta del latte. Reinhold in un fiato ne beve un bicchiere.

Il latte era acido.

Reinhold: Good. Thank you, very good.

Nessuno lo capisce. Gli danno un pezzo di chapati. Inizia a masticare. Cerca di spiegare la sua situazione. A gesti.

Ci volle parecchio perché capissero da dove venivo.

Qualcuno scuote la testa incredulo. Nel capannello di persone viene continuamente ripetuta la parola «Nanga Parbat».

Reinhold: Tap. Base Camp.

Uno annuisce, sembra aver capito. Reinhold indica oltre le montagne e usando indice e medio simboleggia una persona che cammina.

Reinhold: Din?

Din significa giorno, l’avevo imparato dai nostri portatori.

Quanti giorni, vuole sapere, e con le dita indica uno, due, tre, quattro... Il suo sguardo è interrogativo. Visi curiosi, nessuno annuisce. Reinhold depone un sasso a terra. Lo indica con il dito.

Reinhold: Nanga Parbat.

Tutti annuiscono.

Traccia un piccolo cerchio in terra, nella polvere, vicino al sasso.

Reinhold: Tap. Base Camp.

Tutti annuiscono.

Traccia un secondo cerchio.

Reinhold: Diamir.

Tutti annuiscono.

Unisce i due punti con un arco sulla destra del sasso e rivolge uno sguardo interrogativo ai suoi interlocutori.

Mi sembrava di essere a scuola.

Uno mi fa segno «due» con la mano. Vuole significare due giorni. Un altro scuote la testa e indica i piedi di Reinhold.

Due giorni, ma con i piedi in quello stato, voleva dire, è impossibile. Allora meglio andare a Bunar, pensai.

Uno indica l’orologio di Reinhold.

Mi sentii orgoglioso di poter mostrare loro il mio orologio.

Primo piano sull’orologio. È rimasto fermo al 29.

Allora oggi dev’essere il primo, e gli altri dovrebbero essere qui da un pezzo, pensai.

Reinhold carica l’orologio. Con la mano sinistra. Fa suonare la sveglia. Stupore generale. Un ragazzino gli dà una gomitata, come segno d’intesa. Vorrebbe avere quell’orologio. Reinhold lo allunga a un vecchio che si perde nell’osservazione del marchingegno magico. Ci gioca come un bambino gioca col trenino elettrico. Vorrebbe comperarlo. Reinhold scuote la testa.

Mi servirà ancora, pensai, per pagare la jeep fino a Gilgit.

Si rimette l’orologio, si sdraia. Nel frattempo è calata la notte. Viene acceso un fuoco. Non si parla molto. Quando si addormenta, gli altri scompaiono uno dopo l’altro nelle capanne. Resta un mucchietto di brace.

Devo aver dormito bene per un tempo piuttosto lungo.

È notte. Reinhold dorme sotto l’albero. Silenzio. Vengono inquadrati dei piedi nudi. Camminano lentamente, come se l’uomo al quale appartengono non volesse farsi sentire. I piedi si fermano vicino a Reinhold. Si vede una sagoma piegata. Mani che armeggiano intorno al braccio di Reinhold abbandonato al suolo. Dita che cercano di sfilargli l’orologio. All’improvviso Reinhold ritira la mano. L’uomo scappa via. Reinhold si toglie l’orologio e lo infila in tasca.

Non avrei dovuto farglielo vedere la sera prima.

Rami si stagliano contro il cielo scuro. È come se le stelle fossero appese a questi rami per il resto spogli e che si protendono verso la notte come braccia tese per lo spavento. Orione è già in parte nascosta. Reinhold guarda verso l’alto mentre resta sdraiato, tranquillo.

Gli avvenimenti dei giorni appena trascorsi mi vorticavano nella testa.

Anche le stelle ruotano fra i rami.

Non riuscii più a dormire e mi sembrò di ruotare con le stelle.

I rami appartengono a vari alberi che lo circondano. Si vedono i tronchi. Sono tre.

Continuavo a pensare che fosse lì sdraiato accanto a me.

Dal suo viso si capisce che sta gelando. Il vento si è fatto freddo.

Risvegliava dentro di me una serie di collegamenti di pensiero.

Un poco alla volta rischiara. L’ultima stella.

Ho perso mio fratello. Non ne ero consapevole in ogni momento, ma il pensiero continuava a tornare.

Il viso di Reinhold. Gli occhi chiusi. La bocca semiaperta. Dorme.

Quando mi risvegliai intorno a me c’era un sacco di gente. Non capivo bene cosa volesse.

È mattina. Scarponi, qualche indumento, una piccozza in terra. Reinhold si alza, sembra cercare qualcosa, non la trova. Si siede e per un po’ osserva i suoi piedi. Primo piano sui piedi: le dita sono completamente blu. Si infila la scarpetta interna, poi il guscio esterno...

Durante la notte mi hanno portato via pure i calzettoni.

Prende un pullover, la biancheria di angora, un berretto che ha nella tasca della giacca, e allunga il fagotto a un ragazzino. Che capisce immediatamente.

Mi avrebbe accompagnato.

Ottiene in cambio un paio di guanti e la pila frontale, sembra soddisfatto. Reinhold si alza appoggiandosi all’albero, compie qualche passo di prova. Perde l’equilibrio e quasi finisce a terra. Agguanta stretto il braccio del portatore. Per un attimo vacillano entrambi. Il portatore lo sostiene. Camminano affiancati. Reinhold compie passi molto cauti, di tanto in tanto zoppica. Il portatore è sempre un passo davanti a lui. Si fermano.

La mia piccozza, d’un tratto mi resi conto che non l’avevo più.

Ad alta voce Reinhold insulta gli altri. Fa il gesto di battere in terra. Passa poco tempo e qualcuno porta la piccozza. Gliel’avevano sottratta mentre si vestiva. I due proseguono, traversano il ruscello, e li si vede scomparire nel bosco.

Ci stavamo dirigendo verso Diamir. Doveva essere il 2 luglio.

Un sentiero impervio. Il ragazzo di prima indossa la giacca a vento blu e ha in mano la piccozza. Deve continuamente aspettare Reinhold che resta indietro. Due ragazzini sorpassano Reinhold correndo. Ognuno di loro porta sulla schiena un fascio di legna. Si fermano e si siedono. Il più piccolo probabilmente non ha ancora otto anni e già trasporta ben più di dieci chili. Anche il portatore si siede vicino ai due fratellini sotto un albero. A fatica Reinhold scende lungo il sentiero e impacciato si siede. Il portatore gli fa segno di no. Sa bene quanto sarà difficile per lui rimettersi in piedi.

Reinhold è seduto. Gli altri parlano fra loro. Dal basso arrivano delle donne. Indossano manti lunghi annodati intorno alle caviglie. Camminando compiono un piccolo arco intorno a Reinhold. Una di loro trasporta una tanica d’acqua.

Come posso farle capire che ho sete?

Reinhold imita il gesto del bere. I ragazzini hanno inteso e vanno a parlare con le donne. Che esitano. Dopo un attimo mandano avanti una ragazzina con la tanica. Con le braccia tese gliela porge. L’acqua è sporca, ha un colore lattiginoso.

Non bisogna bere l’acqua quando è così.

Reinhold beve. Tanto. Annuisce in segno di ringraziamento e restituisce la tanica. Le donne riprendono il cammino. Di continuo si voltano a guardare. Ridono.

Io non mi sentivo proprio in vena di ridere.

Più in basso si vede un villaggio. Una dozzina di capanne, più o meno. Qualche campo, qualche prato. A terrazze. Un sentiero che conduce al villaggio e uno che ne esce. Reinhold si ferma e osserva.

Reinhold: Diamir?

Con un bastone indica le case. Il portatore annuisce.

Un’ora più tardi arrivammo al paese. Era ancora pomeriggio presto.