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Diamirai

 

«Anche nelle situazioni peggiori possiamo rialzarci, se non perdiamo la speranza. Alla fine, oltre all’istinto di sopravvivenza, fu il dovere di non perdere la vita, un dovere che provavo nei confronti dei miei genitori, che mi fece tener duro.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«I due Messner, R. e G., sono spariti. Alle ore 20.00 G. Baur inizia la discesa, dal momento che è afflitto da un brutto mal di gola.»

Felix Kuen

 

 

«Scendere dalla montagna per una via sconosciuta appariva un’impresa impensabile. Tutti erano convinti che la traversata del Nanga Parbat senza attrezzatura da bivacco e da arrampicata fosse impossibile. Anche nel caso fosse stata programmata in precedenza (...)»

Reinhold Messner, 2002

 

 

«Benché fossi distrutto – mio fratello era morto, avevo sofferto congelamenti, atrofia muscolare, alla fine anche disturbi intestinali – non persi mai del tutto la speranza di tornare a casa. E questo mi ha aiutato a sopravvivere.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«Dopo la notizia del raggiungimento della vetta da parte di Kuen, né lui né nessun altro era in grado di dire dove potessimo essere finiti io e Günther.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«Da quel momento non ci sono notizie sicure dei due.»

Felix Kuen

 

La piazza del paese a Diamirai. Viene portata una barella per Reinhold. Bambini, uomini e ragazzi gli stanno intorno. Dopo poco tempo gli portano del tè. Vogliono sapere da dove viene. Di nuovo Reinhold prende un sasso e spiega tutto, come ha già fatto con i boscaioli. Adesso però è più esercitato a farlo. Pronuncia qualche parola, mostra i luoghi utilizzando il sasso e gli altri capiscono. Reinhold si sdraia per dormire.

Che duro!

La barella. Quattro piedini, un’intelaiatura, una rete di spesse strisce di pelle intrecciate.

Mi sentivo come un fachiro. Ero dimagrito e ridotto pelle e ossa.

Reinhold si sdraia sulla nuda terra. È tormentato. Mette la giacca a vento sotto la testa.

Mi ero ormai abituato al sudiciume.

 

Al campo base si sta ancora sistemando l’attrezzatura. L’impressione che si ha, è che si intenda partire il giorno successivo.

 

Reinhold è sdraiato a terra, all’aperto, e dorme. – Il cielo è coperto. Le cicale friniscono nei gelsi.

Reinhold è a terra. Qualcuno lo aiuta ad alzarsi. Cerca di muovere qualche passo. Cade. Qualcuno cerca di prenderlo in spalla. Reinhold tenta di respingere il soccorso offerto.

Tutto il corpo mi faceva male. La pressione che avvertivo sul petto era quasi insopportabile già da giorni. Per più di dieci ore ero stato sulla schiena ossuta del portatore.

Lo lasciano stare in piedi. E adesso?

Volevano capire se veramente non ero più in grado di camminare autonomamente.

Non lo è. Si siede e fa intendere che c’è bisogno di una lettiga. Non capiscono, restano lì, indecisi sul da farsi. Reinhold si fa portare due stanghe. Sono lunghe suppergiù due metri e mezzo, hanno un diametro di circa otto centimetri. Poi si fa portare due bastoni più corti. Reinhold è seduto in terra, depone le due stanghe una di fianco all’altra, parallele, a una distanza di circa 40 centimetri. I bastoni più corti li appoggia sopra obliqui, uno sopra e uno sotto. Dalla tasca prende un cordino e comincia a fissare.

Chiodi non ne avevano.

Portano delle corde. Con quelle Reinhold compone una specie di telo fra le stanghe. La barella è pronta.

Reinhold appoggia la giacca a vento su una traversa e si sistema sulla barella, la testa sulla giacca. Quattro uomini sollevano la barella e la porgono ad altri due. Barcollamento generale, Reinhold quasi cade giù, riesce a tenersi per miracolo. Vorrebbero legarlo, ma lui scuote la testa, non vuole.

Non ero più in grado di camminare ma nonostante tutto avevo paura di perdere la mia libertà di movimento.

Gli uomini sono soddisfatti. Inizialmente avevano dimostrato di non nutrire alcuna fiducia nei confronti dell’idea della barella. A quel punto, in sei si mettono in marcia. Due trasportano e quattro riposano, dandosi frequentemente il cambio. – Dal basso i rami delle piante, il cielo è blu.

Spesso, quando passavamo in mezzo alle piante, le foglie mi accarezzavano la faccia.

Il gruppo guada un fiume.

Io sentii solo il rumore dell’acqua. Mi si erano chiusi gli occhi.

Il gruppo prosegue lungo la riva sinistra del fiume, seguendo la corrente.

Chissà cosa stanno facendo gli altri, pensavo.

 

Un convoglio di jeep percorre la valle Astor in discesa.

Il campo base l’avevano abbandonato. Stavano tornando a casa, stavano andando a Gilgit.

 

Un pendio completamente spoglio. Giù in fondo il fiume Bunar. Il pendio è attraversato obliquamente da un sentiero. Di nuovo il gruppo. Davanti i due con la barella, dietro gli altri. Il primo portatore: camicia bagnata, il viso imperlato di sudore, non cammina, corre... Si ferma, scambia qualche parola con il compagno. Aspettano. Altri due li sostituiscono e proseguono il cammino. Sulla barella c’è Reinhold, apatico, completamente assente. Il sole sembra infastidirlo molto. Tiene gli occhi chiusi.

A quel punto mi fidavo completamente di quei tipi. Ero certo che mi avrebbero portato alla meta.

Sotto i loro piedi un precipizio impressionante.

Avevo una gran sete, sete, sete.

In fondo si sente il fiume che scorre impetuoso. Il sole in cielo...

Verso mezzogiorno arrivammo al ponte Bunar nella valle dell’Indo.