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L’incontro con Herrligkoffer

 

«Non sarà invece responsabile (Herrligkoffer) per quel membro di spedizione che abbandona la via programmata e attrezzata.»

Karl Maria Herrligkoffer, «Die Presse»,
22/23 agosto 1970

 

 

«Dopo la loro morte un nuovo leitmotiv cominciò a farsi strada nella vicenda della lotta per il Nanga Parbat: quello della fedeltà e del cameratismo.»

Paul Bauer, Das Ringen um den Nanga Parbat. 1856-1953
Hundert Jahre bergsteigerischer Geschichte,
Süddeutscher Verlag, Monaco, 1955, pag. 227

 

 

«Tempo incerto: razzo rosso e razzo blu insieme. Decisione autonoma di occupare il campo V. A questo proposito Reinhold Messner afferma: In questa ipotesi farei almeno un tentativo di salita del canalone Merkl. Io replico: Mi hai letto nel cuore. Infatti anch’io sono dell’opinione che a questo punto, allestito il campo V, bisognerebbe cercare di fare tutto ciò che le condizioni atmosferiche consentono.»

Karl Maria Herrligkoffer

 

 

«Posso escludere con certezza assoluta che fra il dottor Herrligkoffer e Reinhold Messner fosse stato stabilito un accordo nel caso di lancio del razzo rosso, cioè a dire che in questa situazione Reinhold Messner avrebbe tentato da solo la vetta. Non si può di conseguenza parlare di un ordine pronunciato in tal senso.»

Felix Kuen

 

 

«Bollettino meteo negativo: razzo rosso. Stop. Attendere al campo V o ritirata. Non si parla un gran che del razzo rosso. In caso di tempo cattivo, cioè a dire neve e tempesta in quota, non sarebbe comunque stato possibile raggiungere la vetta dell’ottomila da una quota di 7350 metri, mentre già nella zona del canalone Merkl un tentativo sarebbe equivalso a un suicidio, e questo a causa del pericolo di caduta di slavine e pietre.»

Karl Maria Herrligkoffer

 

 

«Inizialmente a irritare furono le rappresentazioni distorte circa lo svolgimento della spedizione fornite da Karl Maria Herrligkoffer, riguardo al razzo rosso, alla debolezza di Günther, ai lavori per l’allestimento dei campi alti. Non fui solo io a controbattere. Tuttavia Herrligkoffer trovò dei sostenitori all’interno della squadra, che furono disposti a smentire le loro stesse annotazioni riportate nel diario. In cambio della promessa di poter prendere parte alla successiva spedizione organizzata da Herrligkoffer, oppure in cambio della lode per essere stati bravi compagni, il resoconto dei giorni chiave nel 1970 sul Nanga Parbat fu manipolato. Ben presto si diede voce all’interrogativo se i due Messner fossero effettivamente stati sulla vetta. In fondo i guanti trovati lassù avrebbero potuto tranquillamente appartenere a Hermann Buhl, inoltre per chi soffre di mal di montagna la discesa dalla forcella Merkl sarebbe del tutto impossibile. La mia discesa sarebbe stata una birbonata. Non c’è alcun dubbio, i bravi compagni hanno fatto tutto ciò che era in loro potere. Una sola cosa, la discesa lungo il versante Diamir, che sostenevano di conoscere, evidentemente non l’hanno ritenuta fattibile.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«Cosa non è stato avallato in nome del cameratismo sul Nanga Parbat: la truffa di Bauer, la condanna nei confronti di due sopravvissuti del 1934; gli intrighi contro Herrligkoffer nel 1953 e di Herrligkoffer contro Ertl e Buhl; la campagna denigratoria del 1970 e del 2003 contro di me. E chi sono i compagni che trovano sempre un sistema per giustificare le loro campagne ricorrendo al valore del cameratismo? Non attribuiscono alcun valore alla comunità, non al sostegno degli altri, il loro unico scopo è la distruzione dell’altro

Reinhold Messner, 2003

 

Un motore nella notte. Una jeep si ferma. Scendono Karl e Alex. Una luce, alcune persone circondano una barella. Sulla barella c’è Reinhold. Il volto come uno spettro, le labbra tagliate, la bocca impastata. Pantaloni e camicia sporchi, i piedi, senza calze, sono infilati nelle scarpette interne.

Karl si avvicina, per un attimo si blocca nei pressi della barella, si avvicina ulteriormente, si piega su di lui, lo accarezza.

Era gentile con me... in assoluto... rimasi molto colpito, non ero certo abituato a un simile comportamento da parte sua.

Karl: Sono felice che tu sia qui.

È commosso, gli accarezza il braccio, gli passa la mano nei capelli. Alex gli sfila le scarpette. I piedi, gonfi e rossi. Le dita, nere.

Karl: Sono felice che tu sia qui.

Reinhold: Siamo dovuti... Esita e viene interrotto.

Karl: Va bene, va bene. Non è tanto importante adesso.

Reinhold: Credo che una slavina abbia colpito Günther, giù in basso.

Karl: Adesso devi solo pensare e te.

Gli prende la mano destra e osserva le sue dita. Che sono nere in punta.

Karl: E l’altra mano?

Reinhold scuote la testa, come a dire no.

Karl: Adesso devi pensare solo a te stesso.

Erano ormai quattro giorni che Günther non era più davanti, dietro o di fianco a me. Per quattro giorni avevo atteso disperatamente l’arrivo degli altri, per poter parlare con loro. E finalmente eccoli.

Nessuno mi domandò: Com’è andata? Dovevo dimenticare che Günther non sarebbe più arrivato. Dovevo pensare solo a me stesso. Non capivo. Il fatto che mio fratello giorni prima fosse stato con me sulla vetta del Nanga Parbat e poi tutto d’un colpo fosse sparito, dovevo all’improvviso dimenticarlo. Non doveva trattarsi di una cosa particolarmente importante. Non capivo.

Reinhold viene sistemato dietro sulla jeep. Alcuni portatori si siedono di fianco a lui sugli zaini e sulle ceste. Alex e Karl salgono davanti. Si accende la luce. Rumore di motore. La jeep parte.

Raggiungemmo Gilgit ancora quella notte. Lì rividi gli altri compagni. Max era commosso alle lacrime. Ma non tutti parevano felici della mia ricomparsa. Lo avvertivo chiaramente.

 

Stanza di Gilgit, due voci.

Max è vicino al letto di Reinhold, agitato.

Max: Il razzo rosso, te ne ricordi?

Reinhold si solleva a sedere sul letto, guarda davanti a sé.

Reinhold: È passato così tanto tempo, è per via di quel razzo che mi sono avviato.

Max: Appunto, non ti ricordi più della conversazione via radio: «Mi hai letto nel cuore» e altre cose.

Reinhold: Fino a ora non ci ho più pensato.

Max: Ha lanciato il razzo sbagliato!

Reinhold: Un razzo rosso.

Max: E il bollettino, il bollettino meteo era buono.

Reinhold: Buono?

Max: Certo, quella sera via radio lui ci ha trasmesso un bollettino meteo buono. Quindi avrebbe dovuto lanciare un razzo blu.

Reinhold: L’accordo era: razzo rosso in caso di previsione di tempo brutto, razzo blu con previsione buona. E tu adesso mi dici che il bollettino era buono. Ma il razzo era rosso.

Max: Appunto. Ci siamo spaventati quando, dopo la comunicazione di previsione buona, è partito il razzo rosso. Ma tu lassù non sei rimasto sconcertato?

Reinhold: Per un attimo ho dubitato.

Riflette: Sì, mi ricordo, ancora mentre salivo al campo V.

A quel punto inizia a parlare lentamente e con tono deciso: Incerto, per un attimo sono stato incerto. Ma l’accordo era chiaro. Tu ne sai qualcosa?

Max: Eccome, c’ero anch’io quando è avvenuto il colloquio.

Reinhold: E allora come mai il razzo rosso?

Max: Uno sbaglio, dice lui.

Reinhold: Uno sbaglio (incredulo) rosso invece che blu?

Max: Ma a te non è venuto in mente subito?

Per tutta la vita mi sono fidato del prossimo, magari con iniziale scetticismo, ma alla fine ho sempre avuto fiducia. E adesso si pretende da me che all’improvviso dubiti di una comunicazione così importante.

Reinhold: Non vorrà mica sostenere che un razzo rosso ha lo stesso aspetto di uno blu? Mi pare che una certa differenza ci sia!

Max: Dice che intorno c’era una fascetta blu.

Reinhold: Intorno al razzo rosso?

Max: Sì, solo quando l’ha visto in cielo, si è reso conto che era rosso.

Reinhold: E come mai non ne ha lanciato subito dopo uno blu?

Max: Pare che non ne avesse più.

Reinhold: Quando a mezzogiorno ci siamo sentiti via radio è andato di persona a controllare. E mi ha detto che ne aveva ancora solo di rossi e di blu.

Max: Proprio così. Io e Hermann l’abbiamo sentito direttamente via radio, tu, Felix, Günther, Peter e Gerhard al campo IV, Werner, Gert e Hansi al campo III. A mezzogiorno ha confermato che aveva dei razzi blu, poi a sera all’improvviso erano spariti. Non si possono commettere due errori in una questione così delicata e determinante: prima il razzo sbagliato, poi non ne lancia un secondo.

 

Pochi giorni più tardi volammo a Rawalpindi.

Reinhold è seduto al finestrino. Il posto di fianco a lui è libero. Guarda fuori. Di profilo si vedono il suo naso arrossato e le labbra spaccate. Nebbia. In fondo, in fondo un fiume.

Si trattava del fiume Indo.

In lontananza una montagna alta nella nebbia. Si schiarisce. All’improvviso il viso di Reinhold appare come pietrificato. Sono visibili tratti sempre più ampi della montagna. È una montagna molto alta, più alta di tutte le altre.

Era il Nanga Parbat.

Versante occidentale del Nanga Parbat. La vetta nella nebbia. La valle Diamir. Uno steward cammina lungo il corridoio centrale. Qualcuno chiacchiera, qualcuno legge il giornale, parla. Reinhold guarda fuori. Il viso appoggiato al finestrino: triste.

Karl si avvicina a Reinhold. Che lo guarda: riconoscente.

Karl: Là sotto c’è il ponte sul fiume Bunar.

Reinhold annuisce. Un ponte su un affluente dell’Indo. Con lo sguardo risale il fiume, che piega sulla sinistra, una vallata stretta e arida. Più in là: il Nanga Parbat. Reinhold al finestrino. Guarda come se stesse sognando. Il viso di Günther. La slavina. Il versante Diamir. Due piccoli punti fra i seracchi. La vetta. Il viso di Günther: gli occhi strizzati, un sorriso soddisfatto. La slavina. La ghetta rossa lasciata sul masso. Diamir. Persone, il ponte di Bunar.

Fino a quando mio fratello c’è stato, mi era sufficiente sapere che c’era, da qualche parte, che avrei potuto aspettare il suo arrivo. Ma a quel punto Günther non c’era più e io non riuscivo a sopportare che non fosse seduto accanto a me.

Reinhold al finestrino. Si vede riflesso, si impressiona. Occhi che guardano e non vedono. – Il viso di Günther, sorride, è soddisfatto, come sulla vetta. – Il vetro del finestrino, vuoto. Fuori scorrono le nebbie. Si sente il rumore monotono dei motori.

Il Nanga Parbat non si vedeva più.

Reinhold è seduto da solo al finestrino, tiene una mano davanti agli occhi.

A Rawalpindi c’era ancora della posta. C’era anche una lettera per Günther. La aprii.

 

 

Carissimi abitanti delle caverne di ghiaccio!

Prima di ogni altra cosa i nostri complimenti e le nostre congratulazioni per la vostra grande impresa, sia che abbiate raggiunto la vetta oppure no!!! Caro Günther, questa è stata la lettera più interessante che io abbia mai ricevuto e che mai riceverò. (Comprese anche tutte le lettere d’amore!) Scritta l’8 giugno a seimila metri di quota, porta il timbro del 17 giugno, questo vuol dire che avete dovuto abbandonare?

Non avrei mai pensato nella vita che un giorno avrei ricevuto una lettera da una spedizione himalayana, per di più scritta a 6000 metri di quota! (Quanti guanti avevi addosso quando l’hai scritta?) Sono veramente orgogliosa che questa lettera sia mia, e quando l’ho letta mi sono sentita emozionata come voi lassù! La nostra piccola Antje si è dovuta rassegnare ad aspettare di mangiare, prima ho dovuto leggere tutto due volte! Quest’anno riusciremo a «rendervi omaggio» a Funes?! Oppure vi dedicherete solo alle cime? Se non riuscite voi a fare la parete, chi altro mai ci può riuscire?!

Durante il vostro viaggio di ritorno farete sicuramente scalo a Francoforte – guai a voi se non ci telefonate e non venite a trovarci. Vi accoglieremo come si deve. Ancora tantissimi auguri per il resto della vostra impresa, ancora molte grazie per le belle cartoline e per la lettera.

Non vediamo l’ora di riabbracciarvi e di sentire i vostri racconti. Di sicuro ci sarà un’edizione straordinaria di Alpinismus.

In bocca al lupo e viva la montagna,

la vostra Heidi

 

La lettera era per tutti e due, per questo la rilessi.

Tre giorni dopo atterrammo a Francoforte.

Non mi sentii di andare da solo a trovare i nostri amici. E poi dovevo andare in clinica, a Innsbruck.

 

Clinica universitaria, camera 8, piano 10, reparto di angiologia. Flebo, lettere, telegrammi di condoglianze, auguri, amputazioni.

Molte cose non le ho lette con attenzione. Erano troppe, tutte in una volta.

Attacchi dei quotidiani. Si leggono parole come follia, superficialità. Accuse rivolte anche a Günther, che non potrà più difendersi. Ha fatto tutto quello che poteva, ha dato il tutto per tutto perché la spedizione arrivasse al successo.

Ero disperato.

Le dita congelate.

Come potevo dire che di quello che si legge in milioni di giornali molto non corrisponde al vero?

Una lettera di amici.

Mi ha un po’ consolato.

 

Caro Reinhold!

Trionfo e sofferenza pare siano legati l’uno all’altra. Se esiste un Onnipotente che guida i destini degli uomini, allora solo lui può valutare se a Günther è stato fatto il bene o il male.

Nonostante la sofferenza e il cordoglio non riesco però a vedere la tragicità in questa dipartita di Günther. Alla fine non è importante se un uomo arriva a 20 oppure a 80 anni. Di fronte all’eternità entrambi i numeri sono nulla. L’essenziale è invece quanto durante la sua vita un individuo trasmetta di sincerità, di bontà, di amicizia e amore. Vogliamo serbare di lui questo ricordo, di come era. Un lottatore, un vincitore, un amico, coraggioso e chiaro, gli occhi luminosi, i capelli scomposti dal vento.

Voglio che tu sappia che siamo vicino a te, nella gioia e nel dolore. Condividiamo i tuoi sorrisi e le tue sofferenze. Sono convinto che Günther approverebbe che facciamo nostre le parole di Walther Flex: «O voi vivi, concedete a noi morti il diritto di cittadinanza, affinché possiamo restare in mezzo a voi nelle ore liete e in quelle buie. Non piangete per noi, costringendo l’amico a vergognarsi di aver parlato di noi! Fate sì che gli amici prendano coraggio, e di noi parlino e ridano».

In nome dei tuoi amici,

Luis