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L’intermezzo dello Heran Peak

 

«Non eravamo mai stati i tipi che stanno lì a perdere tempo. Per questo motivo io e Günther riempimmo le giornate di attesa alla base del Nanga Parbat affrontando lo Heran Peak. Eravamo mossi dall’entusiasmo, e anche dalla curiosità. Soprattutto ci fidavamo molto l’uno dell’altro.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«Il desiderio di Max von Kienlin, nato nel 1934, era solo di far parte del gruppo del Nanga Parbat nel 1970! Non era e non è un alpinista. Aveva pagato una seconda quota d’adesione, ma non per Günther, bensì per la sua guida alpina. Il suo obiettivo era di riuscire almeno a vedere la cosiddetta montagna del destino, sulla quale nell’anno della sua nascita si era verificata la grande tragedia.»

Reinhold Messner, 2009

 

 

«(...) Max mi sorprese quando mi rivelò la sua intenzione di voler acquistare anche per me una quota d’adesione alla suddetta spedizione. Oggi mi viene il sospetto che gli interessasse avere con sé il suo buffone di corte in qualità di portatore privato e di filosofo alla buona. Inizialmente accettai, poi però realizzai che avrei dovuto sottopormi a determinate vaccinazioni e quindi per mancanza di tempo la cosa non ha funzionato. Per questo motivo Max fu l’unico ospite in quella spedizione in seguito così aspramente criticata.»

Heinrich Besler, guida alpina dell’Algovia

 

 

«Max von Kienlin pregò Günther e me di poterci aspettare alla base della montagna, mentre noi salivamo alla vetta principale.»

Reinhold Messner, 2009

 

Mentre aspettavamo che le condizioni meteorologiche al Nanga Parbat migliorassero, decidemmo di affrontare lo Heran Peak.

Peter è nella sua tenda. Si è ripreso dalla pleurite, anche se deve stare molto coperto e avere riguardo. Fra pochi giorni intende comunque tornare in montagna. Lo si capisce dai suoi occhi.

Günhter è seduto su una cassa, vicino a lui, e gli racconta della «prima» allo Heran Peak.

Günther: Dal campo III, naturalmente nei momenti in cui non stava nevicando, l’abbiamo visto spesso, lo Heran Peak. Ci pareva molto affascinante, non troppo difficile; non conoscevamo però il suo nome, né l’altezza. La cosa certa era che non era mai stato salito, all’epoca, un bel seimila, proprio in fondo alla valle Rupal. Una volta, al campo base, avevamo deciso che avremmo sfruttato una giornata di bel tempo, senza dare nell’occhio, il capitano non avrebbe dovuto saperne niente, avremmo fatto una ricognizione ed eventualmente una salita.

Ci siamo messi in moto ieri pomeriggio, verso le quattro. Elmar ci è venuto dietro, ma aveva le scarpe da ginnastica. Purtroppo però quelle basse, che mettiamo per stare al campo base. È venuto con noi fino a dietro il ponte, circa due ore da qui. Quando è cominciata la pioggia ci ha suggerito di fermarci un momento sotto una roccia ad aspettare che smettesse.

Abbiamo trovato ricovero in una fattoria bruciata, una casupola, l’ultima rimasta, per caso non toccata dal fuoco, bassa, ma con un tetto solido, piena di letame, ha detto qualcuno, ma non scomoda.

Reinhold ha sgomberato la casupola, noi abbiamo portato della legna, anche un po’ di quella carbonizzata, non abbiamo parlato molto. All’interno abbiamo costruito delle panche, abbiamo preparato il fuoco, stava calando la notte, e alla fine ci siamo seduti intorno a quel fuoco. Abbiamo mangiato quello che avevamo portato dietro, pane e formaggio, la frutta in scatola; abbiamo riso molto.

Quando poi la pioggia è cessata, verso le nove o giù di lì, Elmar è tornato indietro, un po’ a malincuore, del resto non aveva proprio le scarpe adatte. Ci avrebbe fatto piacere se fosse venuto con noi, è una persona molto disponibile ad aiutare, serena; puoi immaginare quanto bene gli vogliamo noi tutti. Dev’essere arrivato qui fra le dieci e le undici.

Peter: In un primo tempo abbiamo pensato che fosse venuto con voi.

Günther: Noi abbiamo proseguito, al chiaro di luna, lentamente ma in modo costante, non sempre si trovava la via con facilità. Più avanti abbiamo piegato in una valle laterale. Inizialmente abbiamo sfruttato la morena laterale per salire, poi però non ci è più stato possibile – anche perché nel frattempo la luna si era nascosta dietro il Rupal Peak. La luce riflessa dalla parete Rupal e dalla cresta Mazeno era troppo scarsa. Perciò siamo scesi verso il ghiacciaio, un mare di pietre e conche. Reinhold andava avanti, per individuare un passaggio agevole fra i crepacci. Io e Max seguivamo, mantenendo una distanza di qualche centinaio di metri; lui procedeva senza badare alle nostre grida. Di tanto in tanto ci ha fatto dei segnali con la torcia, per indicarci il percorso. Sull’altro lato poi le cose sono andate meglio, prima abbiamo superato le pietre, poi vari coni di slavine e alla fine di nuovo il ghiacciaio. Quando ci capitava di sprofondare, solo raramente, ci spostavamo per trovare la neve migliore, per risparmiare le energie.

Al di sotto di una fessura siamo rimasti a pensare un bel po’; poi Reinhold è salito diritto, senza sprecare tante parole. Non era ancora mezzanotte. L’abbiamo lasciato andare. Più in alto, sotto un risalto, ci ha aspettato. Max era molto stanco e voleva fermarsi un momento. Aveva le dita dei piedi congelate. Reinhold gli ha lasciato il suo zaino e la custodia del sacco, perché ci si avvolgesse dentro fino allo spuntare del sole, così si sarebbe tenuto caldo. I pendii ghiacciati sui quali siamo saliti, gli ultimi che conducevano alla cresta, erano molto ripidi, a tratti veramente impegnativi. Ci siamo alternati nel battere la traccia, in prossimità della cresta; molte foto, in tutte le direzioni, una addirittura con il Nanga Parbat libero, almeno la vetta. Altrimenti solo nebbia, che di tanto in tanto intorno a noi si dissolveva.

Verso le 7 abbiamo raggiunto una vetta che secondo noi era quella giusta, in seguito si è schiarito, così abbiamo visto che ce n’era una ancora più alta. Abbiamo continuato; la nebbia sempre più fitta. L’arrampicata molto avvincente, ma non facile; progredivamo lentamente, torri di roccia innevate, ripidi risalti sulla cresta, era assolutamente necessario fare sicurezza. Ormai dovremmo quasi esserci, ha detto Reinhold, dal momento che il terreno era meno ripido. Eravamo sulla vetta, ma ce ne siamo resi conto solo quando per un attimo le nubi si sono squarciate. Sosta rapida, stretta di mano, due foto in vetta, stava infatti cominciando a nevicare. Quando abbiamo guardato l’ora ci siamo resi conto che non aveva senso aspettare ancora. L’altimetro segnava 6022 metri. In realtà la nostra idea era di scendere lungo la via di salita, possibilmente rapidi, perché la tormenta aumentava di momento in momento, inoltre Max ci stava aspettando da qualche parte più giù. Per un puro caso ritornando verso l’anticima abbiamo individuato un ampio canalone. Non so come, ma per un attimo, seppur breve, il cielo si è schiarito, e ci siamo trovati d’accordo nell’optare per quella soluzione. Avevamo appena cominciato la discesa lungo il canale, felici di non dover ormai fare altro che scendere, che cominciò a inquietarci il pensiero di Max, che certamente ci stava aspettando sotto. Perciò traversammo sempre più sulla destra, fino al punto dove ci eravamo separati da lui.

Ma Max non c’era più. Doveva essersi mosso poco dopo il sorgere del sole; lo zaino era su una pietra, insieme al sacco a pelo, nella neve aveva scritto: Sono salito dietro a voi. Ci siamo messi a chiamare, Reinhold è risalito un tratto, le impronte erano profonde. All’improvviso l’abbiamo visto arrivare, stanco, si appoggiava ai bastoncini, traballava, come se da un momento all’altro dovesse collassare. Quando ci raggiunse iniziò a raccontare, entusiasta. Era salito fino alla vetta intermedia, solo, si era spaventato perché non ci aveva visti tornare, noi invece ci eravamo spaventati non trovandolo. Una vera impresa comunque, considerando il livello alpinistico di Max.

Peter (annuisce): Duemilaquattrocento metri di dislivello in meno di quindici ore, fantastico.

Günther: E su un terreno piuttosto impegnativo, ad esempio la cresta e alcuni pendii molto ripidi. È stata una bella «prima», ne siamo veramente orgogliosi. Per me una prima non significa una parte di un ricordo oppure una certa vetta – la si può definire una conferma di se stessi, un’acquisizione che resta, direi, e a volte ho l’impressione che qualcuno mi invidi per questa forma di possesso.

Torniamo indietro fra pioggia e neve, appena dopo le quattro di pomeriggio arriviamo qui, ventiquattro ore dopo essere partiti.

L’accoglienza è stata fredda: torniamo indietro, raggiungiamo le nostre tende, siamo qui. Fino a questo momento Karl non ha domandato dove fossimo finiti. Pare che si sia arrabbiato perché ce ne siamo andati, benché ieri ci avesse dato il permesso. Permesso che ha negato ad altri che gli hanno chiesto se domani possono tentare subito una ripetizione. Ha detto che è una stupidaggine, che non ne vale assolutamente la pena. L’unica cosa che gli pare ragionevole è stare qui al campo base a bighellonare. Da giorni ormai non sappiamo più quello che pensa, quello che sta architettando.

Peter: Karl è fatto così.