1. Denikin generale dell’Armata Bianca, fotografia, 1919.
Anton Ivanovič Denikin (a destra nella fotografia, mentre saluta un generale inglese) fu uno dei principali generali «bianchi» (fedeli allo Zar) durante la guerra civile russa. Dopo aver maturato una prima esperienza bellica durante la guerra russo-giapponese, nel primo conflitto mondiale ebbe il comando a Kiev delle divisioni dislocate in Ucraina. Alla caduta di Nicola II nel febbraio 1917, e in seguito alla presa di potere da parte di Lenin e dei bolscevichi nell’ottobre dello stesso anno, Denikin costituì un’armata antirivoluzionaria. Grazie all’appoggio anglo-francese poté strappare ai bolscevichi l’Ucraina e la Russia centrale fino ad arrivare a minacciare direttamente Mosca. La sua avanzata subì tuttavia un blocco a causa di un rovescio militare che lo costrinse ad abbandonare la Russia per rifugiarsi prima in Francia e poi, in seguito all’occupazione nazista, a spostarsi negli Stati Uniti.
2. Woodrow Wilson, George Clemenceau, Vittorio Orlando e David Lloyd George dopo un incontro a Parigi, 27 maggio 1919, fotografia.
Lasciata la capitale francese in seguito ai dissidi con Wilson sulla «questione adriatica» (consistente nelle rivendicazioni italiane sulla Dalmazia e Fiume), il 5 maggio Orlando e Sonnino fecero precipitosamente ritorno a Parigi, dove rimasero in una posizione di sostanziale isolamento rispetto alle decisioni adottate di volta in volta da Inglesi, Francesi e Americani. Orlando aveva rinunciato a reclamare la Dalmazia, si limitava a Zara, Sebenico e a uno statuto speciale per Fiume; medesime difficoltà nascevano per le colonie, dove la delegazione italiana si vide offrire Giarabub (un’oasi posta nella Libia settentrionale verso il confine egiziano), parte dell’Oltregiuba (regione somala tra il fiume Giuba e l’Oceano Indiano sita al confine con il Kenya) e la rettifica del confine tra Libia e Tunisia. Il vero e insoluto problema per il Regno restava al momento la vertenza territoriale con la vicina Jugoslavia che avrebbe portato in pochi mesi all’ingresso a Fiume di D’Annunzio.
3. Costituzione della Repubblica di Weimar, 11 agosto 1919, fotografia.
Il 6 febbraio 1919 a Weimar, località della Turingia, si riunì l’Assemblea costituente tedesca che, ratificato il Trattato di Versailles, procedette alla votazione della nuova costituzione che prevedeva la formazione di un sistema federale, con un governo centrale e 17 Länder. Il potere legislativo era affidato a un parlamento (Reichstag) a cui il Cancelliere doveva sottomettere il suo operato; il presidente della Repubblica aveva grandi poteri (tra cui quello di comandare l’esercito e di sospendere in caso di emergenza le libertà civili) e restava in carica per sette anni. Nella sostanza si trattava di una repubblica parlamentare pericolosamente sbilanciata verso il presidenzialismo. Sebbene il seguente 30 settembre l’Assemblea si fosse trasferita a Berlino, la repubblica che nasceva sulle ceneri del secondo Reich adottò il nome di Repubblica di Weimar. Il primo presidente eletto fu il socialdemocratico Friedrich Ebert (il quale restò in carica fino alla morte) e il suo partito formò, con la partecipazione dei cattolici e dei liberaldemocratici, il governo repubblicano.
4. Il quarto governo Giolitti, fotografia, 1920.
Caduto il governo diretto da Francesco Saverio Nitti nel giugno 1920, Giolitti gli subentrò e rimase al potere fino al luglio 1921 (nella fotografia il Consiglio dei Ministri, con al centro Giolitti, alla sua destra in piedi Porzio, quindi Sforza, Facta, Meda, Peano, Labriola, Micheli e Bonomi; alla sua sinistra invece siedono Fera, Rossi, Alessio, Croce, Raineri, Vassallo e Sechi). Nonostante gli sforzi compiuti Giolitti non riuscì nell’intento di inaugurare un nuovo processo riformatore grazie alle sue abilità di mediatore; durante l’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920 non intervenne con la forza ma propose un piano di controllo sulle industrie da parte degli operai, che nella sostanza non venne mai realizzato. Una soluzione che sollevò le critiche dell’estrema sinistra socialista di Gramsci e Bordiga e della borghesia, che vide nell’operato di Giolitti un elemento di debolezza preferendogli i gruppi fascisti da opporre al movimento operaio. Anche in politica estera Giolitti si attirò le aspre critiche dei nazionalisti con la rinuncia al mandato sull’Albania. Per contro, le trattative diplomatiche con la Jugoslavia risolsero definitivamente la «questione adriatica»: in base al trattato di Rapallo (12 novembre 1920) l’Italia si aggiudicava l’Istria e Zara, mentre alla Jugoslavia spettava la Dalmazia; quanto a Fiume, divenne città-stato indipendente.
5. Ivanoe Bonomi, 15 giugno 1920, fotografia.
Esponente di spicco dei socialisti riformisti, nel 1920-1921 assunse il dicastero della Guerra prima con Nitti, poi con Giolitti, cui subentrò nella guida del governo dal luglio 1921 fino al febbraio 1922. Fu durante il suo governo che si negoziò il 2 agosto «un patto di pacificazione» tra fascisti e socialisti, che «oltre a rappresentare una garanzia di ordine pubblico, spianava la strada alla collaborazione, o per lo meno a una opposizione più morbida». Nonostante tutto il patto non fu rispettato e gli scontri sanguinosi tra squadristi e socialisti continuarono; a questo aspetto si aggiunse la cronica debolezza del governo che fu messo in crisi dall’abbandono del Gruppo democratico a causa dell’avvicinamento attuato da Bonomi con i popolari di Sturzo.
6. Mario Nunes Vais, Filippo Turati, fotografia, 1908.
Laureato in legge si avvicinò presto agli ambienti sindacalisti e socialisti, dove conobbe Anna Kuliscioff. Difensore dei capi del movimento operaio, Turati decise di diffondere tra gli ambienti democratici i princìpi del socialismo. Nel 1899 costituì dapprima con la Kuliscioff la Lega socialista milanese e nel 1892, al Congresso di Genova, il Partito dei lavoratori italiani, divenuto Partito socialista. La svolta liberale d’inizio Novecento gli sembrò favorevole per la realizzazione di un programma riformatore. In questo contesto non mancò di valutare positivamente la libertà di ricorrere allo strumento dello sciopero, che la politica giolittiana assicurava, quale mezzo per ottenere miglioramenti salariali e acquisire sempre più peso sociale. Allo scoppio del conflitto mondiale Turati si oppose all’intervento, preoccupato che gli elementi reazionari prendessero il sopravvento e si compromettesse il cammino verso la piena affermazione della democrazia e del socialismo. Fermo antifascista, dopo il delitto Matteotti e il fallimento del ritiro sull’Aventino cercò asilo politico in Francia, da dove continuò senza tregua la lotta antifascista.
7. Armando Bruni, Riunione del governo Facta, fotografia, 1921, Roma.
A capo dell’ennesimo governo debole e privo di una solida maggioranza, fu posto Luigi Facta, avvocato di modesta capacità politica «che non aveva altra ambizione che quella di servire fedelmente il suo Capo [Giolitti], né altre idee che quelle di lui. Tutto gli si poteva chiedere fuorché risolutezza e immaginazione, cioè proprio le qualità che più urgevano» in quel drammatico frangente. Davanti alle continue azioni violente delle squadre fasciste Facta ordinò ai rappresentanti periferici dello Stato di intervenire con i loro poteri per fermarle, un ordine che tuttavia cadde nel vuoto inoltre il suo temporeggiamento nell’ottobre del 1922 non portò alla promulgazione dello stato d’assedio a Roma e quindi lasciò la strada aperta a Mussolini e ai fascisti per compiere la marcia su Roma, che decretò la fine dello Stato liberale.
8. Squadra fascista in azione, fotografia, 1921.
Il 23 marzo 1919 Mussolini costituiva a Milano i primi Fasci di combattimento, nel cui «programma c’era di tutto: l’esaltazione della guerra, l’irredentismo più acceso, e insieme le più avanzate istanze sociali come la terra ai contadini, la partecipazione operaia alla gestione delle aziende, il voto alle donne. Ma tutte queste contraddizioni erano sanate dal combattimento, cioè dalla promessa dell’azione». Squadre che in breve tempo sotto la guida di propri capi, detti ras, operarono con violenza contro le organizzazioni sindacaliste e socialiste. Un’aggressività e un peso con cui dovette fare i conti lo stesso Mussolini, allorché sottoscrisse il «patto di pacificazione» con i socialisti: la reazione dei ras non si fece attendere e il 16 agosto 1921 a Bologna lo misero in netta minoranza ed egli rispose rassegnando le momentanee dimissioni dal partito.
9. La marcia su Roma di Benito Mussolini, 28 ottobre 1922, fotografia.
Mussolini (qui affiancato da Italo Balbo, De Bono e Michele Bianchi) nell’ottobre 1922 strinse i tempi per arrivare al governo. Le squadre fasciste si concentrarono dapprima a Napoli, una mossa che doveva celare «una marcia concentrica su Roma», e poi a Tivoli, Monterotondo e Santa Marinella. Dopo le convulse giornate del 27 e 28 ottobre (durante le quali il governo Facta era finito, Vittorio Emanuele III aveva rifiutato di firmare lo stato d’assedio per evitare uno scontro diretto con il fascismo appoggiato dai ceti dirigenti e industriali, gli sforzi per costituire un governo Salandra-Mussolini erano falliti per la ferma opposizione di quest’ultimo) il Re decise di affidare l’esecutivo al solo Mussolini. Costituito il governo, il 30 ottobre Mussolini impartì l’ordine ai fascisti «che intanto avevano continuato, all’oscuro di tutto, e sotto la pioggia battente, a intirizzire di freddo e di fame, nei loro accantonamenti di Monterotondo e Santa Marinella […] di marciare su Roma […]. L’indomani sfilarono sotto il Quirinale, dove il Re li salutò dal balcone […] mascherando il disgusto che doveva procurargli quell’esercito di Pancho Villa irto di pugnali, manganelli e schioppi banditeschi […]. La rivoluzione [fascista] era finita. O meglio, non era mai cominciata».
10. Conferenza di Rapallo, 16 aprile 1922, fotografia.
Nel quadro della conferenza economica internazionale tenutasi a Genova, le delegazioni di Germania e Unione Sovietica (nell’immagine è possibile riconoscere, al centro, il conte Brockdorff-Rantzau, ambasciatore tedesco in Unione Sovietica, con al fianco destro il cancelliere della Repubblica di Weimar Joseph Wirth e a sinistra il commissario del popolo Krassin; alle spalle dell’ambasciatore, a sinistra compare il socialdemocratico Breitscheid) ratificarono il 16 aprile 1922 un importante trattato di cooperazione. In base a esso i due Paesi rinunciavano alle riparazioni dei danni di guerra, riallacciavano le relazioni diplomatiche e si impegnavano a consultarsi regolarmente sulle principali problematiche economico-finanziarie internazionali. L’accordo colse di sprovvista sia l’Inghilterra sia la Francia e permise ai due contraenti di porre fine all’isolamento in cui erano stati fino in quel momento costretti.
11. Soldati francesi durante l’occupazione della Ruhr, fotografia, 1923.
A causa dei ritardi nei pagamenti delle riparazioni di guerra imposti dal Trattato di Versailles, la Francia e il Belgio procedettero l’8 marzo 1921 all’occupazione di alcune città del bacino minerario della Ruhr (Düsseldorf, Ruhrort e Duisburg). L’anno seguente la Germania, alle prese con una grave crisi finanziaria, chiese una sospensione per i risarcimenti; la Gran Bretagna acconsentì mentre Francia e Belgio si opposero e sequestrarono ogni attività produttiva della regione. La Francia inoltre occupò i principali centri della Ruhr (tra cui Essen e Dortmund) nel gennaio 1923, un’azione di forza alla quale i Tedeschi risposero con la resistenza passiva; il 22 dello stesso mese ebbe luogo uno sciopero che bloccò l’intera zona, seguito da diversi scontri sanguinosi tra truppe d’occupazione e scioperanti. Il governo tedesco guidato da Stresemann nel settembre 1923 annunciò la fine della resistenza passiva ma dovette attendere l’anno successivo perché la Francia acconsentisse all’attuazione del piano Dawes, relativo ai risarcimenti tedeschi, e procedesse al ritiro graduale delle sue truppe dalla Ruhr tra l’ottobre 1924 e il luglio 1925.
12. Mustafa Kemal, fotografia da «Le Monde Illustré», 3 novembre 1923.
Intrapresa la carriera militare, nel 1907 strinse i rapporti con i Giovani Turchi. Durante la prima guerra mondiale, nel 1917, suggerì all’Alto Comando turco di abbandonare i territori non turchi per poter difendere al meglio l’Anatolia, e la rivolta araba guidata da Lawrence d’Arabia gli diede ampiamente ragione. Nel 1919 ebbe il comando delle armate del Nord e giunse fino al Mar Nero dove fu informato dello sbarco dei Greci a Smirne e nell’Anatolia occidentale, appoggiati dagli Alleati che procedevano alla divisione dell’Impero ottomano. Mustafà Kemal vi si oppose e convocò due congressi in cui condannò il governo in carica e chiese l’indipendenza della Turchia entro i confini del 1918 e la convocazione di un governo provvisorio. La grande assemblea turca si riunì ad Ankara nell’aprile 1920: si arrogò il potere legislativo e esecutivo, quest’ultimo fu in seguito affidato a un Consiglio dei Ministri retto da Mustafà Kemal. La Francia riconobbe il governo di Ankara, e il successivo Trattato di Sèvres accettato dal Sultano lasciò Mustafà Kemal unico difensore della nazione turca. In breve tempo, con poteri dittatoriali vinse i Greci e li costrinse ad abbandonare l’Anatolia. Eroe nazionale, ottenne dagli Alleati le ridefinizione del Trattato di Sèvres con il Trattato di Losanna del luglio 1923, che assicurò alla Turchia l’Anatolia, l’Armenia, il Kurdistan, gli Stretti e la Tracia orientale. Il 1° ottobre 1922 il sultanato era abrogato e al suo posto nasceva la repubblica. Mustafà Kemal fu eletto presidente e operò efficacemente per trasformare la Turchia in uno Stato moderno.
13. Keystone/Stringer, Truppe italiane a Corfù, fotografia, 1° gennaio 1923.
Il primo eclatante passo che Mussolini compì in politica estera fu l’occupazione dell’isola di Corfù. La «crisi di Corfù» iniziò il 27 agosto 1923 dopo la notizia del massacro della missione guidata dal generale Enrico Tellini a Zepi, sulla strada tra Gianina e Kakavia, sul confine tra la Grecia e l’Albania. Il generale Tellini era stato incaricato di guidare la delegazione italiana che doveva segnare i confini tra Grecia, Albania e Jugoslavia. L’eccidio dei cinque membri della delegazione fu condannato dal governo italiano che chiese il 29 agosto le riparazioni alla Grecia e l’esecuzione dei responsabili dell’atto di sangue. La Grecia non riuscì ad arrestare nessuno e chiese l’intervento delle Società delle Nazioni per dirimere la vertenza. Per tutta risposta il seguente 31 agosto Mussolini fece bombardare e occupare Corfù, da cui ritirò le truppe solo il 27 settembre su pressione del consesso internazionale.
14. Matteotti esce da Montecitorio, fotografia, 1924.
L’indomani delle elezioni del 1924 (avvenute con la legge Acerbo, che stabiliva che la lista di maggioranza relativa che disponesse del 25% dei voti avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi), in cui i fascisti e loro alleati (la maggioranza dei liberali) ebbero il 64,9% dei voti e 374 seggi, il segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti denunciò alla Camera le violenze e le intimidazioni compiute dalle squadracce fasciste contro gli oppositori e mise in discussione l’effettiva validità dei risultati finali. Il discorso segnò la sua condanna a morte: il 10 giugno 1924 fu rapito e assassinato da alcuni fascisti. Un episodio che disorientò l’opinione pubblica borghese e mise in seria difficoltà il governo Mussolini, in cui l’elemento liberale tendeva a distaccarsi da quello fascista.
15. Roberto Farinacci, fotografia, 1924.
Socialista, era poi stato interventista, ma al fronte non era mai stato perché «durante la guerra, era rimasto a casa, o meglio in stazione perché era impiegato delle ferrovie, e come tale esentato dal richiamo». Nel 1919 fu tra i fondatori dei Fasci di combattimento di cui fu uno dei ras più duri, pianificatore delle spedizioni punitive fasciste su Cremona e in generale nell’Italia settentrionale. Dotato di un fiuto politico, aveva capito che il fascismo doveva trovare il sostegno dei ceti agrari del Cremonese se voleva portare a compimento la rivoluzione. Nel 1921 fu eletto deputato; dato il carattere estremista che lo contraddistingueva, Farinacci rifiutava ogni accomodamento con la monarchia dei Savoia e con Mussolini, contro il quale non smise mai di architettare l’opposizione interna al fascismo.
16. Rapimento di Matteotti: omaggio degli aventiniani, fotografia.
Gli onorevoli Baldesi, Bocconi, Priolo, Labriola, Caldara, Trampolini, Cassinelli e Gonzales rendono omaggio al deputato Matteotti. L’opposizione al governo fascista decise il 18 giugno 1924 di non prendere più parte ai lavori della Camera ritirandosi «sull’Aventino delle loro coscienze» e comunicò che vi sarebbe rientrata solo quando fosse stata ristabilita la legalità e abolita la Milizia fascista. In altre parole, lanciava un messaggio al Re perché ritirasse l’incarico governativo a Mussolini. La speranza che la «questione morale» sollevata potesse davvero condannare il fascismo senza ricorrere alle masse, come invece propugnava il Partito Comunista, si spense in seguito alla conferma della fiducia a Mussolini da parte di Vittorio Emanuele III.