Premessa

Il rispetto della cronologia vorrebbe che questo volume cominciasse alla fine dell’ultimo governo di Giovanni Giolitti, nel 1921, e conducesse il lettore sino al discorso di Mussolini alla Camera il 3 gennaio 1925, da cui si fa abitualmente decorrere la nascita del regime fascista. Ma l’autore sa che il fascismo è anzitutto Mussolini e che non potremmo comprendere le origini e la natura del movimento se non sapessimo anzitutto di che pasta era fatto e quali fossero state le esperienze giovanili dell’uomo che ne fu il capo. Il profilo biografico del primo capitolo dice al lettore ciò che gli storici delle idee e dei movimenti politici generalmente trascurano. Lo stile del fascismo fu in realtà, spesso con tratti grotteschi e caricaturali, lo stile di Mussolini. E questo stile prese corpo nell’ambiente in cui era nato, nelle scuole che frequentò, nelle sue prime letture, nei due soggiorni più formativi della sua gioventù – la Svizzera e il Trentino –, nei suoi primi comizi politici, nelle redazioni dei giornali di cui fu collaboratore o direttore.

Quando scrisse la voce «Fascismo» della Enciclopedia Treccani, Mussolini elencò le tendenze politiche e ideologiche del Novecento che avevano concorso a delineare il programma del suo movimento. L’ideologia ebbe certamente la sua parte. Ma il fascismo fu anche il risultato di circostanze, decisioni improvvise, scelte tattiche. Quale filo lega il socialista rivoluzionario del 1912 all’interventista del 1915? Il direttore dell’«Avanti!» al direttore del «Popolo d’Italia»? Il contestatore della guerra di Libia al volontario della Grande guerra? Il tribuno repubblicano all’uomo che salì le scale del Quirinale per portare a Vittorio Emanuele «l’Italia di Vittorio Veneto»? Dopo la fine della guerra Mussolini fu un regista alla ricerca di un copione. In piazza San Sepolcro, nel marzo del 1919, chiese un’Assemblea costituente, la Repubblica, il voto alle donne, uno Stato dei produttori e dei lavoratori. Pochi mesi dopo corteggiò i nazionalisti e sostenne l’impresa di D’Annunzio a Fiume, ma cominciò a prenderne le distanze, non appena capì che la fama e il prestigio del poeta avrebbero fatto di lui un semplice luogotenente. Più tardi, quando constatò che non era possibile conquistare lo Stato da sinistra, si offrì agli agrari emiliani come il migliore protettore dei loro interessi contro il «pericolo rosso» del massimalismo socialista e del nascente partito comunista. Nell’agosto del 1921 firmò il patto di pacificazione tra i fascisti e i socialisti, ma lo stracciò non appena si accorse che l’ala radicale del partito fascista non aveva alcuna intenzione di sciogliere le squadre e rinunciare alla lotta armata. La marcia su Roma, che Montanelli racconta con l’occhio dell’inviato speciale, fu un impasto di provocazioni, minacce e segnali diplomatici.

Fu dunque Mussolini, un attore, un improvvisatore, un giocoliere? In parte certamente sì. Ma fu anche capace di sfruttare le divisioni degli avversari, di trovare nella caotica matassa della politica italiana il filo che lo avrebbe portato al potere, di sfruttare la voglia di ordine e normalità che saliva dalla società italiana. Fu questa la ragione per cui uscì indenne, dopo avere dubitato della propria sorte, dal caso Matteotti. Il discorso del 3 gennaio, con cui termina questo volume, è la mossa con cui Mussolini rovescia il tavolo, sfida gi avversari e raddoppia la posta. Non fu, secondo Montanelli, il mandante dell’assassinio del deputato socialista. Ma fu certamente l’uomo che in ultima analisi trasse dalla sua morte il maggiore vantaggio.

Sergio Romano