CAPITOLO PRIMO
L’UOMO NUOVO
Il 31 dicembre del 1920, molti italiani dettero addio all’anno che finiva convinti che con quello nuovo sarebbe cominciata la «normalizzazione». La crisi economica era tuttora acuta. Le industrie stentavano a riconvertirsi alla produzione di pace ed erano minacciate dalla penuria di materie prime, e specialmente del carbone, perché i Paesi fornitori ne avevano ridotti gli approvvigionamenti. La spinta inflazionistica, con la conseguente svalutazione della moneta, era forte, e soprattutto le categorie a reddito fisso ne erano gravemente colpite. Lo Stato era indebitato fino al collo. La disoccupazione in aumento. Ma sei mesi prima era tornato al governo Giovanni Giolitti. E tutti pensavano che il vecchio navigatore non avrebbe ripreso il timone della barca se non fosse stato sicuro di poterla rimettere in rotta.
Sebbene avesse già settantotto anni e gli ultimi sei li avesse quasi tutti trascorsi nel suo rifugio piemontese al di fuori della mischia, Giolitti dimostrava, oltre alla solita assoluta padronanza della «macchina» governativa, il fiuto e il tempismo dei suoi giorni migliori. Le elezioni amministrative da lui indette in autunno avevano segnato lo stallo, e qua e là il declino dei socialisti, che dalla fine della guerra in poi avevano tenuto in subbuglio il Paese coi loro scioperi selvaggi, le loro violenze, il loro insurrezionalismo velleitario e parolaio. E il 4 novembre le cerimonie per il secondo anniversario della vittoria, che l’anno prima Nitti si era rifiutato di celebrare per paura di disordini sovversivi, si erano svolte solennemente e senza incidenti.
Ma la prova più convincente della generale volontà di pace l’aveva offerta la liquidazione dell’avventura fiumana. Nitti non aveva osato scacciare D’Annunzio dalla città: era sicuro che non solo i nazionalisti avrebbero messo a soqquadro le piazze, ma che anche l’Esercito, o almeno alcuni suoi reparti, avrebbero disobbedito e solidarizzato col Poeta. Giolitti ritenne che questo pericolo fosse ormai dileguato, e i fatti gli dettero ragione. Quando il generale Caviglia gl’ingiunse di sgombrare la città, invano il Poeta lanciò un drammatico appello all’Italia perché scendesse per le strade a impedire il «Natale di sangue» o a vendicarlo. Stanca dei suoi istrionismi, l’Italia non si mosse, i soldati fecero il loro dovere, e il Poeta dovette malinconicamente ritirarsi nella sua villa di Gardone biasciando invettive contro una patria a cui le feste sembravano stare più a cuore dell’italianità di Fiume.
Quest’ultima mossa, che ci riaccreditava presso gli Alleati e segnava la fine di una pericolosa tensione con la Jugoslavia, Giolitti non l’aveva tuttavia improvvisata. Essa era il frutto di una lunga e delicata manovra sotto banco, intesa a isolare D’Annunzio da Mussolini. Questi era stato, almeno a parole, il più grande sostenitore dell’impresa fiumana. Ma Giolitti si era accorto che si trattava appunto solo di parole. In realtà Mussolini aveva dato a D’Annunzio il suo appoggio perché questo attirava molte reclute sotto la bandiera della forza politica ch’egli aveva cominciato a organizzare fin dal marzo del ’19: il Fascio. Ma di D’Annunzio voleva servirsi, non servirlo. Per cui dapprincipio agì come suo luogotenente; ma poi, via via che la sua forza cresceva e gli entusiasmi per Fiume s’intiepidivano, cominciò a prendere da lui le distanze, anche se non scopertamente.
Di questa complessa vicenda, daremo maggiori dettagli più avanti. Ma per ora si può, all’ingrosso, riassumerla così. La prima seria frizione fra i due uomini avvenne al momento del trattato di Rapallo che lasciava la Dalmazia – meno Zara – alla Jugoslavia, e faceva di Fiume una «città libera», cioè un piccolo Stato indipendente. Mentre D’Annunzio definiva questo trattato «un tradimento», Mussolini sul «Popolo d’Italia» lo salutava come «il minore dei mali». Questo gli valse la defezione di alcuni seguaci, indignati dal «voltafaccia», ma gli procurò un alleato, Giolitti, che della rottura fra i due uomini approfittò per isolare e liquidare quello ch’egli considerava il più pericoloso. Naturalmente Mussolini insorse contro il «Natale di sangue» e denunziò con parole di fuoco il «fratricidio». In realtà era ben contento della ingloriosa fine dell’avventura fiumana, che lo liberava di uno scomodo alleato e di un pericoloso rivale.
A Mussolini, Giolitti non dava molta importanza. Era convinto che il suo Fascio non fosse che uno dei tanti «gruppuscoli» nati nel disordine del dopoguerra e destinati a dissolversi con la normalizzazione. Anzi si proponeva di strumentalizzarlo per tenere in rispetto i socialisti. E lo disse anche a Sforza, che invece se ne mostrava preoccupato: «Sono dei fuochi d’artificio, che fanno molto rumore ma si spengono rapidamente».
E mai pronostico ebbe una più clamorosa smentita.
Benito Mussolini era nato nell’83 a Dovia, una frazione di Predappio in quel di Forlì. Suo padre Alessandro veniva da una famiglia di piccoli coltivatori diretti che, andati in rovina, avevano dovuto vendere il podere, e gestiva un’officina di fabbro, ma ci si dedicava poco, tutto preso com’era dalla politica. Militava nel partito socialista, che allora si chiamava «internazionalista» e che ancora non si era liberato dalla sua matrice anarchica. Di questa matrice portava egli stesso ben visibili le stigmate nel suo acceso massimalismo, che gli valse prima l’«ammonizione», eppoi la prigione per sei mesi. Ammiratore di Costa e di Cipriani, ebbe anche qualche parte nella politica locale fino a diventare prosindaco. Ma come padre di famiglia lasciava piuttosto a desiderare. A mandarla avanti provvedeva la moglie, Rosa Maltoni, che faceva la maestra elementare e teneva scuola in casa, in una stanzuccia annessa alla cucina. Di estrazione e formazione piccolo-borghese, essa era l’antitesi del marito: devota alla Chiesa e attaccata all’ordine tradizionale. Aveva voluto il matrimonio religioso (e Alessandro se n’era scusato coi «compagni» dicendo: «Sono un ateo, ma un ateo innamorato») e il battesimo dei figli. Ma, quanto alla loro educazione, aveva lasciato fare al marito.
Molti storici dicono che Alessandro contò molto per la formazione di Benito. Ma questo ci sembra che valga solo per il carattere, i cui segni ereditari sono evidenti. Lo stesso nome gli fu dato in omaggio a Benito Juarez, il rivoluzionario messicano che pochi anni prima aveva fatto fucilare l’imperatore Massimiliano, così come suo fratello ebbe quello di Arnaldo in omaggio ad Arnaldo da Brescia. Ma sul piano ideologico non si vede che cosa Alessandro potesse insegnare al figlio perché nella sua testa c’era soltanto una gran confusione, come risulta dai pochi scritti in cui si cimentò, e nei quali si leggono pensieri di questo genere: «Il socialismo è la scienza e l’excelsior che illumina il mondo. È una sublime armonia di concetti, di pensiero e d’azione che precede al gran carro dell’umano progresso nella sua marcia trionfale verso alla gran méta del bello, del giusto e del vero».
Molto più che di questi aforismi, il rivoluzionarismo di Mussolini dovette nutrirsi della miseria e delle frustrazioni che lastricano la sua fanciullezza e adolescenza. Sua sorella Edvige racconta che il bambino rimase muto fino a tre anni, tanto che lo portarono da un dottore, il quale avrebbe risposto: «Parlerà, state tranquilli, parlerà anche troppo»: un oroscopo che ci sembra un po’ costruito a posteriori, e che comunque dapprincipio non trovò conferma. Fino all’età dei pantaloni lunghi, il ragazzo parlò poco e quasi soltanto sotto lo stimolo dell’ira. Solitario e scontroso, trascorreva le sue giornate sui campi senza altri rapporti coi suoi coetanei che di risse e cazzottate. Quando tornava pesto a casa, suo padre l’aizzava a vendicarsene. E questi furono i veri influssi ch’egli esercitò su di lui.
Per fargli finire le elementari, sua madre dovette mettercela tutta. Dopodiché essa esigette che il ragazzo fosse mandato al collegio dei salesiani di Faenza, il quale provvide a dare l’ultimo ritocco alla sua protervia. Abituato a dormire col fratello in cucina su un materasso imbottito di foglie di granturco e a mangiare mattina e sera una zuppa di piada e di verdura, Benito soffrì non della ferrea dieta del refettorio e del pane pieno di formiche, ma della divisione della mensa in tre reparti secondo la classe sociale degli allievi, e della sua relegazione in quella dei poveri. Nemmeno fra di essi si fece degli amici. Per i suoi continui atti di ribellione passò da un castigo all’altro, finché un giorno ricorse al coltello ficcandolo nella coscia d’un compagno. E fu espulso.
A continuare gli studi lo mandarono al Giosuè Carducci di Forlimpopoli, diretto dal fratello del poeta, Valfredo. Benito ci arrivò con l’aureola dell’accoltellatore, che in Romagna è sempre molto apprezzata, ci rimase sette anni, e ne uscì nel 1901 col diploma di maestro. Anche qui trovò il modo di farsi espellere per indisciplina; ma Carducci, che aveva un debole per lui, gli consentì di seguitare a frequentare le lezioni come «esterno». Dalle testimonianze dei suoi compagni di scuola, risulta ch’egli non ne cercò mai l’amicizia, ma solo la sottomissione. Non voleva essere amato, ma solo temuto e ammirato, e per questo ricorreva a gesti teatrali come quando, incaricato dagl’insegnanti di commemorare Verdi, ne prese spunto per uno sproloquio politico contro la borghesia e il capitalismo che mise nei guai il povero Carducci. Come profitto, se la cavava abbastanza bene, ma senza molto applicarsi. Fin da allora rivelava una straordinaria facilità a impadronirsi subito d’un argomento riducendolo all’essenziale: il che gli evitava lo sforzo di approfondirlo. Ma sui libri di testo ci stava poco. Preferiva i romanzi, soprattutto quelli «sociali» di scuola francese, da Hugo a Zola; e per leggerli in pace si ritirava nella torre campanaria. Ma seguiva anche i giornali, quando riusciva a procurarsene.
Sui sedici anni prese contatto con la locale sezione socialista, ma non risulta che vi abbia militato attivamente. Infatti non ostentò mai il distintivo d’obbligo dei socialisti romagnoli: la cravatta rossa. Rimase sempre fedele a quella nera, ch’era il distintivo, altrettanto d’obbligo, dei repubblicani. Anche come letture, alla politica non dedicava molto tempo, forse svogliato dai cattivi compendi di marxismo che suo padre gli aveva propinato da bambino, e oltre i quali sarebbe andato poco anche da grande. Il suo socialismo era quello de I miserabili, nonché degli opuscoli e degli articoli di Costa, di Cafiero, di Cipriani e degli altri «internazionalisti» che allora andavano per la maggiore. Forse l’unico classico del socialismo che gli entrò nel sangue come il più congeniale fu Babeuf, di cui lesse quasi tutto e su cui compose anche delle cattive poesie di stampo carducciano. Come non ebbe amici, così non ebbe amori. La sua scuola di galanteria fu il bordello, di cui conservò sempre lo stile grossolano e spicciativo. Orgoglioso della propria virilità, la trovava incompatibile con l’abbandono e la tenerezza. Delle molte donne della sua vita, non si concesse a nessuna, tranne forse l’ultima, Claretta. Le prendeva come il gallo prende la gallina.
Il diploma di maestro con cui tornò a casa nel 1901 non gli servì a trovare un posto. Cercò di rendersi utile dando una mano al padre nell’officina, ma con poco costrutto perché entrambi detestavano il lavoro; e intanto prendeva lezioni di violino da un maestro locale, un certo Montanelli, che bene o male gl’insegnò a strimpellarlo. Sebbene seguitasse a proclamarsi socialista, attività politica non ne svolse. Le sue ambizioni sembravano più che altro letterarie perché la maggior parte del tempo lo passava a buttar giù abbozzi di romanzi che poi lasciava regolarmente a mezzo. Finalmente il comune socialista di Gualtieri gli offrì una supplenza, che gli servì solo a capire di essere poco vocato alla pedagogia. Alla fine dell’anno scolastico egli scrisse all’unico compagno di scuola con cui era rimasto in corrispondenza, Bedeschi, che lasciava il posto perché non lo pagavano abbastanza. Ma mentiva. Non gli rinnovavano l’incarico perché, appena arrivato, aveva sedotto una giovane sposa che, cacciata di casa dal marito, era andata a vivere con lui: cosa che aveva scandalizzato anche i socialisti, propugnatori del libero amore, purché praticato lontano dalle loro mogli.
Fu allora che decise di emigrare in Svizzera.
Vi giunse nell’estate del 1902, e ci rimase quasi due anni e mezzo, salvo un breve rimpatrio per una malattia di sua madre. Fu, per la sua formazione, un periodo importante, ma non per l’esperienza proletaria vissuta e sofferta deliberatamente, come dicono alcuni suoi apologeti. Mussolini fece anche il manovale, il magazziniere e altri umili mestieri perché le circostanze qualche volta ve lo costrinsero. Ma in realtà sin dapprincipio egli cercò di mettere a frutto la propria superiorità d’intelletto e di cultura sugli altri emigrati – povera gente analfabeta o semianalfabeta – dandosi ad attività organizzative e propagandistiche. Che la politica seguitasse a interessarlo relativamente, lo dimostra il fatto ch’egli non cercò contatti con l’ambiente internazionale dei rivoluzionari europei, che allora avevano in Svizzera una delle loro più fiorenti centrali. Fra gli altri c’era anche Lenin, con cui pare che una volta si sia incontrato ma senza sapere chi fosse perché portava un altro nome. Mussolini non era attratto dai loro problemi dottrinari. Voleva soltanto risolvere quello suo personale con qualche attività che lo esentasse dal lavoro manuale. E perciò prese contatto col sindacato italiano dei muratori da cui ebbe un sussidio, e col giornale «L’avvenire del lavoratore», di cui ottenne la collaborazione. Furono questi i primi effettivi rapporti ch’egli strinse col partito socialista, e lo fece per sbarcare il lunario. I proventi che ne ricavava erano scarsi. Ma ebbe modo di rivelarsi anche a se stesso, come un efficace comiziante e un polemista incisivo. Sebbene poveri di contenuto e ancora pieni di smagliature, sul livello medio della pubblicistica socialista di allora, i suoi articoli facevano spicco per concretezza e polposità.
Un incidente contribuì a rendere vieppiù popolare il suo nome. Dopo un comizio a Berna in cui aveva incitato alla violenza, fu arrestato e dopo due settimane di prigione accompagnato alla frontiera. Ma in Svizzera le misure di polizia hanno vigore soltanto «cantonale», cioè regionale. Sicché l’espulso poté rientrare da un altro Cantone, quello di Losanna, dove lo richiamava una bella studentessa polacca con cui aveva intrecciato relazione. E fu qui che tornò dopo il breve rimpatrio per la malattia di sua madre. In Italia non voleva restare perché di lì a qualche mese la sua classe sarebbe stata chiamata di leva, ed egli aveva deciso di non presentarsi per manifestare pubblicamente il suo antimilitarismo. Infatti nell’aprile del 1904 fu dichiarato disertore e condannato a un anno di reclusione.
Un altro episodio che contribuì alla sua popolarità fu un pubblico contraddittorio con un pastore protestante sull’esistenza di Dio. Raccolti in opuscoli, gli argomenti addotti da Mussolini per negarla appaiono ben povera cosa. Ma ce ne fu uno che trascinò dalla sua l’uditorio. Cavando di tasca l’orologio, egli gridò: «Se Dio c’è, gli dò due minuti di tempo per fulminarmi». E incrociando le braccia attese, impavido e teatrale, la folgorazione. Riscosse invece, al termine della suspense, uno scrosciante applauso. Fu uno dei suoi primi riusciti esperimenti di magìa oratoria, che gli valse anche una qualifica di «esperto» di questioni religiose.
In aprile fu di nuovo espulso perché, essendogli scaduto il passaporto e non potendo rinnovarlo per la sua condizione di disertore, ne aveva falsificato la data. Stavolta dovevano consegnarlo alla polizia italiana, che lo avrebbe avviato alla prigione. Ma appunto per questo i «compagni», sia italiani che svizzeri, organizzarono tali manifestazioni di protesta anche sulla stampa e in parlamento che la misura fu revocata, e il reprobo, dopo un breve soggiorno in Ticino e in Savoia, poté tornarsene a Losanna. Fu quella – dirà più tardi nel breve saggio autobiografico scritto nel carcere di Forlì – «un’estate di forte occupazione intellettuale». Mantenendosi alla meglio col solito lavoro propagandistico e integrandone gli scarsi proventi con saltuari impieghi, s’iscrisse all’università per seguire i corsi di Vilfredo Pareto, il grande economista e sociologo italiano che sottoponeva a una critica demolitrice la democrazia e le ideologie che le fanno da supporto. Non è vero ch’egli ebbe rapporti diretti col Maestro, come dicono alcuni suoi biografi. Lo smentisce lo stesso Pareto in una lettera a Placci: «Mussolini venne ai miei corsi, ma io non lo conobbi personalmente». È vero però che il giovanotto rimase fortemente impressionato dalle sue lezioni: non tanto forse per la profondità del pensiero eh’egli non era in grado di penetrare, quanto perché esse fornivano un puntello dottrinario alle sue intuizioni. Il disprezzo per le teorie umanitarie, la giustificazione della violenza come forza motrice della storia e il concetto che questa avesse a protagoniste le minoranze e non le masse, egli già li aveva nel sangue, ereditati dal padre. Ma Pareto glieli mise in bella copia, debitamente autenticati sul piano culturale.
Ora non frequentava più soltanto i poveri manovali, ma aveva allacciato rapporti con persone destinate a contare sul seguito della sua avventura politica. Una di queste era Giacinto Menotti Serrati, un socialista di Oneglia di poca scuola e di scarse e abborracciate letture, ma reduce da avventure alla Jack London. A vent’anni era già delegato al primo congresso del partito, quello di Genova che aveva proclamato la scissione dagli anarchici, dei quali egli fu poi sempre il bersaglio. Lo consideravano un traditore e non smisero mai di denunziarlo come agente provocatore e delatore al servizio della polizia: un’infame calunnia. Tutta la sua vita era stata un andirivieni fra tribunale e prigione, intramezzato da espatrii e rimpatrii clandestini. Aveva fatto il mozzo, lo scaricatore di porto a Marsiglia, il terrazziere nel Madagascar, il giornalista a New York, e finalmente era approdato in Svizzera in qualità di propagandista e organizzatore degli emigrati italiani. La sua amicizia con Mussolini – destinata a sfociare dieci anni più tardi nella più accanita e irriducibile inimicizia – nacque soprattutto da una certa affinità di temperamento. Anche Serrati era un autodidatta e un massimalista, senza originalità di pensiero e istintivamente avverso ai Turati, ai Treves e agli altri «intellettuali» del partito. Ma, a differenza di Mussolini, sapeva anche ridere, almeno fin quando non s’impermaliva perché era suscettibilissimo e incapace di controllare i propri furori. Un personaggio insomma di mediocre levatura, ma rispettabile sul piano umano: coraggioso, generoso, onesto, sincero. Lo dimostrò con Mussolini aiutandolo fraternamente a scalare nel partito posizioni sempre più alte, senza mai ingelosirsene, cosa rara fra i politici. Romperà con lui unicamente per ragioni ideologiche, e da allora gli sarà nemico nella stessa misura in cui gli era stato amico.
Un altro utile incontro fu per Mussolini quello con Angelica Balabanoff, personaggio già di notevole rilievo nel socialismo internazionale. Era una russa di buona famiglia borghese, che fin da giovanissima si era imbrancata con quella intellighenzia rivoluzionaria da cui venivano anche i Lenin, i Trotzky, e gli altri futuri grandi del bolscevismo. A spingervela era stata la ribellione contro la meschinità, lo snobismo provinciale, il sussiego di casta, i tabù del suo ceto. Essa stessa ha raccontato che, per una cerimonia nuziale, suo zio aveva fatto fermare un treno per dare tempo agl’invitati di fare i brindisi d’uso mentre gli altri viaggiatori aspettavano rassegnatamente seduti sui loro bagagli. A ventidue anni era espatriata e aveva girovagato per i Paesi occidentali, guadagnandosi la vita come traduttrice perché aveva, come tutti i Russi, gran disposizione alle lingue, e ne parlava correntemente otto. Gli anni più felici li aveva trascorsi in Italia, dove fra l’altro aveva seguito le lezioni di Antonio Labriola, il più serio interprete di Marx. Ma, a differenza della sua compatriota Anna Kuliscioff con cui non fu mai in buoni rapporti nonostante la comunità di origine e di idee, non era soltanto un’intellettuale del socialismo. Lo praticava da militante, vivendo da proletaria fra i proletari.
Fu così che nel 1902, mentre teneva a Ginevra un piccolo comizio a un gruppo di emigrati italiani, vide fra i suoi ascoltatori un giovanotto dagli occhi sbarrati e dal volto cadaverico sotto la barba mal rasata. Scesa dal podio, volle conoscerlo. Mussolini le si presentò come un disperato, minato dalla sifilide e da una tabe ereditaria, e incapace di sopportare qualsiasi lavoro. Non si è mai saputo con certezza se la sifilide l’avesse davvero. Ma si sa ch’egli se ne faceva quasi un vanto, come di una garanzia di virilità e di successo con le donne. Ad Angelica disse anche che gli avevano offerto cinquanta franchi per la traduzione di un opuscolo di Kautsky, ma che doveva rinunziarci perché non conosceva abbastanza il tedesco. Angelica, che invece lo sapeva benissimo, si offrì di aiutarlo. E così fra i due nacque un’amicizia di cui è difficile stabilire l’esatta natura.
Angelica non era bella, non aveva la grazia eterea ed esangue di Anna. Ma non era nemmeno sgradevole, nonostante i fianchi massicci e gli zigomi pronunciati, eppoi era russa, cosa che faceva grande effetto al piccolo provinciale di Predappio. Anche se fra loro non divampò la passione che aveva legato Anna ad Andrea Costa, qualcosa ci fu, ed ebbe la sua importanza. Angelica cercò d’incivilire quel selvaggio trasandato che passava da ostinati mutismi a interminabili sproloqui conditi di orrende bestemmie. Lo sfamava, gli lavava la biancheria, lo iniziava, sia pure con poco successo, al marxismo, lo difendeva dalle accuse di un’anarchica italiana, Maria Rygier, che lo detestava e diceva di aver le prove ch’egli era al servizio della polizia francese: un’accusa che ogni poco sarebbe tornata a circolare contro di lui e che aveva lo stesso fondamento di quella lanciata contro Serrati. Tuttavia anche Angelica piano piano si rese conto che nel socialismo di Mussolini pesava più l’odio verso i ricchi che l’amore verso i poveri, mentre Mussolini diceva di lei che «nel suo corpo i succhi circolano, ma nella sua mente le idee si disseccano».
Il fatto è che, pur legato a lei sul piano umano, Mussolini repugnava alla sua ideologia. Dopo Pareto, le sue grandi scoperte erano Kropotkin e Sorel. Sono scelte significative. Kropotkin era il grande teorico dell’anarchia che vede nel socialismo un figlio bastardo e degenerato, e Sorel l’esaltatore della violenza come «levatrice della storia». Questi incontri non rimasero senza effetti. Da allora egli cominciò a seguire con attenzione il movimento sindacalista rivoluzionario e i suoi araldi: Arturo Labriola, Olivetti, De Ambris, Panunzio, Corridoni, Orano, alcuni dei quali ritroveremo in posizione di precursori nel composito calderone fascista. Fin allora essi avevano militato come ala rivoluzionaria del partito socialista. Ma nel 1904 ne uscirono e per accentuare la propria indipendenza fondarono un giornale, «Avanguardia socialista». Mussolini cominciò a collaborarvi. Non risulta che s’iscrivesse al movimento. Ma che vi aderisse ideologicamente non c’è dubbio, ed egli stesso lo dichiarò in una lettera a Prezzolini.
Alla fine di quell’anno 1904 un fatto nuovo gli permise di rientrare in Italia. La regina Margherita aveva dato alla luce l’erede al trono, e come sempre capita in occasione di questi fausti eventi era stata promulgata un’amnistia di cui beneficiavano anche i disertori a patto che si presentassero al distretto. Mussolini decise di farlo. La famiglia, che passò a salutare prima di rivestire i panni militari, lo trovò poco cambiato: gli stessi occhi spiritati nel volto ossuto, pallido ed eternamente mal rasato, la stessa scontrosità, gli stessi cupi silenzi interrotti da scoppi di collera a base di turpiloquio.
Fu arruolato tra i bersaglieri e destinato a un reggimento di Verona dove, su segnalazione della questura di Forlì, lo tennero sotto stretta sorveglianza. Ma la sua condotta fu esemplare. Di lì a poco ebbe una licenza per accorrere al capezzale di sua madre, ma non fece in tempo a vederla. Quanto profondo fosse l’affetto che lo legava a lei, non si è mai saputo con certezza. Qualcuno dice ch’egli l’amava teneramente e ne subiva molto l’influenza, ma non ne esistono prove. Nel settembre del 1906 terminò la sua ferma senza il minimo incidente, tanto che insieme al congedo gli rilasciarono un certificato di «buona condotta»: a un amico, il quale lo aveva invitato a svolgere propaganda socialista fra i commilitoni, aveva scritto una lettera di rifiuto.
In famiglia si trattenne due mesi, poi partì per Tolmezzo dove gli avevano offerto un posto di maestro, e fu un altro fiasco. Per sua stessa ammissione, il futuro dittatore non riuscì a tenere in pugno i ragazzacci che gli avevano affidato, ma forse non fu tanto mancanza di energia, quanto di vocazione: alla scuola non era portato, e per di più anche a Tolmezzo incappò in un’avventura galante che fece scandalo perché si concluse a bastonate fra lui e il marito dell’adultera. Dovette tornarsene a Dovia e aspettare il febbraio del 1908 per avere un altro incarico, stavolta a Oneglia.
È curioso che in tutto questo periodo egli non facesse nulla per allacciare rapporti più stretti col partito, come se alla milizia politica repugnasse. Ma Oneglia gli offrì nuove prospettive. Il comune era retto dai socialisti, e a farvi il buono e il cattivo tempo erano Manlio e Lucio Serrati, fratelli del suo buon amico di Svizzera. Essi accolsero Mussolini con calore, e Lucio, che dirigeva «La Lima», lo invitò a collaborarvi.
«La Lima» era una rivista scalcagnata, ma scrivere era per Mussolini l’unico esercizio che veramente lo appassionasse. Al punto che per gli articoli trascurò come al solito gli allievi, e riperse il posto. Siccome «La Lima» non pagava, pur continuando a collaborarvi egli dovette tornare a casa, ma stavolta non vi rimase a macerarsi in lunghe passeggiate solitarie. Era in atto nelle campagne del forlivese una complicata fàida fra mezzadri e braccianti per la gestione delle trebbiatrici. Mussolini v’intervenne parteggiando nei suoi articoli per i braccianti, ch’erano l’elemento più turbolento ed estremista. Così si trovò coinvolto in un tafferuglio che gli valse l’arresto e una condanna a dodici giorni di prigione, ma anche una certa popolarità.
Ora i Mussolini non stavano più a Dovia perché Alessandro si era consolato della sua vedovanza unendosi con una certa Anna Guidi con cui aveva aperto un’osteria a Forlì. Benito rimase con loro due mesi, sempre impegnato a scrivere non più per «La Lima», ma per «Pagine libere», una rivista che il sindacalista Olivetti pubblicava a Lugano, e per il «Pensiero romagnolo», organo della federazione repubblicana, e occupandosi più di letteratura che di politica. Infatti compose anche un lungo saggio sulla narrativa di Beltramelli, che a dire il vero non rivela molto acume critico. Più interessante è una sua postilla a una conferenza di Treves su Nietzsche. Anni dopo egli disse a un intervistatore che Nietzsche egli lo aveva letto e profondamente meditato in Svizzera. Ma fin allora non ne aveva mai parlato. E il sospetto che lo conoscesse solo superficialmente e di seconda mano ci sembra confermato dai tre articoli che gli dedicò su «Pagine libere», piuttosto rozzi e approssimativi. Certamente gli piacque l’esaltatore della forza e lo spregiatore della democrazia, quale egli stesso si sentiva. Ma altro non fu capace di vedere in lui. Tuttavia è significativo questo passaggio: «Le opere di Nietzsche mi hanno guarito del mio socialismo… Mi ha fatto particolare impressione la frase: “vivete pericolosamente”».
Nel febbraio del 1909 partì per Trento, e stavolta senza impegni scolastici. A quanto pare erano stati Serrati e la Balabanoff a procurargli la direzione del periodico socialista locale, L«’Avvenire del lavoratore». Fu la sua prima missione di partito, e non si presentava di facile assolvimento. Trento allora non era austriaca solo perché c’era un prefetto di Vienna. Lo era anche culturalmente. Il partito di gran lunga più forte era quello «popolare», cioè cattolico, che aveva il suo leader in Alcide De Gasperi, deputato al parlamento di Vienna e direttore del quotidiano «Il Trentino». La sua lotta in difesa dell’italianità della provincia non andava oltre l’ambito amministrativo. I cattolici trentini si battevano per l’autonomia, non per la liberazione dal «giogo austriaco», e per questo la loro «base» era così forte: in sostanza erano dei conservatori strettamente legati ai poteri costituiti, cioè al Vescovo e all’Imperatore.
I socialisti erano una esigua minoranza che faceva capo a Cesare Battisti e al suo giornale «Il Popolo»; ma che, più che dal socialismo, traevano la loro forza dall’irredentismo. La loro bandiera era il tricolore anche se al posto dello stemma sabaudo avrebbero preferito la falce e martello. Questo, i socialisti italiani non comprendevano, ma lo comprese Mussolini, che all’irredentismo non si convertì mai, ma se ne servì per i suoi fini di parte. Solo impostando la lotta sul piano della difesa della lingua e della cultura italiana, si poteva sottrarre il socialismo trentino all’influenza emolliente della socialdemocrazia tedesca, da un pezzo convertita agl’ideali e alla pratica del riformismo e del parlamentarismo. Perché le bestie nere di Mussolini seguitavano ad essere queste: nella socialdemocrazia tedesca egli combatteva Bissolati, Turati, Treves, insomma i «notabili» del socialismo italiano.
Questa campagna egli la concluse con una violenza che gettò lo scompiglio nell’ambiente locale avvezzo a tutt’altro galateo polemico. «Pare che consideri la vita pubblica come un torneo d’insulti e di bastonate» scrisse il giornale di De Gasperi, che di Mussolini era il bersaglio preferito. E lo stesso Battisti mostrò qualche volta un certo disagio a tenere le parti di quello scomodo e irruente alleato. Mussolini non dava tregua e non se ne dava. In sei mesi scrisse più di cento articoli, note, corsivi, e perfino racconti. Il giornale era la sua passione: ci passava dodici ore al giorno, in poche settimane ne aveva quasi raddoppiato la tiratura e, per quanto sgradita ai più e ai meglio, la sua prosa aggressiva era riuscita a scuotere la «tradizionale apatia» di quella città. «Mi sono imposto» scriveva al suo amico Torquato Nanni.
Con De Gasperi, oltre a quelli giornalistici, ebbe uno scontro diretto in un pubblico contraddittorio a Untermais, e l’antitesi fra i due uomini si rivelò stridente: all’argomentazione serrata ma incolore di De Gasperi, Mussolini oppose un’eloquenza millenaristica, e il successo di platea fu suo. Nemmeno la colleganza professionale riuscì a gettare un ponte fra loro. Fin dal primo giorno si detestarono, né poteva essere altrimenti, visto che incarnavano non due ideologie, ma due concezioni morali e di vita diametralmente opposte.
Le autorità cominciarono a preoccuparsi di quell’arruffapopolo, e nello spazio di pochi mesi gl’inflissero ben sei condanne, e undici sequestri al suo giornale. In giugno il Procuratore di Stato sollecitò da Vienna un decreto di espulsione, ma Vienna lo condizionò a una «giusta causa» che per il momento mancava. A fornirla fu una perquisizione nell’abitazione di Mussolini in seguito a un furto in una cooperativa, col quale naturalmente egli non aveva nulla a che fare. Vi trovarono alcuni numeri dell’«Avvenire del lavoratore» che non avrebbero dovuto esserci perché colpiti da sequestro, e questo bastò per provocare l’arresto e la denunzia. Il processo si svolse due settimane dopo a porte chiuse, ma nonostante le pressioni di Vienna per una condanna che giustificasse l’espulsione, il tribunale assolse l’imputato e lo sfratto gli fu ingiunto per il mancato pagamento di una precedente ammenda. A Trento ci furono proteste, anche rumorose, ma lo sciopero indetto dai socialisti fu un mezzo fiasco. In realtà la grande maggioranza della popolazione non era affatto scontenta di quella misura che la liberava da uno scomodo ospite. L’espulsione era stata una vera e propria «crisi di rigetto» dell’ambiente. E c’è chi dice che lo stesso Battisti trasse un respiro di sollievo.
Per mancanza di soldi dovette riparare nuovamente a Forlì, dove invano tentò di farsi assumere come redattore al «Resto del Carlino». A tempo perso, dava una mano nell’osteria, e fu così che l’occhio gli cadde sulla figlia della compagna di suo padre, Rachele. La conosceva sin da bambina, ma d’improvviso – come succede alle ragazze di quell’età – la ritrovava donna fatta, e fatta bene. Le fece la corte a modo suo, cioè al modo di un uomo che non era abituato a farla. Una sera la condusse in una balera e, siccome lei ballò con un altro perché lui non sapeva, sulla via del ritorno le fece le braccia nere di lividi, dopodiché le ingiunse di lasciare l’osteria e di trasferirsi in un paese vicino, presso sua sorella. Suo padre e la madre di Rachele erano contrari a quell’idillio. «Non hai impiego, non hai stipendio, hai solo la politica che farà soffrire te e la donna che ti sarà vicina. Pensa a quante ne ha passate tua madre» gli disse Alessandro. Per tutta risposta, Benito trasse di tasca la pistola. «Se Rachele non mi vuole,» disse «qui ci sono sei colpi: uno per lei, gli altri cinque per me.» Come potesse uccidersi cinque volte, Dio solo lo sa, ma era una frase delle sue, che mirava all’effetto, e l’ottenne.
L’indomani raggiunse Rachele entrando come una ventata nella sua stanza, e le disse di sbrigarsi perché aveva molta premura. Essa fece alla svelta fagotto delle sue poche robe, ruppe il salvadanaio, e si lasciò portare dove lui voleva: in due fatiscenti stanzucce di via Merenda a Forlì. Lo racconta lei nel suo libro di memorie e – forse con qualche ritocco, forse con qualche omissione –, è probabile che tutto andasse veramente così. Si sposarono civilmente solo cinque anni dopo, quando già Edda ne aveva quattro, perché per i socialisti il matrimonio era un rito «borghese». Quello religioso lo celebrarono nel ’25, quando lui era già Duce e rimuginava il Concordato con la Santa Sede.
La luna di miele, egli la trascorse arrabattandosi con la penna per metter d’accordo il desinare con la cena, e non sempre ci riuscì. Così nacque, su ordinazione di Battisti che glielo pubblicò a puntate sull’appendice del suo giornale, Claudia Particella l’amante del Cardinale. Le amanti dei Cardinali non portano fortuna agli autori che le prendono per eroine. Ne aveva già fatto l’esperienza Garibaldi, che su una di esse aveva confezionato un polpettone da oscurare la gloria di Calatafimi. A Mussolini non andò meglio, anche se quel centone alla Zévaco, abborracciato e volgare, lo aiutò a sbarcare il lunario. «Un orribile libraccio» egli stesso dirà alcuni anni dopo a Ludwig, dopo aver ordinato alla polizia di farne scomparire fin l’ultima copia.
Ma è curioso, e indicativo del suo polivalente temperamento, che proprio nello stesso periodo egli desse alle stampe anche un saggio politico sul Trentino, che appartiene invece alla miglior pubblicistica del tempo. A suggerirgliene l’idea era stato Prezzolini, il direttore della «Voce» fiorentina. Da parecchio tempo Mussolini era assiduo lettore di questa rivista, che aveva dato un profondo scossone alla cultura italiana mettendone in fuga le tarme, e in cui egli ritrovava molti motivi a lui congeniali: la denuncia dei vizi accademici della nostra cultura, la critica spietata del positivismo con tutti i suoi derivati umanitari e pacifisti, l’apertura alle più moderne correnti di pensiero da James a Nietzsche e a Sorel, ma forse più ancora l’aggressivo stile polemico. Quanto a «mestiere» di giornalista, egli imparò molto dalla «Voce», e specialmente da Papini e da Salvemini. Quando arrivò a Trento, si mise in contatto con Prezzolini. E questi, che dei talenti aveva un fiuto rabdomantico, scoprì Mussolini prima ancora che Mussolini scoprisse se stesso, e lo invitò a collaborare suggerendogli una serie di articoli sull’ambiente locale e i suoi problemi. Tutto preso dal suo «Avvenire», Mussolini non trovò il tempo di scriverli, o forse non lo ritenne opportuno. Ma, tornato a Forlì, si mise al lavoro. E così nacque il Trentino veduto da un socialista, un asciutto libello che rivelava un Mussolini ben diverso da quello, tonitruante e grossolano, che aveva appena firmato L’amante del Cardinale: un Mussolini d’annata, penetrante e senz’adipe. Di soldi, il saggio gliene rese meno del romanzo che gli aveva reso ben poco. Ma lo qualificò come scrittore politico di un certo rango.
«Quello del 1909 fu un ben triste Natale» dirà più tardi. Edda non aveva ancora tre mesi e dormiva nel letto dei genitori, scricchiolante di foglie di granturco, perché non avevano potuto comprare neanche una culla. Curiosamente, Mussolini seguitava a restare piuttosto appartato dai «compagni» di Forlì, e ormai si stava rassegnando a concorrere a un posticino all’anagrafe di Argenta, quando si produsse l’avvenimento che doveva dare la svolta alla sua vita. A Forlì il partito socialista languiva, soverchiato da quello repubblicano che gli chiudeva ogni spazio. «Sono repubblicani anche i ciottoli delle strade» scriverà Nanni, primo biografo di Mussolini. I dirigenti pensarono che bisognava fare uno sforzo, e lo sforzo non poteva essere che un giornale. Officiarono come direttore il loro esponente più in vista, Bonavita; ma questi, oberato dai suoi impegni d’avvocato, declinò. E così si pensò di «ripiegare» su Mussolini. Perché lo consideravano un «ripiego».
Mussolini scelse come testata «La lotta di classe», e condusse il giornale come aveva condotto quello di Trento: scrivendolo quasi tutto di propria mano e assumendo le posizioni più estreme con una violenza che fece colpo persino nel pubblico romagnolo, alla violenza assuefatto da sempre. Fin da principio egli impegnò battaglia su due fronti: da una parte contro i repubblicani, dall’altra contro la direzione centrale del suo stesso partito, allora in mano ai riformisti. Il netto rifiuto di qualsiasi alleanza e compromesso non era certo la tattica più adatta a far proseliti. Ma di questo non si curava, e non ne fece mistero. «Alla quantità noi preferiamo la qualità» scrisse riecheggiando la tesi sorelliana e paretiana delle élites. Secondo lui, solo un pugno di uomini risoluti avrebbero potuto fare la rivoluzione: le masse avrebbero seguito.
Queste erano le sue convinzioni, ma erano anche le tesi che meglio si adattavano alla situazione locale. Un partito esiguamente minoritario, qual era quello socialista di Forlì nei confronti dei repubblicani, non poteva battersi che sull’intransigenza. Infatti, con quest’arma, egli conquistò subito il cosiddetto «apparato» con la nomina a segretario della Federazione. Era la prima carica ch’egli ricopriva nel partito, ma dimostrò di sapersene servire.
Come al solito, le campagne romagnole erano in subbuglio per l’annosa fàida delle trebbiatrici contese fra le cooperative dei mezzadri e quelle dei braccianti. Sebbene il rapporto di forze fosse favorevole ai primi, Mussolini fu per i secondi perché più turbolenti e quindi più facilmente manovrabili su posizioni massimaliste. Perse la battaglia, ma rafforzò la propria «base» nella lotta di «correnti» all’interno del partito, ch’era il suo vero obiettivo. La seconda battaglia fu quella, che allora metteva a soqquadro tutta l’Italia, contro la massoneria. Il partito era diviso perché parecchi suoi esponenti erano massoni. Nonostante il suo irriducibile anticlericalismo, Mussolini fu per l’incompatibilità fra le due professioni di fede, e lo fu al suo solito modo intransigente e categorico: «Il socialismo è movimento; la massoneria immobilità. Il primo è operaio, la seconda è borghese». Sebbene rozzo e sommario, il giudizio colpiva nel segno. La massoneria era la roccaforte dei grandi «notabili», di cui coloro che vi entravano finivano per subire il contagio. Erano le logge le grandi animatrici della politica dei «blocchi», cioè delle alleanze con cui le forze conservatrici cercavano di stemperare nel compromesso quelle rivoluzionarie. Non si era ancora giunti a una decisione. Ma il problema costituiva un pomo di discordia, cui un uomo di rottura come Mussolini non poteva rinunciare.
Nel settembre del ’10 si tenne a Milano un congresso nazionale, nel quale Mussolini si schierò, contro la direzione riformista, con la frazione rivoluzionaria di Lazzari, convinto di avere con sé tutti i Romagnoli. Il suo discorso non fu un successo: un giornale parlò di lui come di «un autentico contadino dall’oratoria a scatti». Ma, quel che è peggio, i Romagnoli si divisero: i Forlivesi rimasero con Mussolini, ma i Ravennati si schierarono coi riformisti che vinsero largamente. Mussolini voleva che la sua federazione rompesse subito col partito. Vi rinunziò solo per dare tempo alla frazione rivoluzionaria di preparare una battaglia su scala nazionale. E appena tornato a Forlì riprese in toni ancora più aspri la sua polemica antiriformista. Era chiaro che, per proclamare lo scisma, aspettava soltanto l’occasione.
L’occasione gli fu offerta dalla crisi del governo Luzzatti. Il Re, come voleva la prassi, convocò in Quirinale i capi dei vari partiti, e Bissolati ci andò in rappresentanza dei socialisti. Non indossò l’abito di cerimonia con le code, come prescriveva l’etichetta, ci andò vestito da passeggio, perché alla liturgia i socialisti italiani sono sempre stati molto più sensibili dei preti. Ma anche compiuto senza code, il suo gesto provocò tra loro il finimondo. Mussolini prese la palla al balzo. «Liquidate giolittiano, monarchico, realista Bissolati o cinquanta sezioni federazione forlivese abbandoneranno il partito» telegrafò alla Direzione. E sul giornale sciolse le briglie al suo solito stile di rottura, fatto di perentorie e drammatiche alternative: o con noi o contro di noi, o col Quirinale o col socialismo eccetera.
Bissolati non fu – per il momento – liquidato, e Mussolini tenne parola trascinando la federazione forlivese alla rottura col partito. Il giuoco era pericoloso, ma la posta grossa: se Lazzari e gli altri rivoluzionari lo avessero seguito, egli sarebbe diventato il capo dello scisma su scala nazionale. Non lo seguirono. Anzi, pur apprezzandone le intenzioni, deplorarono il suo gesto come intempestivo, e cercarono di farlo recedere mandandogli anche, in missione di pace, la Balabanoff. Mussolini fu irremovibile: capiva che, dopo aver tanto predicato l’intransigenza, non poteva proprio lui scendere al compromesso. Ma capiva anche che l’isolamento non era, alla lunga, sostenibile. A trarlo dalla scomoda situazione furono gli eventi.
Preparata in gran segreto da Giolitti, la «bomba» della impresa di Tripoli coglieva di sorpresa i partiti. Solo quello nazionalista, da poco costituitosi, vi consentiva pienamente. Gli altri erano divisi, perché divisa era l’opinione pubblica: genericamente favorevoli la media e piccola borghesia; contrarie le classi popolari, ma con molte sfumature e incertezze, di cui anche i partiti risentivano. Quello repubblicano si era spaccato, ma anche quello socialista era in crisi: la maggioranza dei sindacalisti erano favorevoli all’impresa, i riformisti disposti ad accettarla. Ma Giolitti non dette alle polemiche il tempo di svilupparsi, ponendo il Paese di fronte al fatto compiuto.
Per Mussolini, era la grande occasione di uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato, e non se la lasciò sfuggire. Per boicottare l’impresa, lanciò l’idea dello sciopero generale, e stavolta non esitò a far blocco coi repubblicani che a Forlì condividevano la sua posizione estremista, capitanati da un giovane tribuno di facile e vigorosa oratoria: Pietro Nenni. Con lui Mussolini aveva sempre violentemente polemizzato, ma in maniera assai diversa che con De Gasperi. Si odiavano, ma come fratelli, perché a dividerli era soltanto l’ideologia. «Ogni qual volta le circostanze ci permettevano di evadere dalle beghe locali, subito ci trovavamo d’accordo per promuovere, come si direbbe adesso, l’unità d’azione» scriverà Nenni nel ’47, e son parole che gli fanno onore perché in quel momento avrebbe avuto convenienza a dire il contrario. Il 26 settembre insieme essi arringarono, gareggiando in estremismo, una folla «oceanica», e insieme vennero arrestati pochi giorni dopo per istigazione alla violenza e atti di sabotaggio.
Il processo si svolse a metà novembre nella stessa Forlì, ed ebbe una cornice di pubblico da grande «prima». Di fronte a quella imponente e fremente platea, Mussolini la fece da mattatore, chiudendo la propria autodifesa con la famosa frase: «Se mi assolvete, mi fate un piacere; se mi condannate, mi fate un onore», che venne accolta da un crosciante applauso. Lo condannarono, come Nenni, a un anno, che poi la Corte d’Appello ridusse a cinque mesi e mezzo. E fu la sua fortuna. Mentre in cella egli ingannava il tempo scrivendo un’autobiografia che a tutt’oggi rimane uno dei documenti più credibili sul suo conto per sincerità, distacco e senso di misura, dentro il partito socialista il rapporto di forze fra le correnti si capovolgeva, e i rivoluzionari prendevano il sopravvento sui riformisti. Sicché quando, con l’aureola del «martire», egli riprese il suo posto in Federazione e al giornale, poté tranquillamente dire ai compagni forlivesi: «Non siamo noi che torniamo nel partito, è il partito che torna a noi».
Il rientro fu sancito in aprile (del ’12) perché di lì a due mesi doveva svolgersi a Reggio Emilia un congresso nazionale che si annunziava decisivo per il regolamento dei conti fra riformisti e rivoluzionari. È difficile dire se Mussolini si rese esatto conto che lì si giuocava la sua sorte. Ma sappiamo con certezza che durante la vigilia non pensò ad altro. Durante la prigionia, Rachele ed Edda si erano salvate dalla fame grazie ai sussidi dei compagni, e suo padre, colpito da paralisi, era morto. Il fatto che Mussolini non abbia mai parlato dei propri dolori e crucci, o lo abbia fatto con estremo pudore, non esclude che ne fosse duramente provato. Ma il suo pensiero dominante restava la lotta politica: tutte le sue energie erano concentrate lì. Sulla tattica che intendeva seguire al congresso non faceva misteri: «Vi partecipiamo» scriveva «allo scopo di provocare l’espulsione dal partito dei riformisti, deputati o no, tripoleggianti e giolittiani». Era insieme il tasto più popolare e il modo per dimostrare ch’egli non defletteva dalla sua linea.
Il congresso si aprì il 7 luglio, e Mussolini parlò il pomeriggio dell’8. Quando salì sul podio, molti si chiesero chi fosse. I suoi casi non avevano avuto nessuna risonanza nazionale perché di rotture e ricuciture col partito la storia socialista era gremita, e quanto ad arresti e processi non c’era dirigente che non ne avesse subìti. Fuor di Romagna, egli era noto solo ai capi della corrente rivoluzionaria: Lazzari, Serrati, la Balabanoff. Le sue prime parole caddero nella generale indifferenza, ma poi di colpo l’ambiente si scaldò. Il congresso era aperto al pubblico, che vi era accorso in massa, gremiva palchi e loggione, e manifestava la sua appassionata partecipazione applaudendo, fischiando, interrompendo. Questa atmosfera di comizio era la più congeniale a Mussolini che al pubblico, più che ai delegati, immediatamente si rivolse interpretandone perfettamente gli umori barricadieri.
È qui – crediamo – la chiave del suo strepitoso successo. Con la sua oratoria a scatti in cui le pause sembravano contare anche più delle parole, col suo secco e perentorio fraseggiato, punteggiato di battute a effetto facilmente orecchiabili, egli svolse la sua argomentazione assumendosi la parte che più piaceva a quella platea: la parte della «ghigliottina». Chiese l’epurazione dal partito dei «traditori», e ne fece i nomi: Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca. Sapeva di perorare una causa già vinta, ma la battaglia si svolgeva sulla formula della scomunica. I riformisti, accorgendosi di essere ormai in minoranza, si erano spaccati in due sottocorrenti: quella di destra che cercava disperatamente di salvare i quattro reprobi, e quella di sinistra che si sarebbe contentata d’impedirne la squalifica morale dichiarando che il partito li considerava «fuori della sua concezione politica». Alternando l’invettiva al sarcasmo, Mussolini chiedeva invece ch’essi fossero espulsi «per gravissima offesa allo spirito della dottrina e alla tradizione socialista».
La clamorosa ovazione che salutò la fine del suo discorso dimostrò che la «base» l’aveva conquistata. Ma ora si trattava di vedere cosa sarebbe successo in sede di votazione, dove la parola era riservata ai delegati. Ma proprio qui Mussolini dimostrò di non essere soltanto un mattatore da podio. Fra correnti e gruppi egli si mosse, dietro le quinte del congresso, con l’abilità di un consumato professionista per assicurare la maggioranza al suo ordine del giorno. E l’ottenne con largo margine. L’indomani la stampa di tutta Italia parlava di lui come dell’«uomo nuovo» del socialismo italiano, della «stella nascente»; e anche all’estero la sua vittoria veniva commentata con parole elogiose. L’unico che se ne mostrò insoddisfatto e trovò da ridirci fu colui che Mussolini considerava il proprio maestro e ispiratore: Sorel.
Durante il congresso un giornale aveva scritto che l’obiettivo di Mussolini era la direzione dell’«Avanti!». Coglieva nel segno, ma solo per induzione, perché Mussolini si era ben guardato dal dirlo. Egli si mostrava soddisfatto della promozione a membro della Direzione nazionale – quella che oggi si chiama «Comitato Centrale» – ormai saldamente in mano ai rivoluzionari, e non aveva mosso obiezioni alla designazione di Bacci alla guida del giornale. Capiva che si trattava d’un momentaneo ripiego perché Bacci, vecchio e malandato, non era che la controfigura del vecchio direttore, Treves, che, uscito sconfitto dal congresso, non poteva più mantenere quella posizione. Infatti il problema tornò sul tappeto dopo tre mesi, che Mussolini non aveva sprecati.
Tornato a Forlì dopo il trionfo di Reggio Emilia, aveva ripreso il suo posto, ma oltre a dirigere «La lotta di classe», egli ora collaborava alla «Folla» di Paolo Valera nascondendosi sotto lo pseudonimo L’homme qui cherche per muovere al partito delle critiche poco compatibili con la sua qualifica di membro della direzione. Fra queste critiche ce ne furono anche alla conduzione economica dell’«Avanti!» che, secondo lui, era ridotto al lumicino dai troppo grassi stipendi e indennità che distribuiva ai suoi collaboratori. Mussolini era maestro nel mescolare moralismo e demagogia. «C’è stato un tempo» scriveva «in cui il socialismo non era pratico, non era industriale, non era cooperatore, non era bancario; c’è stato un tempo in cui il socialismo significava disinteresse, fede, sacrificio, eroismo. Allora c’erano dei socialisti innamorati dell’ideale, oggi ci sono dei socialisti – i molti, i più – innamorati del denaro.» La botta era diretta a Treves che seguitava a percepire uno stipendio – allora considerato scandaloso – di settecento lire. E sulla base faceva effetto.
In ottobre Bacci gettò la spugna. Fu interpellato Salvemini, sebbene nel partito ci stesse sempre con un piede dentro e uno fuori, ma Salvemini rinunciò. Serrati fu scartato per non provocare la collera e le polemiche degli anarchici che seguitavano a denunziarlo come traditore e spia, sebbene una rigorosa inchiesta avesse dimostrato l’assoluta infondatezza di queste accuse. Mentre si seguitava a proporre candidature e a bocciarle, «La Folla» pubblicava a puntate il discorso di Mussolini a Reggio Emilia, che sui militanti lombardi, i quali ne avevano letto solo qualche riassunto, fece grande impressione.
La Balabanoff dice che a proporre Mussolini fu Lazzari, cogliendo tutti di sorpresa, e che più sorpreso di tutti si mostrò Mussolini, il quale si fece anche pregare. Ci si può anche credere. Come giuocatore, lo era di razza.
Mussolini assunse la direzione dell’«Avanti!» il 10 dicembre del ’12. A Milano si era trasferito da solo, lasciando Rachele e la bambina a Forlì con l’ordine di non muoversi. Non aveva ancora trent’anni. Il suo primo gesto fu quello di ridurre il proprio stipendio da settecento a cinquecento lire e di nominare come caporedattore aggiunto la Balabanoff per usarla come ostaggio: essa contava moltissimo nella corrente rivoluzionaria, di cui la sua presenza garantiva l’appoggio. Mussolini ne aveva bisogno per liberarsi delle influenze riformiste, a cominciare da quella di Treves, che seguitavano a pesare sul giornale.
L’operazione non era facile perché i riformisti, anche se avevano perso la Direzione Centrale, avevano ancora in mano molti centri di potere: il gruppo parlamentare che faceva capo a Turati, «Critica sociale» – la più importante rivista di cultura socialista – e soprattutto la Confederazione Generale del Lavoro che, per strano che oggi possa sembrare, era in mano al riformista Rigola su posizioni più moderate di quelle del partito. Per mettere insieme una squadra sua, egli cercò collaboratori anche fuori del campo socialista, specialmente fra i sindacalisti, ma anche fra i repubblicani, e persino tra gli anarchici. A queste scelte non lo sospinse soltanto il calcolo tattico, ma anche le vecchie simpatie e un naturale rispetto per i talenti. Di questi, molti gliene suggerì Prezzolini, ma altri li scoprì lui, e così l’«Avanti!» diventò la palestra in cui affinarono le armi i giovani destinati a costituire i gruppi più avanzati del pensiero socialista: Ordine nuovo a Torino e Soviet a Napoli. Bordiga, che fu di questi, scriveva: «I giovani sono quasi tutti con lui, su cui contano per un rinnovamento del partito». E anche Gramsci gli riconobbe questo merito.
Coi vecchi notabili, dapprincipio fu cauto. I più duri attacchi contro di loro li sferrò, sotto il solito pseudonimo, sulla «Folla» che seguitava a mettergli a disposizione le sue pagine per i bassi servizi. Per l’attacco frontale aspettava l’occasione, e questa gli fu fornita dalle repressioni nelle campagne continuamente in subbuglio. Quando in Ciociaria sette braccianti caddero sotto il fuoco dei gendarmi, si scatenò. Assassinio di Stato, La politica della strage, Il silenzio della vergogna, erano i titoli degli editoriali di Mussolini, che di titoli era maestro. La sua prosa incendiaria colpiva e moltiplicava i lettori. E fu facendo leva su questo successo di pubblico ch’egli impose alla Direzione le sue tesi estremiste, come quella che la risposta agli eccidi popolari non poteva essere che lo sciopero generale, in aperta polemica con Turati e Treves. Costoro, spinti dalla Kuliscioff, cercarono di organizzare, all’interno del partito, un fronte contro di lui. E Mussolini rispose sull’«Avanti!» accusandoli di essersi messi contro il partito, del quale così si atteggiava a unico interprete.
Stavolta anche i suoi amici rivoluzionari cominciarono a preoccuparsi, e lo stesso Serrati, che lo aveva sempre sostenuto, si dissociò da lui. Ai primi di marzo la Direzione si riunì per risolvere il caso. In una lettera a Turati, la Kuliscioff si diceva sicura che ormai contro Mussolini si era formata una maggioranza, e forse era vero. Ma Mussolini aveva in tasca due briscole invincibili: un processo in corso per istigazione alla violenza, che costringeva moralmente il partito a confermargli la propria solidarietà, e il massiccio aumento della tiratura del giornale, che dimostrava la «presa» esercitata dal suo direttore sul pubblico. Mussolini uscì confermato. E da allora fu un seguito di colpi uno più spericolato dell’altro, ma che obbedivano a un preciso disegno tattico: scavalcare a sinistra anche la Direzione rivoluzionaria appellandosi direttamente alla base.
Lo si vide dalla disinvoltura con cui liquidò la Balabanoff – che pure era stata una delle sue maggiori sostenitrici –, non epurandola, ma mettendola in condizione di andarsene, e dall’atteggiamento che prese nei confronti dei sindacalisti. L’anno prima costoro avevano secessionato anche dalla Confederazione del Lavoro per costituire l’USI, cioè una Unione Sindacale Italiana indipendente dal partito. Il suo animatore era Filippo Corridoni, un giovane tribuno che esercitava sulle masse un forte fascino e che infatti aveva già raccolto sotto le proprie bandiere oltre centomila seguaci. Il partito naturalmente era per la Confederazione che, sebbene tuttora in mano al riformista Rigola, manteneva con esso dei legami almeno ideologici. Mussolini dapprima non prese posizione. Ma quando Rigola sconfessò uno sciopero bandito dall’USI, egli a sua volta sconfessò Rigola appoggiando Corridoni. I riformisti tornarono nuovamente all’attacco di Mussolini chiedendone la testa. Ma proprio in quel momento l’arresto e la condanna di Corridoni provocavano la violenta reazione della massa operaia che, infischiandosi della Confederazione, iniziò un altro sciopero, di cui Mussolini assunse risolutamente il patronato.
Definito «il neo-Marat dell’“Avanti!”», subì attacchi feroci. «Che è» si domandava Turati su «Critica sociale» «questa voce e questa parola, che vorrebb’essere voce e parola d’un partito d’avanguardia? Religione? Magismo? Utopia? Sport? Letteratura? Romanzo? Nevrosi?» Ma agli operai il senso di queste domande sfuggiva, mentre non sfuggiva quello degli articoli di Mussolini che la via per colpire il cuore e l’immaginazione del lettore la trovavano sempre. Quando in luglio la Direzione si riunì per pronunciarsi sulla linea politica dell’«Avanti!», questa fu approvata con sette voti favorevoli – fra cui quello del Segretario generale, Lazzari –, tre contrari e due astensioni: quelle della Balabanoff e dello stesso Mussolini. Il quale, non contento della vittoria ai punti, presentò le dimissioni per farsele respingere all’unanimità. Il successo popolare lo rendeva intoccabile, e l’apparato vi s’inchinava.
A questo punto però si vide che Mussolini non era soltanto l’uomo che «si esalta nell’ardore della folla, s’illude e s’inebria se vede in piazza cento persone che gridano», come lo definiva il suo amico-nemico Zibordi. Lungi dall’ubriacarsi di quel trionfo e da perdervi il senso della misura, egli ve lo ritrovò. In vista delle elezioni che si dovevano tenere in autunno, egli si allineò disciplinatamente sulle posizioni del partito. Quando i sindacalisti indissero un nuovo sciopero, non ne prese le parti. E quando lo sciopero fallì, li attaccò con la stessa violenza con cui pochi mesi prima li aveva sostenuti. Accettò anche di portarsi candidato nel collegio di Forlì – dove sapeva di non poter nulla contro il rivale repubblicano –, lui che a Milano avrebbe stravinto. Ma il fatto è che al seggio parlamentare non teneva: il suo traguardo era il partito.
Le elezioni furono, per i socialisti, un notevole successo. Malgrado l’amputazione dell’ala bissolatiana, essi passarono dall’8 all’11 per cento e mandarono in parlamento 53 deputati. Mussolini esaltò la vittoria con articoli trionfalistici, e ne aveva di che: quella vittoria era in gran parte sua, cioè della linea politica seguita dall’«Avanti!». Ora si trattava di tradurla in un’adeguata posizione di potere. E l’occasione stava per presentarsi: il congresso nazionale che doveva tenersi ad Ancona nella primavera del ’14. Non mancavano che pochi mesi.
In questo intervallo egli badò soltanto a presentarsi come l’alto interprete del socialismo rivoluzionario, e per non lasciarsi coinvolgere in beghe di correnti e di gruppi scrisse pochi articoli, e così pacati che non sembravano nemmeno della sua penna. Gran parte del suo tempo preferì dedicarlo a una rivista, «Utopia», di cui evidentemente voleva fare il contraltare di «Critica sociale», l’organo dei riformisti, per batterli sull’unico terreno di cui essi erano tuttora gl’incontrastati padroni: quello ideologico. Ma l’iniziativa riuscì soltanto a dimostrare i limiti di Mussolini che, efficacissimo e rullante come un tamburo nell’articolo di battaglia vergato a caldo sotto lo stimolo degli avvenimenti, quando si trattava di elevarsi sul piano della dottrina perdeva il filo e annaspava. Gliene mancava la cultura cui, dai tempi della Svizzera, aveva aggiunto ben poco. Di libri per mano glien’erano passati. Ma per sua stessa ammissione ne leggeva solitamente «tre pagine al principio, tre nel mezzo, e tre in fondo». Gli autori che più spesso citava, oltre i soliti Sorel e Pareto, erano Kautsky e la Luxenbourg, ma c’è da dubitare che li conoscesse veramente. Quanto a Marx, più che quello che aveva detto, sapeva quello che gli attribuivano i suoi divulgatori, e forse i più superficiali. Qualcuno dice che per il lavoro meditato e a lungo respiro gli mancava il «fiato». Questo non è vero. Quando poteva derivarne la materia dall’osservazione e dall’esperienza, Mussolini era capace di saggi notevoli come quello sul Trentino, e autentiche qualità di scrittore riveleranno più tardi certe pagine del suo Parlo con Bruno. Ma il suo disagio è evidente, per mancanza di puntelli e di riferimenti, sul piano concettuale. Di suo, su «Utopia» scrisse poco e non riuscì nemmeno a scegliere dei collaboratori che le dessero una linea. Ancora una volta i migliori successi li ottenne come oratore, quando si mise in giro per l’Italia come conferenziere. Anche sul pubblico dei teatri, molto più esigente di quello delle piazze, il suo sapiente dosaggio di raffiche e pause fece effetto. Perfino Salvemini e Prezzolini, che lo udirono a Firenze, ne riportarono una profonda impressione.
Alla vigilia del congresso, stese il bilancio del giornale. Nei pochi mesi della sua direzione, la tiratura era passata da 30 a 70.000 copie con punte di 100.000. Dopodiché partì per Ancona. Il congresso si aprì il 26 aprile con la solita relazione del Segretario generale Lazzari, piuttosto pedestre. Nemmeno quella di Mussolini fece spicco. Ma il fatto è che non ci fu battaglia per mancanza di avversari. Allegando ragioni di salute, Turati aveva dato forfait, e degli altri riformisti l’unico che tenne la posizione fu Treves: Modigliani si allineò con la maggioranza, e Zibordi oscillò. La polemica si accese soltanto sulla questione dei massoni, e si concluse con la piena vittoria di Mussolini che impose l’espulsione.
I risultati del congresso non lasciavano dubbi. Lazzari era confermato, ma in quanto aveva fino in fondo sostenuto le tesi di Mussolini, che da quella prova usciva da trionfatore e vero padrone del partito. Non per nulla, a commento conclusivo, «Azione socialista» scriveva che la coppia non poteva essere meglio assortita; ma che, se fosse sopravvenuto il divorzio, la base avrebbe seguito Mussolini, soggiogata e trascinata da «quella figura d’asceta, da quel gesto di persona come agitata da un incubo, da quella voce a mormorio di foresta».
Quando l’arciduca Ferdinando d’Asburgo cadde a Sarajevo sotto le revolverate dei terroristi serbi, Mussolini dette alla notizia poco risalto. Nell’intervallo l’Italia era stata scossa da violente agitazioni ch’erano culminate nella famosa «settimana rossa» di Ancona, e in cui per la prima volta Mussolini si era mostrato esitante. Dapprincipio aveva capeggiato con Corridoni le dimostrazioni di piazza, ma poi aveva invitato gli operai a cessare lo sciopero. Gli argomenti non gli mancavano. Quello sciopero, la Confederazione del Lavoro non lo aveva voluto; lo aveva soltanto subìto, e poco dopo disdetto, sicché ora rischiava di sbriciolarsi in iniziative slegate. Ma il Mussolini di qualche mese prima non si sarebbe lasciato influenzare da queste incertezze, anzi ne avrebbe approfittato per assumere ancora più risolutamente la parte di protagonista. Può darsi che, col potere, fosse cresciuto in lui il senso di responsabilità. Ma forse c’entrava anche una certa delusione, che del resto trapela da alcune sue lettere di questo periodo. Non amava il partito: lo dimostrava la scarsa partecipazione che aveva sempre dato alla sua vita, e il modo stesso in cui lo aveva conquistato, dal di fuori, non dal di dentro dell’apparato, come avevano fatto e facevano gli altri dirigenti. Probabilmente non credeva nel potenziale rivoluzionario dei socialisti, e considerava le loro agitazioni delle «quarantottate» senza costrutto. Nel fare il bilancio della settimana rossa egli ritrovò i suoi toni taglienti e perentori, ma solo per chiedere la testa di Rigola, che infatti fu costretto alle dimissioni. Altrettanta grinta mostrò contro un rinnovato attacco dei riformisti. Ma insomma crediamo che valga il giudizio espresso dopo la sua morte da Nenni: «Plebeo era, e pareva che volesse restare, ma senza amore per le plebi. Negli operai ai quali parlava vedeva non dei fratelli, ma una forza, un mezzo, del quale potrebbe servirsi per rovesciare il mondo». Ora il mondo voleva ancora rovesciarlo, ma in quella forza cominciava a perdere fiducia. Non è – intendiamoci – che una supposizione. Ma ci sembra abbastanza fondata.
Le revolverate di Sarajevo erano esplose il 28 giugno, e per quasi tutto luglio l’«Avanti!» seguitò a parlarne come di un episodio «doloroso, ma spiegabile», dando poco risalto agli sviluppi diplomatici dell’avvenimento. Solo alla fine del mese, quando giunse la notizia dell’ultimatum austriaco alla Serbia, Mussolini prese una posizione decisa con un articolo intitolato Abbasso la guerra! che trovò consenziente tutta la sinistra italiana, fermamente risoluta anzitutto a non lasciarsi coinvolgere in un eventuale conflitto dalla parte dell’Austria, cui eravamo legati dal trattato della Triplice Alleanza. «Non un uomo, né un soldo» scriveva Mussolini. E il partito lo approvò. Ma quando ai primi d’agosto l’Europa prese fuoco, tutte le potenze scesero in lizza, e all’invasione austriaca della Serbia seguì quella tedesca del Belgio e della Francia, fra Mussolini e l’apparato cominciarono le prime incrinature. L’apparato era neutralista in senso assoluto, Mussolini con alcune riserve che trasparivano dagli stessi titoli del suo giornale: L’orda teutonica scatenata su tutta Europa, La sfida germanica contro Latini, Slavi e Anglosassoni eccetera. Mussolini non era ancora interventista, ma aveva preso atto del fallimento dei partiti socialisti europei, che non solo si erano mostrati incapaci di prevenire il conflitto; ma, una volta scoppiato, si erano schierati coi rispettivi governi borghesi sposandone la «causa nazionale». E la conclusione che ne traeva era questa: che, restando sulla sua posizione neutralista, il socialismo italiano s’isolava da tutti gli altri e dalla stessa storia.
Di questo dissidio, ancora latente, il primo sintomo lo fornì il «caso» Hervé, il socialista francese che si era arruolato volontario. Mentre i dirigenti del partito italiano lo denunciavano come traditore, Mussolini scriveva: «No, Hervé che definisce – come noi pure la definiamo – “immonda” la guerra, non è un guerrafondaio anche se andrà alla frontiera, così come non è un delinquente il pacifico cittadino che deve d’un tratto ricorrere alla Browning per difendersi dall’attacco del bandito. Il militarismo prussiano e pangermanista è, dal ’70 ad oggi, il bandito appostato sulle strade della civiltà europea». Insomma, secondo lui, c’era guerra e guerra: quella difensiva, nemmeno i socialisti potevano rifiutarla a priori.
Fu questo il punto su cui, via via che l’incendio si propagava, il fronte della sinistra si ruppe. Essa aveva unanimemente riecheggiato il grido Abbasso la guerra! finché era in vigore la Triplice che ci avrebbe costretto a combatterla a fianco degli Austro-tedeschi. Ma ora che il governo Salandra, pur senza denunciare quell’alleanza, se n’era ufficialmente disimpegnato proclamando la neutralità, i repubblicani, i radicali e i socialisti riformisti cominciarono a dire che la neutralità non poteva essere che un temporaneo espediente, alla lunga insostenibile. I democratici, scriveva Salvemini, devono rifiutare e combattere l’idea nazionalista di una guerra per scopi imperialistici. Ma, aggiungeva, «per resistere al nazionalismo, bisogna mettersi sul terreno dei concreti interessi nazionali» che esigevano l’intervento al fianco dei popoli che lottavano per la difesa dei nostri stessi valori di civiltà e libertà.
A metà agosto ci fu un colpo di scena. I sindacalisti, che erano la pattuglia avanzata della sinistra rivoluzionaria, avevano indetto un grande comizio. Mancava Corridoni, arrestato pochi giorni prima. Al suo posto, prese la parola suo cognato De Ambris, che non pronunciò la parola «guerra», ma la fece traudire in tutte le pieghe del suo discorso: «Anche il tacere, di fronte a certi delitti, significa complicità… Compagni, vi pongo la domanda: se domani la grande lotta richiedesse il nostro intervento per impedire il trionfo della reazione feudale, militarista, pangermanica, potremo noi rifiutarlo?».
Le sue parole provocarono il finimondo: una parte dell’uditorio acclamò, l’altra – forse la più numerosa – insorse gridando al tradimento, e l’organizzazione sindacale – l’USI – si spaccò. Anch’essi divisi, i capi ottennero un colloquio con Corridoni in carcere. «Ricordo ancora» scrive De Ambris «la commozione che c’invase, quando ai nostri accenni piuttosto cauti, Corridoni proruppe in una delle sue belle risate. Sì, la guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario. Sì, dovevamo volerla e farla…» All’uscita dal carcere, il 6 settembre, Corridoni lo confermò: «La neutralità è dei castrati» disse. Quasi contemporaneamente si rompeva anche il fronte degli anarchici libertari: Rocca, Dinale, e perfino Maria Rygier si dichiaravano per l’intervento. Arroccati su una posizione di netto rifiuto, restavano i socialisti, ma isolati da tutto il resto della sinistra, e condannati a una imbarazzante alleanza con la «maggioranza silenziosa» delle forze moderate e conservatrici che facevano capo all’esecrato Giolitti.
Mussolini si trovava di fronte a una scelta drammatica: istinto e temperamento lo portavano alla guerra, ma la guerra lo avrebbe portato alla rottura col partito e alla perdita della sua tribuna: il giornale. Per la prima volta la sua condotta si mostrò esitante e ambigua. Pubblicò su «Utopia» un articolo di Panunzio in cui si sosteneva che la guerra avrebbe dato al socialismo la vittoria in tutta l’Europa, e sull’«Avanti!» confutò questa tesi in nome dell’ortodossia di partito. Il doppio giuoco non passò inosservato. «La diplomazia diventa sempre più difficile per Mussolini,» scrisse «Azione socialista» «anzi per i due Mussolini, che un bel giorno, riscaldandosi l’ambiente, finiranno col litigare sul serio. Chi dei due vincerà?» Morso sul vivo, Mussolini reagì rincarando sul proprio pacifismo con un’aggressività che dimostrava quanto poco lo avesse nel sangue. Per tenerlo in riga la Direzione gli aveva messo alle costole la Balabanoff, ringhiosa guardiana delle direttive del partito. E ancora alla fine di settembre egli dichiarava guerra ai guerrafondai nel loro stesso tonitruante linguaggio.
Il 18 ottobre (del ’14), la Direzione socialista si riunì a Bologna per fare il punto della situazione. Per strada, mentre si recavano al convegno, i partecipanti comprarono l’«Avanti!», e rimasero di stucco. C’era un lungo editoriale di Mussolini, il cui titolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante già diceva di tutto. Con molta abilità vi era sostenuta questa tesi: che il dilemma – o guerra, o rivoluzione – era pretestuoso e artificioso: «Chi vi assicura che il governo uscito dalla rivoluzione non debba cercare appunto in una guerra il suo battesimo augurale?». E concludeva ponendone un altro a risposta obbligata: «Vogliamo essere, come uomini e come socialisti, gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne, in qualche modo e in qualche senso, i protagonisti?».
Mussolini, che partecipava alla seduta, si trovò immediatamente nell’occhio del ciclone, quasi completamente isolato sotto una grandine di accuse. Le più violente gli furono mosse dai vecchi amici di un tempo: Serrati e la Balabanoff. Egli rispose a suo modo, attaccando invece di difendersi. Ma se aveva sperato di costringere il partito a cambiar rotta mettendolo di fronte al fatto compiuto, dovette amaramente ricredersi perché si trovò del tutto isolato. Con uno dei suoi soliti scatti, rifiutò la proposta di abbandonare per tre mesi la direzione del giornale allegando motivi di salute, e rassegnò su due piedi le dimissioni.
Che a quella decisione dovesse arrivare, erano in molti a prevederlo. Ma perché l’avesse a tal punto precipitata, dal giorno all’indomani, senza un minimo di preparazione, senza nessun tentativo di trarre dalla sua qualche compagno del direttorio, era e rimane un gran mistero. Il giornale, per lui, era non soltanto il mezzo per far sentire la sua voce, ma anche la sua unica risorsa di vita. Infatti, dalla sera alla mattina, si trovò sul lastrico, senza una lira in tasca, e poté tirare avanti solo grazie a duemila lire mandategli dal segretario della Federazione dei Lavoratori del Mare, il sindacalista Giulietti. Contravvenendo all’ordine di non muoversi da Forlì, accorse Rachele con la bambina, per essere accanto nel momento difficile al suo uomo, ma anche per recuperarlo. E ora bisognava provvedere anche a loro.
Molti storici, fra cui anche De Felice, avanzano il dubbio che il suo non fosse stato affatto un salto nel buio in quanto aveva già solide garanzie di poter lanciare un nuovo giornale. Chi scrive crede di poterlo escludere sulla base delle confidenze fattegli in tempi non sospetti (1937) da colui che gliele avrebbe fornite, Filippo Naldi, allora fuoriuscito a Parigi. Naldi era nel ’14 direttore del «Resto del Carlino» di Bologna. Secondo qualcuno, sarebbe stato lui a «lavorare» Mussolini per indurlo a passare dalla parte dell’interventismo su incarico del ministro degli Esteri San Giuliano. Con me, Naldi smentì questa voce e me ne dimostrò l’infondatezza con due argomenti che mi sembrano inoppugnabili: egli era uomo di Giolitti, non di San Giuliano, e questi non era affatto interventista. Da quanto mi disse, le cose si erano svolte così:
Quando Mussolini lasciò l’«Avanti!», sebbene ne fosse stato ricoperto d’ingiurie, Naldi si precipitò a Milano, e si offrì di finanziargli un nuovo giornale. Solo chi non ha conosciuto Naldi può stupirsi dell’offerta e annusarci sotto Dio sa quali intrallazzi. La verità è che Naldi avendo il fiuto degli uomini, e specialmente dei giornalisti, aveva capito che su Mussolini c’era da puntare. E, sebbene soldi non ne avesse nemmeno lui, era sicuro di poterne trovare per il lancio «d’un cavallo di quella razza». Altrettanto sicuro era di poterlo domare e strumentalizzare come elemento di rottura del fronte socialista. Infatti, anche quando il fascismo lo costrinse a riparare all’estero, seguitò sempre a parlare di lui, con un misto di dispetto e di tenerezza, ma senza mai venature di odio, come di un «ragazzaccio» fuorviato da cattive compagnie.
Mussolini, sulle prime, non voleva nemmeno riceverlo, e all’offerta di denaro si adombrò. Ma Naldi, ch’era una sirena, provvide subito a rassicurarlo: sarebbe stato, disse, denaro pulito e senza condizionamenti: Mussolini sarebbe stato libero di difendere le cause che voleva, senza risponderne a nessuno. E su questa condizione l’intesa fu raggiunta. Resta da sapere dove Naldi attinse il mezzo milione che poi versò a Mussolini. A me disse che lo raggranellò da varie parti interessate non all’intervento, ma alla rottura del fronte socialista. Ma negò recisamente di averlo avuto dall’ambasciatore francese, Barrère, e di questo sono oramai tutti, o quasi tutti persuasi. Dai francesi ricevette aiuti più tardi, ma gli vennero dai socialisti. Mussolini non cambiò idea per prendere dei soldi. Prese dei soldi per difendere la sua idea.
È su questa idea, caso mai, che forse commise un errore. Lanciando «Il popolo d’Italia», egli credeva probabilmente di trascinarsi dietro il partito socialista, o almeno di crearvi una forte scissione. Glielo aveva fatto credere la valanga di consensi che gli era piovuta addosso da parte di quei gruppi sindacalisti, riformisti, repubblicani ed anche anarchici che si stavano convertendo all’interventismo. Ma aveva sottovalutato la compattezza del partito con cui ora doveva fare i conti.
«Il popolo d’Italia» uscì il 15 novembre, venticinque giorni dopo le dimissioni di Mussolini dall’«Avanti!». In tre settimane Naldi aveva trovato una vecchia tipografia e allestito una redazione di poche stamberghe ammobiliate con casse e cassette. In due ore era già esaurito nelle edicole, e nei giorni successivi la tiratura non fece che aumentare fino alle centomila copie. Sotto la testata, esso recava la dicitura: «Quotidiano socialista». Ed era soprattutto questo a disturbare l’«Avanti!» che passò alla controffensiva lanciando il ritornello: «Chi paga?».
Il 24 Mussolini fu convocato di fronte alla sezione socialista milanese, cui era iscritto, per rispondere del «tradimento». E vi si presentò. Fu una scena da «tribunale del popolo» che tuttavia non dovette dispiacere al suo teatrale temperamento. Alla presenza di Serrati, Balabanoff e altri massimi dirigenti, egli fu sottoposto a un autentico linciaggio in un coro d’insulti, fischi e schiamazzi. Quando fu chiamato sul palcoscenico per difendersi, fu bersagliato da una grandine di monetine che volevano dire: «Venduto». Invano Serrati, per dargli modo di parlare, si sbracciava a chiedere silenzio. Terreo in volto e màdido di sudore, Mussolini riuscì solo a far traudire qualche frase smozzicata: «Sono pronto a sottomettermi a qualsiasi commissione d’inchiesta… Sono e rimango un socialista…». Alla fine, alzando la voce fino a dominare il tumulto, gridò: «Voi credete di perdermi. V’illudete. Voi mi odiate perché mi amate ancora…». Le ultime parole si persero fra urli e sghignazzate.
Cinque giorni dopo la Direzione si riunì al gran completo per esaminare il caso. Alcuni proposero di sottoporre Mussolini a inchiesta, ma l’espulsione era ormai decisa: restava solo da sceglierne la motivazione. Zerbini ed altri chiesero che venisse pronunciata per indisciplina. Ma Serrati e la Balabanoff furono irremovibili e trascinarono la maggioranza: Mussolini veniva radiato per «indegnità morale».
Una certa reazione in seno alla base ci fu. Al Circolo Cattaneo trecento giovani socialisti secessionarono dal partito, altri gruppi in Lombardia e Romagna presero le parti del «perseguitato» sino a farsi espellere. Ma il grande scisma in cui forse Mussolini aveva sperato non ci fu: la forza coagulante che sempre sprigionano i partiti di massa ebbe la meglio e piano piano riassorbì parecchi di quei transfughi. Plausi e adesioni piovvero invece da altri gruppi. A nome della «Voce», Prezzolini gli telegrafò: «Partito socialista ti espelle, Italia ti accoglie», Salvemini gl’inviò un caldo messaggio, e tutta la stampa dell’interventismo di sinistra – radicale, repubblicano e socialista riformista – si schierò compatta in suo favore. Particolarmente entusiasta fu il Fascio Rivoluzionario di Azione Internazionalista che si era costituito a opera dei sindacalisti corridoniani. Sicché Mussolini mantenne i suoi galloni di Generale, ma di un altro esercito.
Alcuni suoi apologeti scrissero più tardi che fu questo esercito a trascinare, sotto il suo comando, l’Italia in guerra. Questo è falso. Sotto la bandiera dell’interventismo sischierava un coagulo di forze disparate che non riuscirono mai a fondersi, e che si possono aggruppare in tre blocchi. Il più consistente e agguerrito era quello di destra, dominato dai nazionalisti, che avevano il loro bardo in D’Annunzio. Le sue schiere non erano numerose, ma potevano contare sull’appoggio di buona parte della cultura e dei giornali che esercitavano la più forte influenza sull’opinione pubblica moderata, «Corriere della Sera» in testa. Esso voleva la guerra non tanto per il riscatto delle province irredente, quanto per la promozione dell’Italia al rango di grande potenza militare e coloniale. Poi c’era il blocco di centro, costituito dai socialisti riformisti di Bissolati, dai radicali e da una parte dei repubblicani che vedevano nell’intervento la difesa degl’ideali democratici, in omaggio ai quali essi rinunziavano a qualsiasi annessione di terre etnicamente non italiane. Terzo, il blocco di sinistra, cui facevano capo la frazione più estremista dei repubblicani, gli anarchici dissidenti e i Fasci di azione che, in omaggio al concetto sorelliano della «violenza levatrice della storia», vedevano nella guerra il prologo e lo strumento di una rivoluzione che spazzasse via la vecchia Italia e tutte le sue istituzioni, a cominciare dalla monarchia.
«Il popolo d’Italia» prese subito le distanze dai nazionalisti che a loro volta non riconobbero mai in Mussolini un loro alleato, e anzi lo trattarono sempre con avversione e diffidenza. Ma seppe abilmente conciliare le tesi di tutto l’interventismo democratico, di centro e di sinistra, che non disponeva di altro quotidiano. Così egli si trovò accanto ai Bissolati, ai Bonomi, ai Cabrini che tre anni prima aveva fatto espellere dal partito, e che furono i primi a tendergli la mano. Questo coacervo di forze ebbe certo la sua importanza per l’entrata dell’Italia in guerra in quanto rompeva il fronte della sinistra pacifista, ma non ne fu l’elemento decisivo: l’uditorio a cui si rivolgeva, le masse socialiste e cattoliche, rimasero sorde ai suoi appelli anche perché composte in gran parte di analfabeti. D’Annunzio e il «Corriere della Sera», che si rivolgevano alla borghesia, pesarono molto più di Mussolini, il quale dovette trovare in questo la verifica del suo vecchio convincimento che a contare erano solo le minoranze.
Fra i collaboratori del «Popolo d’Italia» c’era di tutto, da Prezzolini a Papini a Nenni a Maria Rygier, ma il gruppo più compatto era quello dei sindacalisti, capeggiati da Panunzio e Lanzillo. C’era uno dei maggiori poeti del tempo, Umberto Saba. E c’era anche, più piacevole e meno ingombrante della Balabanoff, una bella ebrea dai capelli rossi: Margherita Sarfatti, che al direttore non prestava soltanto la sua penna. Salvemini non si era arruolato nella pattuglia, ma la secondava vigorosamente dal di fuori, come facevano Corridoni e De Ambris.
Mussolini tenne la rotta polemizzando aspramente sia coi nazionalisti che coi socialisti, passati subito all’attacco sul solito ritornello: «Chi paga?». Era una volgare calunnia cui Mussolini rispose con una calunnia non meno volgare: risfoderando contro Serrati la vecchia accusa di spionaggio lanciatagli dagli anarchici. Egli ebbe anche due duelli, con Merlino e con Treves. Verso il governo Salandra, assunse una posizione di stimolo, ma anche di sostanziale appoggio. Secondò i Fasci di azione rivoluzionaria nel loro tentativo di fondere sotto la loro bandiera tutto l’interventismo di sinistra. Ma quando questo decise di forzare la mano al governo provocando un incidente alla frontiera con l’Austria, Mussolini lo richiamò al senso della realtà. «Dire che noi faremo la rivoluzione per ottenere la guerra, è dire una cosa che non potremo mantenere: non ne abbiamo la forza.» E caldeggiò la redazione di un documento con cui tutti gl’interventisti di sinistra, fascisti e sindacalisti compresi, s’impegnavano a sostenere anche la monarchia se questa si fosse decisa a condurre l’Italia all’intervento.
Via via che si avvicinava il «maggio radioso», la sua polemica coi nazionalisti s’intiepidiva, mentre quella contro i socialisti e i giolittiani assumeva toni sempre più aspri. «Tu mi chiedi cinque righe di prosa per Giolitti» scrisse a Prezzolini. «Ecco: io vorrei somministrargli cinque palle di revolver allo stomaco.» Il 6, sotto il titolo È l’ora, dedicò un entusiastico commento al discorso di D’Annunzio a Quarto. E quando Salandra, che in tutta segretezza si era già impegnato a Londra con gli Alleati a dichiarare la guerra, accorgendosi che il parlamento era in maggioranza neutralista, diede le dimissioni, Mussolini uscì con questo appello: «Popolo di Milano, a te la parola. Occupa le strade e le piazze. Il tuo grido sia: o guerra o rivoluzione». Ma era disfatto perché alla rivoluzione non ci credeva, e parlava perfino di suicidio. Poi il Re riconfermò Salandra, la guerra fu dichiarata, e coloro che l’avevano voluta ci andarono, da Corridoni allo stesso Bissolati che, malgrado i suoi quasi sessant’anni, si arruolò come sergente fra gli alpini.
Mussolini avrebbe voluto seguirne l’esempio, ma la sua domanda di richiamo fu accantonata. Subito i socialisti ne approfittarono per lanciare contro di lui un nuovo ritornello: «Armiamoci e partite». Ma ancora una volta si trattava di calunnia. Mussolini aveva scomodato tutti i suoi amici di Roma per ottenere il richiamo. Lo Stato Maggiore era ostile ai volontari, e specialmente a quelli di origine socialista, che considerava agenti d’inquinamento per la truppa. Per rivestire il grigioverde, egli dovette aspettare la mobilitazione della sua classe, che avvenne alla fine di agosto.
Al fronte, secondo i suoi apologeti, Mussolini si sarebbe comportato da eroe; secondo i suoi detrattori, da imboscato o quasi. Il più fedele alla verità è stato lui stesso, nel Diario che pubblicò a puntate nel suo giornale. Atti di gran valore non ne compì, forse anche perché gliene mancò l’occasione. Ma fu un buon soldato, coraggioso e disciplinato. I galloni di caporal maggiore non gli furono di certo concessi per un riguardo alla sua persona. Una circolare di Cadorna raccomandava di tenere sotto stretta sorveglianza gl’interventisti socialisti, che oltre alla diffidenza dei comandi subivano l’ostilità dei compagni. La sua domanda di ammissione a un corso per allievi ufficiali venne respinta, e un giorno egli si sentì apostrofare da un fante in questi termini: «Ho una buona notizia da darti: hanno ammazzato Corridoni. Ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti!». Questo era lo stato d’animo che regnava nelle trincee.
Alla fine di febbraio del ’17 un lanciabombe scoppiò vicino a lui, e una gragnuola di schegge lo investì. Gli se ne conficcarono in tutte le parti del corpo, ma specialmente nelle gambe, sicché arrivò all’ospedale quasi dissanguato. Le pinze del chirurgo dovettero lavorare a lungo per estrargliele, e solo dopo un paio di mesi poté ricominciare a camminare, ma con le grucce. In giugno fu congedato per invalidità, e poté riprendere il suo posto alla direzione del giornale.
Era tempo perché, senza di lui, «Il popolo d’Italia» aveva perso smalto e lettori, e anche la sua linea politica aveva subìto parecchie oscillazioni. Mussolini lo rimise sulla sua rotta originaria di organo dell’interventismo democratico, e ve lo mantenne sino a Caporetto. Alla disfatta militare egli fu tra i pochi che seppero reagire senza perdere la testa né cadere nell’isterìa. Ma anche in lui il contraccolpo ideologico fu violento. Come nota giustamente De Felice, fin allora egli era rimasto un socialista, sia pure «dormiente». Ora dal socialismo cominciò a staccarsi forse anche perché l’esperienza di trincea gli aveva dimostrato l’impossibilità di far breccia nelle masse. L’unica carta su cui poteva puntare erano i combattenti che, una volta congedati, avrebbero avuto i loro valori da difendere e loro rivendicazioni da avanzare.
La sterzata in questa nuova direzione fu lenta, ma continua. Caldeggiando il progetto di assegnare in proprietà le terre ai futuri reduci contadini, scriveva: «È tempo che la Patria offra ai combattenti l’attestazione della sua riconoscenza e della sua fiducia». E questo era perfettamente intonato alla sua precedente linea socialista. Ma, aggiungeva, per assicurare alle masse rurali questo beneficio, ci vuole la vittoria. E la vittoria richiede il massimo sacrificio, anche di certe libertà. «Un conto è la democrazia; un conto è la condotta democratica, o piuttosto parlamentare della guerra: la più sublime delle stupidità umane. In tempo di guerra, Roma democratica accettava la dittatura.» Il 1° agosto del ’18, quando ormai il fiato degli Austriaci inchiodati sul Piave cominciava a farsi corto, dalla testata del «Popolo d’Italia» scomparve il sottotitolo: «Quotidiano socialista», e fu rimpiazzato da quello di: «Quotidiano dei combattenti e dei produttori». Nell’articolo di fondo il direttore spiegava così il cambiamento: «Quel “socialista” che figurava in testa al giornale aveva senso nel 1914 e voleva dire che nel 1914 si poteva essere socialisti – nel vecchio senso della parola – e nello stesso tempo favorevoli alla guerra. Ma in seguito la parola “socialista” era diventata anacronistica. Non mi diceva più niente. Offriva anzi tutti gl’inconvenienti della possibile confusione con gli altri…».
C’è chi vede, in questo mutamento di divisa, un fatto traumatico, un rinnegamento, una rottura di Mussolini col suo passato. Noi crediamo che sia più esatto parlare di un suo ritorno alle origini. Mussolini non fu mai un vero socialista. Anche quando spiccava nel partito come figura di primo piano, non lo amava e ne disprezzava gli altri dirigenti. Usava questa qualifica come un’etichetta di comodo per conquistare le masse, alle cui sorti era del tutto insensibile – come aveva ben visto la Balabanoff – e che gl’interessavano soltanto come «materiale rivoluzionario» per la conquista del potere, il suo potere. Quando si avvide – e se ne avvide in trincea – ch’esse non potevano essere usate nemmeno per questo perché di potenziale rivoluzionario non ne avevano, ritornò alla sua vera matrice ch’era quella anarco-sindacalista e «superomista», cioè al solito miscuglio di Nietzsche e di Sorel. Di lì era venuto. E lì tornava.
Probabilmente alla sterzata contribuì anche un motivo più pedestre: le difficoltà economiche in cui «Il popolo d’Italia» si dibatteva. Subito dopo il cambio del sottotitolo, comparve sul giornale molta pubblicità. Era il ringraziamento dei «produttori» all’ex socialista che riconosceva le loro benemerenze e la legittimità dei loro interessi. E fra di essi i più solleciti furono i fratelli Perrone, che dominavano i potenti gruppi della Ansaldo e della Banca Italiana di Sconto. L’Ansaldo aveva fabbricato e venduto al governo più di undicimila cannoni, quattromila aeroplani e quasi cento navi da guerra, ricavando da queste forniture profitti proporzionati, o forse sproporzionati. Che qualche briciola di questi profitti sia finita non nella tasca di Mussolini (l’uomo era, personalmente, inaccessibile al denaro), ma nelle esangui casse del suo giornale, è stato detto, ma non è stato provato. Di provato c’è solo la massiccia pubblicità che le aziende Ansaldo cominciarono a fare sul «Popolo d’Italia». Ma ancora una volta non cadiamo in abbaglio. Mussolini non cambiò rotta per ottenere soldi. Ottenne soldi perché aveva cambiato rotta. Questo cambiamento lo avrebbe operato anche se non ci fosse stato da guadagnare nulla: glielo dettavano il fiuto e il calcolo politico, sua unica e suprema bussola.
La vittoria colse di sorpresa anche lui. Ai primi di ottobre aveva scritto che bisognava prepararsi a un altro anno di guerra e che non importava se questa si fosse decisa sui campi di battaglia francesi invece che su quelli italiani. Era quello che pensavano anche Diaz e Badoglio che non volevano prendere l’offensiva. Ma subito si contraddisse: bisognava «restituire Caporetto», e la vittoria doveva essere italiana. Non se l’aspettava così rapida e facile. Quando venne, scrisse trionfalmente che nessun altro esercito ne aveva riportata di così vaste proporzioni. Ma sotto i toni trionfalistici covava l’assillo di un dopo, a cui non era preparato.
Il suo primo tentativo fu di coagulare intorno a sé e al suo giornale tutto l’interventismo sia di destra che di sinistra, e per realizzarlo lanciò il progetto di una Costituente che, sotto l’egida degli ex combattenti avrebbe dovuto porre su nuove basi la società italiana facendovi largo posto ai lavoratori. Fu un errore. Il fronte interventista ormai era rotto, e per ricucirne i tronconi – quello nazionalista, conservatore e monarchico, e quello democratico, progressista e repubblicano –, non bastava ignorare il problema istituzionale, come faceva Mussolini. La proposta cadde, e Mussolini rimase un Generale alla ricerca di un esercito.
I primi a fornirgli reclute furono i futuristi, che da movimento culturale stavano tentando di trasformarsi in movimento politico senza tuttavia riuscire a coagulare in un programma i loro contraddittori impulsi. In comune avevano solo il passato d’interventisti e valorosi combattenti. Per il resto, c’era di tutto, dal nazionalismo al sovversivismo anarchico, tenuti insieme da un attivismo fine a se stesso: non per nulla il loro motto era «marciare, non marcire». Essi però erano riusciti a legare al loro carro gli arditi che tornavano dalle trincee con la nostalgia della violenza, e ben decisi a perpetuarla. I fasci nacquero dalla loro fusione. Nel febbraio del ’19 ce n’erano già una ventina.
Per i futuristi e per il loro capo Marinetti, Mussolini non aveva mai avuto molta simpatia: li considerava poco meno che ciarlatani, anche se dal ’15 in poi li aveva trattati da alleati e di loro si era avvalso nella comune lotta per l’intervento. Con gli arditi invece aveva stabilito fin dapprincipio buoni rapporti, tanto che aveva anche partecipato ad alcune loro adunate. Il patto fra loro si saldò l’11 gennaio del ’19, in occasione del discorso di Bissolati alla Scala.
Mussolini nutriva per Bissolati un affetto, fra i cui ingredienti forse c’era anche il rimorso. Sette anni prima era stato lui a farlo scacciare dal partito socialista al termine di una veemente requisitoria in cui lo aveva tacciato di traditore. Poi si erano ritrovati sulla barricata interventista, e Bissolati non solo gli aveva perdonato l’aggressione, ma lo aveva anche efficacemente aiutato a superare le sue difficoltà. Ma oltre a questo c’era anche il rispetto che l’uomo ispirava per quelle alte qualità morali che facevano di lui l’incontestato leader dell’interventismo democratico.
Pochi giorni prima, Bissolati si era dimesso da Ministro per protesta contro Orlando e Sonnino che insistevano per l’annessione della Dalmazia. Lo aveva fatto goffamente, da quel maldestro uomo politico che era, senza fornirne i motivi, senza nemmeno informarne i compagni di partito che infatti erano rimasti al governo. In termini amichevoli, ma fermi, Mussolini lo aveva invitato a spiegarsi. E Bissolati aveva risposto indicendo un comizio alla Scala.
Di quella serata, Borgese fece nel suo Golia una ricostruzione forse un po’ colorita dalla fantasia, ma sostanzialmente esatta. Palchi e platea erano in mano ai bissolatiani. Ma il loggione era piantonato da futuristi e arditi. I dissensi cominciarono fin dalle prime frasi, di cui Marinetti salutava la conclusione con uno stentoreo amen! Presto urli e fischi soverchiarono la voce dell’oratore che si smarrì e prese a leggere i suoi fogli senza più articolare i periodi, di furia, per sottrarsi il più presto possibile a quel martirio. A un tratto, fra le altre, egli distinse anche la voce sarcastica di Mussolini che gli gridava: «Rinunciatario!». Volgendosi ai vicini, mormorò: «No, lui no!». Poi, come annientato, ripose in tasca i fogli e uscì.
Mussolini cercò in seguito di farsene perdonare non lesinandogli prove di stima e di affetto. Ma la sua partecipazione alla chiassata era stata calcolata. Aveva voluto rendere pubblica la sua rottura con l’interventismo democratico e la sua saldatura coi fasci futuristi. Ma non si trattava di una scelta di «destra», come poi frettolosamente si disse. Futurismo e arditismo non erano catalogabili secondo questa convenzionale terminologia perché dentro il loro coacervo c’era, lo abbiamo già detto, tutto e il contrario di tutto. Fra i suoi militanti ne ritroveremo alcuni con D’Annunzio contro Mussolini, altri con gli «arditi del popolo» che tenteranno di organizzare uno squadrismo rosso contro quello nero, ed altri ancora che si arruolarono sotto le bandiere repubblicane, fra le più impavide nella resistenza al fascismo.
Il 2 marzo «Il popolo d’Italia» indisse per il giorno 23 una grande adunata di combattenti ed ex combattenti nella sede dell’Alleanza Industriale e Commerciale in piazza San Sepolcro a Milano. «Sarà un’adunata importantissima» diceva il comunicato. Il 9 l’invito fu ripetuto, e stavolta motivato: «Il 23 marzo sarà creato l’antipartito, sorgeranno i Fasci di Combattimento contro due pericoli: quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra». Solo il 18 però Mussolini scese di persona in lizza dedicando all’avvenimento un articolo che ne spiegava il significato: «Tenendoci fermi sul terreno dell’interventismo – né potrebb’essere altrimenti, essendo stato l’interventismo il fatto dominante della Nazione –, noi rivendichiamo il diritto e proclamiamo il dovere di trasformare, se sarà inevitabile anche con metodi rivoluzionari, la vita italiana». In che senso volesse trasformarla non lo diceva, o lo diceva con parole che di senso ne avevano poco: «Noi vogliamo l’elevazione materiale e spirituale dei cittadini italiani», e via divagando. Il 21 venne stilato l’atto di costituzione, e a firmarlo furono tre socialisti, o che si proclamavano tali: Mussolini, Ferrari e Ferradini; due sindacalisti: Michele Bianchi e Giampaoli; e due arditi: Vecchi e Meraviglia.
L’indomani «Il popolo d’Italia» annunciava che l’iniziativa aveva riscosso un enorme successo e che le adesioni fioccavano. In realtà, come risulta da un rapporto della polizia, i convenuti a quella cerimonia di battesimo, di cui per vent’anni tutta l’Italia fu costretta a festeggiare solennemente la ricorrenza, non furono più di trecento, anche se poi l’onore di avervi partecipato fu rivendicato da parecchie migliaia di persone che in qualche modo riuscirono a farselo riconoscere. Il gruppo più compatto era quello dei sindacalisti e degli anarchici che durante la campagna per l’intervento avevano dato vita ai Fasci di azione rivoluzionaria sotto le bandiere di Corridoni e De Ambris. Un altro gruppo era quello dei «trinceristi», fra i quali spiccavano naturalmente gli arditi. Poi c’era la pattuglia dei futuristi, guidata personalmente da Marinetti. E infine un certo numero di avventizi, transfughi da altri movimenti e partiti – tutti però di sinistra –, fra i quali Farinacci. Dei loro nomi non resta traccia perché già al primo congresso dei Fasci, che si tenne due anni dopo a Firenze, questi nomi erano scomparsi, e anzi parecchi di essi figuravano nel campo avversario.
Gli umori di questa assemblea si possono dedurre dal discorso che tenne Mussolini, agli umori sensibilissimo e sempre pronto a intonarvisi. Chiese l’abolizione del Senato, l’estensione del voto alle donne, la convocazione di un’Assemblea nazionale che decidesse la forma istituzionale e in cui i Fasci avrebbero sostenuto la causa repubblicana, e una rappresentanza basata non più sugl’interessi ideologici ma su quelli di categoria professionale, cioè il ritorno alla «corporazione». Ma il tutto in un tono così demagogicamente populista che al suo confronto Michele Bianchi, che prese la parola dopo di lui, sembrò Cavour.
«Il popolo d’Italia» parlò di grande successo e scrisse che i Fasci si stavano diffondendo per tutto il Paese. In realtà dall’adunata di San Sepolcro non era uscito nulla di concreto e quanto alla diffusione dei Fasci, alla fine di quell’anno 1919, contavano in tutta la penisola meno di mille aderenti. Lo stesso Mussolini, cui d’altronde non era stata riconosciuta nessuna qualifica di capo, lo considerò un fiasco, e lo dimostra lo scarso interesse con cui ne seguì gli sviluppi. Se il Fascio ne ebbe sul piano ideologico, questo fu dovuto non a lui, ma a De Ambris.
De Ambris non aveva partecipato alla serata, e nemmeno in seguito fece atto di adesione, ritenendola incompatibile con la sua carica nella USI, che statutariamente vietava l’appartenenza a organizzazioni politiche. Ma nella sua rivista «Rinnovamento» egli appoggiò apertamente il Fascio, e insieme a Lanzillo e a Panunzio cercò di dargli un contenuto programmatico che prevedeva la nazionalizzazione delle Banche, un fisco spietatamente livellatore, l’espropriazione di tutta la terra non coltivata direttamente dal proprietario, quella dei profitti industriali, delle case ad affitto, e dei patrimoni superiori ad un certo ammontare. Insomma, il colpo di grazia al capitalismo.
Mussolini non mosse obiezioni semplicemente perché non credeva all’attuabilità di un simile programma, che avrebbe richiesto una mobilitazione di masse, ormai inquadrate e congelate nei due grandi partiti, quello socialista e quello popolare. Si dice che in questo periodo egli fece qualche tentativo di riavvicinamento ai socialisti. Ma è una voce basata su elementi molto labili. E comunque questo tentativo, anche se ci fu, durò poco, fino al 15 aprile del ’20.
Quel giorno i socialisti avevano indetto all’Arena un grande comizio di protesta perché in un conflitto di due giorni prima con la polizia, c’erano scappati un morto e alcuni feriti. Nazionalisti, arditi e allievi ufficiali inscenarono una controdimostrazione nelle vie del centro dove si scontrarono coi reduci dell’Arena. Li aggredirono a bastonate, li misero in fuga, poi assalirono la sede dell’ «Avanti!» e la devastarono. Esercito e polizia fecero poco per impedire il tafferuglio, al termine del quale restarono sul selciato tre morti e una quarantina di feriti.
L’episodio, il primo di controffensiva squadrista organizzata, fece enorme impressione in tutta Italia, le organizzazioni dei lavoratori bandirono lo sciopero generale, e gli arditi dovettero montare la guardia armata alla loro sede, che per questo da allora si chiamò Il covo. Nell’accaduto, Mussolini non aveva responsabilità, e forse in cuor suo lo deprecò. Ma sul giornale dovette approvarlo definendolo «movimento spontaneo di folla, movimento di combattenti, di popolo, stufi del ricatto leninista», per non rompere con gli unici alleati di cui in quel momento disponeva. Ma questo implicava la rinunzia a qualsiasi speranza di proselitismo nelle masse socialiste, rigettate dal sangue fra le braccia del loro partito. Cercò di riagganciare gl’interventisti democratici, ma questi non gli avevano perdonato la gazzarra inscenata alla Scala contro il loro idolo.
A trarlo da quella situazione che sembrava senza uscita fu la questione fiumana. Alla conferenza della pace di Parigi, i nostri rappresentanti Orlando e Sonnino avevano ricevuto dal Presidente americano Wilson un secco «no» alla richiesta della Dalmazia, promessaci dal patto di Londra del ’15, e di Fiume che si era aggiunta alle altre pretese italiane per pronunciamento dei suoi stessi abitanti. Vedendo vane le loro insistenze, avevano abbandonato il consesso, convinti che questo li avrebbe richiamati, ed erano rientrati a Roma, dove una folla ubriaca di parole e avida di gesti teatrali, li aveva accolti come trionfatori. Erano soltanto degli sconfitti, e piuttosto malaccorti perché fu subito chiaro che gli Alleati erano decisi a concludere anche senza di noi e a nostre spese.
Mussolini, che fin allora aveva sempre sostenuto, sia pure criticamente, Orlando, plaudì alla sua incauta ritirata e chiese a gran voce che l’Italia procedesse di forza all’annessione di Fiume e della Dalmazia. E quando Orlando invece tornò con la coda fra le gambe a Parigi, ruppe con lui e lo attaccò ferocemente. Come in seguito dimostrò, non ardeva affatto di entusiasmo per la Dalmazia. Ma sulla rivendicazione di Fiume anche l’interventismo democratico era unanime. E mettendosene alla testa, Mussolini usciva dall’isolamento.
«Quando la diplomazia non avrà più niente da dire, parlerà qualcun altro, e sarà il popolo fiumano e, accanto, tutto il popolo italiano» scrisse, riecheggiando alcune dichiarazioni di D’Annunzio, che proprio sulla questione di Fiume si preparava a rientrare in scena da protagonista. Mussolini gl’inviò un telegramma di plauso e poi una lettera in cui dichiarava di mettersi «ai suoi ordini». Il Poeta gli rispose: «Sono pronto. Siamo pronti. La più grande battaglia incomincia e io vi dico che avremo la nostra quindicesima vittoria». Il 23 giugno i due uomini s’incontrarono a Roma. Del loro colloquio non è rimasta nessuna testimonianza. Ma dal seguito degli avvenimenti sembra di poter desumere che, anche se s’intesero sul da farsi, non provarono l’uno per l’altro nessun trasporto.
L’incontro col Poeta riabilitò Mussolini agli occhi dei nazionalisti. Per la prima volta essi gli dettero dei segni di simpatia, dei quali egli si mostrò più imbarazzato che lusingato. Il suo sogno restava quello di ricomporre intorno a sé il vecchio fronte delle sinistre interventiste. E il momento sembrava favorevole. Anch’esse erano schierate per Fiume. E anch’esse erano ben decise a opporsi al grande sciopero – il cosiddetto «scioperissimo» – che i socialisti avevano in animo di bandire in tutti i Paesi dell’Occidente per protestare contro gli aiuti che questi mandavano agli eserciti russi fedeli allo Zar in rivolta contro il regime di Lenin. Per di più Nitti, salito al potere dopo la caduta di Orlando, aveva indetto per novembre le elezioni generali, che solo facendo blocco le sinistre interventiste potevano affrontare con qualche possibilità di successo.
Ancora una volta, Mussolini ci si provò, e carte da giuocare ne aveva. Ispirato com’era da De Ambris, il programma del Fascio non differiva molto da quelli della USI e della UIL, e nemmeno da quello repubblicano. Le trattative si avviarono bene, e nel cuore dell’estate parvero destinate al successo. Ma su un punto l’accordo si rivelò impossibile: l’inclusione di Mussolini nella lista da presentare agli elettori. Il suo nome, dissero quelli dell’USI, ci alienerebbe le simpatie dei socialisti scontenti del loro partito, ma non per questo disposti a schierarsi col «traditore».
Questa fu, per Mussolini, una svolta decisiva. Visto naufragare l’ultimo tentativo di riagganciarsi alla sinistra, non gli restava altra scelta che quella di destra, in direzione dei nazionalisti. D’Annunzio gliene forniva l’occasione. Il 12 il Poeta gli scrisse da Venezia: «Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Sostenete la Causa vigorosamente durante il conflitto…». L’indomani «Il popolo d’Italia» titolò con un VIVA FIUME! a caratteri di scatola, esattamente come i giornali nazionalisti. Anche per Mussolini sembrava che il dado fosse tratto.
L’impresa di Fiume l’abbiamo raccontata nell’Italia di Giolitti, e non vogliamo ripeterci. Ma qui bisogna rivederla dall’angolatura di Mussolini perché fu su questa partita che si giuocò la sua sorte.
Contrariamente a quanto in seguito scrissero i suoi apologeti, Mussolini non svolse nell’impresa fiumana che una parte di «spalla». Il colpo fu organizzato da un gruppo di irredentisti di osservanza nazionalista, fra cui primeggiavano Giuriati e Host-Venturi. E riuscì grazie alla complicità delle truppe dislocate nella zona, fra le quali il Poeta reclutò anche parecchi volontari. Sia lui che i suoi consiglieri erano convinti che quello sarebbe stato l’inizio di un vasto pronunciamiento militare che avrebbe costretto alle dimissioni il governo di Nitti e aperto la strada a una marcia di D’Annunzio su Roma.
A questa eventualità Mussolini non credette mai. I primi giorni egli sostenne calorosamente l’iniziativa. Ma quando vide che l’Esercito, pur simpatizzando, non si muoveva, e che nel Paese essa non provocava contraccolpi di entusiasmo che nelle esigue schiere nazionaliste, comprese che il suo bersaglio politico era fallito, e cominciò a prendere cautamente le distanze. D’Annunzio se ne avvide subito. «Svegliatevi! E vergognatevi anche» gli scrisse. «Voi tremate di paura. E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime, e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò in faccia.» Un cicchetto in piena regola, uno dei tanti che gl’inflisse, da superiore a subalterno. Mussolini salvò la faccia indicendo una sottoscrizione in favore di Fiume, che fruttò quasi tre milioni di lire, e dichiarandosi pronto a secondare il Poeta in una marcia su Trieste e anche per uno sbarco di suoi fedeli in Marche e Romagna per sollevarvi le popolazioni e istaurare la Repubblica: un progetto nel quale ci sembra molto improbabile che credesse. Ma almeno a parole non poteva dissociarsene: avrebbe perso la sua clientela ormai formata in grande maggioranza dai «fiumani».
Il 7 ottobre, a bordo di un aereo, raggiunse il Poeta, ed ebbe con lui un colloquio di due ore, cui nessuno assistette. A quanto pare egli riuscì a dissuadere D’Annunzio dal prendere altre iniziative dicendogli che prima conveniva vedere come sarebbero andate le elezioni e che, anche se l’insurrezione fosse riuscita, c’era il pericolo che a impadronirsene fossero i sovversivi, i quali avevano in pugno le masse e potevano fargli fare la fine di Kerenski. Sulla via del ritorno, dovette atterrare per via del maltempo presso Udine dove i carabinieri lo fermarono e lo condussero al quartier generale di Badoglio. Fu il primo incontro fra i due uomini, al termine del quale il Generale riferì di aver trovato in Mussolini un interlocutore ragionevole e moderato.
Pochi giorni dopo si aprì a Firenze il primo congresso nazionale dei Fasci. I delegati dicevano di rappresentare oltre quarantamila aderenti. Ma si trattava di propaganda: gli aderenti erano meno della metà. Mussolini ne fu l’assoluto dominatore. Egli aveva l’arte, grazie al corto fraseggiato e al gesto perentorio, di apparire drastico e risoluto anche quando, invece di affrontare i problemi, li evadeva. «Noi siamo degli antipregiudizialisti, degli antidottrinari, dei problemisti; non abbiamo pregiudiziali né monarchiche né repubblicane»: ch’era un modo di non dire nulla avendo l’aria di dire chissacché. Ma su una cosa fu esplicito: «D’Annunzio non si muoverà perché tutti gli eventi sono favorevoli a lui». Comunque, il problema non era lui, ma le elezioni.
Perfettamente conscio che, presentandosi da solo, il Fascio sarebbe andato incontro a un clamoroso fiasco, Mussolini si era ben guardato dal prendere posizione per lasciarsi aperte tutte le alleanze. Ancora una volta tentò quella con le sinistre interventiste, e ancora una volta fallì. Non gli restavano che gli arditi, i futuristi e i reduci di guerra. A Milano si scelse come compagni di lista Marinetti, Podrecca, Arturo Toscanini, Lanzillo e Ferrari. Ai Fasci di tutte le altre città consentì di far blocco con chi volevano, secondo le convenienze locali. Ma risultò che quasi tutti avevano bloccato a destra, coi nazionalisti e coi liberal-conservatori.
La campagna elettorale fu dura. Quando non erano vuote, le piazze in cui si svolgevano i comizi fascisti erano ostili. L’incolumità degli oratori era affidata a un pugno di Legionari fatti venire appositamente da Fiume. Ma d’incidenti ce ne furono parecchi, e a Lodi ci scappò anche il morto. Il risultato fu in tono con questo preambolo. Nella circoscrizione di Milano, su duecentosettantamila voti, la lista capeggiata da Mussolini non ne raccolse neanche cinquemila. In tutta Italia, l’unico fascista che riuscì fu un certo Coda in Liguria. I socialisti, che avevano riportato un clamoroso successo assicurandosi ben 156 seggi mentre 100 erano andati ai «popolari» di don Sturzo, celebrarono i funerali di Mussolini portandone in giro la bara. I fascisti reagirono lanciando contro un corteo socialista dei petardi che provocarono una diecina di feriti. Dopo una perquisizione, Mussolini, Marinetti, Vecchi e altri dirigenti vennero arrestati per detenzione di armi. Ma Nitti ne ordinò subito la scarcerazione anche su sollecitazione del direttore del «Corriere della Sera», Luigi Albertini che, per quanto ostile ai fascisti, e anzi proprio per questo, comprendeva il vantaggio che questi avrebbero tratto dalla «persecuzione».
Mussolini scrisse a D’Annunzio una lettera in cui fra le righe si legge l’invito a riconoscere quanto giusti fossero stati i suoi consigli di prudenza. Ma, aggiungeva, la situazione era meno nera di come sembrava: solo, bisognava dar tempo al Paese di rendersi conto che la nuova Camera era peggiore di quella precedente. Dopodiché affidò il messaggio a De Ambris, raccomandandogli di tenere sotto sorveglianza il bollente e imprevedibile Poeta.
A Fiume, De Ambris trovò un clima assai diverso da quello che si aspettava. Svanito il sogno del pronunciamiento militare e della marcia su Roma, i nazionalisti avevano perso quota, e fra i Legionari si era fatta strada la speranza di realizzare il colpo d’accordo coi socialisti. Uno di essi, Mario Carli, aveva pubblicato un opuscolo, Il nostro bolscevismo, che terminava con queste parole: «Tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte fra queste due rive». L’appello era stato raccolto anche sull’altra sponda. Oltre al sindacalista Giulietti, anche il vecchio irriducibile anarchico Errico Malatesta si dichiarava pronto a mettersi agli ordini di D’Annunzio. E, cosa ancora più incredibile, perfino Lenin dichiarava che l’unico vero rivoluzionario italiano era D’Annunzio.
Contagiato da questi umori, De Ambris, ch’era andato a Fiume per sorvegliare il Poeta, ne diventò invece il principale collaboratore al posto di Giuriati. Fu lui infatti poco dopo a ispirargli e a redigere quella curiosa Costituzione di Stato corporativo che si chiamò la «Carta del Carnaro», che pretendeva fare di Fiume una specie di Sparta. D’Annunzio vi aggiunse soltanto degli svolazzi estetici intagliati nel suo solito gusto decadente.
Per quanto irritato, Mussolini si guardò bene dal denunciare questo «nuovo corso». Ma, per tagliargli la strada, riprese con maggior violenza gli attacchi ai socialisti. La sua posizione si faceva sempre più difficile. La Sarfatti racconta che ogni tanto cadeva in preda allo sconforto, parlava di vendere il giornale e di andare a guadagnarsi il pane all’estero come manovale o suonatore di violino. La tiratura del «Popolo» declinava, alcuni redattori si dimisero ed egli non ebbe neanche di che pagargli la liquidazione, i Fasci erano dappertutto in crisi, dilaniati dalla lotta intestina fra gli elementi di destra e quelli di sinistra.
Sia pure a malincuore, Mussolini dovette decidersi a optare per una delle due anime. Ma in realtà la scelta era già pregiudicata. D’istinto e vocazione, non c’è dubbio che fin allora egli era stato un uomo di sinistra. Ma a sinistra non aveva riportato che smacchi e delusioni. Invano aveva cercato di ricucirne intorno a sé i litigiosi frammenti. L’ultimo colpo a questo tentativo lo aveva dato il fiasco elettorale. Gli elementi di origine socialista, sindacalista, anarchica e repubblicana, fra i quali c’era anche Nenni che avevano formato il grosso dei primi Fasci, ne avevano già secessionato. Per colmare questi vuoti, non c’era che da spalancare le porte a conversi di tutt’altra estrazione sociale e ideologica: studenti, ex combattenti delle ultime leve desiderosi di perpetuare l’«avventura», scampoli della piccola e media borghesia benpensante e conservatrice che invece vedevano nel fascismo la «diga» contro la sovversione, e una crescente falange di spostati in cerca di torbido in cui pescare.
Questa trasfusione di sangue, è difficile dire se Mussolini la provocò o l’accettò. Si può solo dire che col suo istintivo opportunismo, e con la scusa del «problemismo», egli aveva lasciato talmente nel vago l’impalcatura ideologica del suo movimento da consentire a ciascuno d’interpretarlo come meglio gli conveniva: che fu la caratteristica del fascismo anche dopo essere diventato regime. Comunque, quando nel maggio del ’20 i Fasci tennero a Milano il loro secondo congresso, egli si trovò di fronte a una platea del tutto diversa da quella di piazza San Sepolcro, e per riaffermare la sua posizione di capo dovette spostarsi sensibilmente a destra. Dei diciannove membri della vecchia direzione, tutta di sinistra, ne furono rieletti solo la metà, e i due più autorevoli – Marinetti e Vecchi – si dimisero subito dopo.
Mentre si svolgevano questi dibattiti, il governo Nitti entrava in crisi e dopo una breve agonia cedeva il posto a Giolitti. L’avvenimento colse di sorpresa Mussolini, che ancora una volta si trovava di fronte a una scelta scabrosa. Schierarsi contro il vecchio statista significava sfidare tutta l’Italia moderata e benpensante, che in lui vedeva una garanzia di ordine e di normalità. Pronunciarsi a suo favore significava sfidare D’Annunzio, animato da un inestinguibile rancore verso il «boia labbrone» che nel ’15 aveva capeggiato la resistenza neutralista. Ma fu la corrente a rimorchiarlo. In molte città, agendo di propria iniziativa, i Fasci si misero a disposizione dei comandi militari per il mantenimento dell’ordine. Era chiaro che i loro nuovi adepti simpatizzavano col nuovo governo. Per prevenirne le reazioni, Mussolini scrisse al Poeta una lettera in cui, descrivendogli a tinte apocalittiche la situazione interna del Paese, gli diceva che creare difficoltà a Giolitti significava fare il gioco dei sovversivi, contro i quali le forze patriottiche non erano in grado di lottare da sole. E sul «Popolo» diede, sia pure con qualche riserva, il bentornato al vecchio statista.
Una volta incamminati su questa china, gli avvenimenti precipitarono. C’è chi dice che, fin d’allora, fra Giolitti e Mussolini si stabilì, almeno tacito, un patto di collaborazione in senso reazionario. Questo non è vero. Giolitti deplorò e punì molti prefetti e questori che accettavano la collaborazione dei fascisti e ne favorivano le violenze. Ma la cosa avveniva del tutto spontaneamente. Era fatale che le forze dell’ordine simpatizzassero con chi nelle emergenze le spalleggiava, e che dal canto loro tanti moderati, spaventati dal disordine, vedendo che i fascisti si schieravano con l’autorità costituita e ne venivano «coperti», corressero a ingrossare le loro fila. In pochi mesi il movimento che dopo il clamoroso fiasco elettorale del ’19 quasi tutti, e forse anche lo stesso Mussolini, avevano dato per spacciato, era diventato abbastanza forte per passare alla controffensiva. Le prime operazioni di «squadra» si svolsero a Roma contro l’«Avanti!» che venne messo a sacco, e a Pola contro la sede delle organizzazioni slave che fu incendiata.
Subito dopo la Confederazione Generale del Lavoro tentò una prova di forza con l’occupazione delle fabbriche, cui aderirono anche l’USI e l’UIL, le vecchie alleate di Mussolini. Questi tenne un atteggiamento ambiguo. Deplorò il gesto di violenza, ma nello stesso tempo denunciò la sordità degli imprenditori alle rivendicazioni. Era la stessa posizione assunta da Giolitti che si rifiutò d’intervenire nella diatriba, e quando Agnelli gli chiese di far sgomberare la FIAT con la forza, rispose: «Benissimo. Darò l’ordine all’artiglieria di bombardarla». Il fatto è che i Fasci stavano cercando di organizzare dei «sindacati nazionali» in cui raccogliere i transfughi delle organizzazioni socialiste, e quindi non volevano disgustarsi gli operai. Era l’ultimo soprassalto dell’anima socialista di Mussolini. Egli fece anche delle aperture a Buozzi, il capo dei metalmeccanici. Ma come al solito, senza esito.
L’intesa fra Mussolini e Giolitti si saldò sul problema di Fiume. Sviluppando la manovra, già iniziata da Nitti, di accostamento alla Jugoslavia, Giolitti stava per concludere con questa l’accordo di Rapallo che finalmente risolveva le scottanti pendenze fra i due Paesi: l’Italia avrebbe rinunziato alla Dalmazia, meno Zara e alcune isole, mentre la Jugoslavia avrebbe riconosciuto a Fiume lo status di «città libera». Bisognava dunque che D’Annunzio se ne ritirasse, o ne venisse sloggiato con la forza. In questo secondo caso, Giolitti sapeva che non c’era da temere grossi contraccolpi nel Paese, ormai stanco delle bravate del Poeta e desideroso solo di normalizzazione. L’unico che poteva farne un pretesto di disordini era Mussolini, di cui era quindi necessario assicurarsi almeno la neutralità.
Quando e come s’iniziarono le trattative, è incerto. Si conosce solo il tramite attraverso cui si svolsero: il prefetto di Milano, Lusignoli. Alla fine di settembre Mussolini ebbe a Roma un incontro col ministro degli Esteri Sforza, il grande fautore e vero artefice dell’accordo con la Jugoslavia, ormai in via di definizione, e s’impegnò a non intralciarlo. Doveva però farlo in modo da non rompere col Poeta, che non poteva pubblicamente rinnegare. E questo era un po’ più difficile.
Fin dall’indomani della marcia su Fiume, i suoi rapporti con D’Annunzio erano stati incerti. Ma dopo la sua «accostata» a Giolitti, si erano fatti addirittura tesi. E se non si erano rotti, era solo perché l’uno aveva bisogno dell’altro. Perciò ai primi di settembre De Ambris aveva invitato Mussolini a Fiume. Ma Mussolini si era fermato nel suo viaggio a Trieste, il che doveva aver molto irritato il Poeta.
Alcune settimane dopo, De Ambris gli mandò un piano di azione, la solita azione: sortita di D’Annunzio da Fiume coi suoi Legionari per una marcia su Roma, di cui i Fasci dovevano predisporre il terreno e curare l’organizzazione. Ed era l’ennesima prova che il Poeta mancava totalmente di fiuto politico. Mussolini rispose ch’era d’accordo, che D’Annunzio era proprio l’uomo che ci voleva per una simile impresa, ma che questa non poteva svolgersi prima della primavera del ’21. Per rinnovargli l’invito a Fiume, D’Annunzio gli mandò il suo collaboratore Foscanelli. «L’invito» questi scrisse «fu accolto stancamente. Si capiva che il capo del fascismo non ne aveva voglia. Alle insistenze perché fissasse la data della partenza, non fu esplicito. Si capiva che subordinava l’accettazione a qualche altro avvenimento.»
L’altro avvenimento era il trattato di Rapallo con la Jugoslavia, di cui stava per essere annunciata la conclusione e che segnava la liquidazione, con le buone o con le cattive, dell’impresa dannunziana. Tutti si aspettavano, da parte di Mussolini, una reazione veemente. Egli scrisse invece un articolo in cui si dichiarava «soddisfatto» di quella soluzione «migliore di tutte quelle precedentemente progettate», pur concludendo con uno sperticato elogio di D’Annunzio: «Se oggi Fiume è libera, è italiana e ha il vasto possesso del suo porto e delle sue ferrovie; se oggi Fiume è contigua all’Italia, di cui costituisce una specie di repubblica periferica che sarà, per forza di cose, italiana: se oggi Fiume respira e può guardare con fiducia al suo avvenire, lo deve soltanto a Gabriele D’Annunzio e ai suoi Legionari e a tutti coloro che hanno difeso la causa di Fiume, dentro e fuori di Fiume». Era un benservito, condito di tutti gli onori, al Poeta, e insieme un invito al governo a procedere.
L’articolo fece l’effetto di una bomba. E tre giorni dopo, in sede di Comitato Centrale, Mussolini dovette fronteggiare l’attacco dei fascisti «fiumani», che lo accusavano di tradimento. Fu una seduta drammatica. Spalleggiato da Cesare Rossi, Mussolini difese la propria posizione, ma per non essere messo in minoranza dovette accettare un ordine del giorno di compromesso in cui si ribadiva la solidarietà con D’Annunzio al quale poi scrisse una lettera di sostanziale ripudio, ma condita di formale devozione. «Ed eccoci di nuovo soli,» gli rispose indirettamente il Poeta in un pubblico discorso «soli contro tutti, col nostro solitario coraggio. Soli contro un vasto coro di ammonitori e di minacciatori remunerati…» Ma nello stesso tempo incaricò De Ambris di cercare a tutt’i costi un accordo col «traditore».
L’incontro fra De Ambris e Mussolini ebbe luogo a Trieste, presente Foscanelli che ne ha lasciato un resoconto della cui fedeltà non c’è ragione di dubitare. Mussolini non era più l’uomo che al Poeta chiedeva ordini. Glieli dava. Ascoltò con aria seccata e distratta il solito progetto di sortita da Fiume a bordo di alcune navi da guerra già guadagnate alla Causa per uno sbarco in Romagna. Ma a questo punto sbottò: «E Bologna rossa? E i socialisti dell’alta Italia?». Il colloquio si trascinò straccamente in un clima di reciproca sfiducia e irritazione. Alla fine Foscanelli, che ne aveva preso nota, fu pregato di gettare i suoi appunti nella stufa.
De Ambris proseguì per Roma alla ricerca di un accordo col governo che permettesse al Poeta di ritirarsi da Fiume salvando la faccia, e alla meglio lo raggiunse. Ma il suo imprevedibile capo all’ultimo momento lo mandò all’aria annunziando che avrebbe resistito «fino al sacrificio supremo». Mussolini gli fece eco ammonendo dalle colonne del suo giornale: «Signori del governo: evitate, a qualunque costo, una nuova Aspromonte». Ma contemporaneamente avvertì Lusignoli, perché lo riferisse a Giolitti, che mai avrebbe collaborato a spingere la Nazione alla guerra civile. Quando cominciò a correre la voce della imminente azione militare contro Fiume, alzò la voce protestando vivacemente, ma anche informando Lusignoli che si trattava soltanto di tattica.
Il 23 dicembre, due giorni prima che Caviglia ordinasse alle sue truppe di marciare su Fiume, D’Annunzio lanciò un appello agl’Italiani per invocarne la solidarietà. L’indomani Mussolini convocò la direzione dei Fasci in una riunione segreta, che tale rimase. Secondo Lusignoli però Mussolini riuscì a far trionfare la sua tesi che quella di D’Annunzio era ormai una causa perduta, da abbandonare al suo destino. Per salvare come al solito la faccia, egli dedicò al «Natale di sangue» un violento articolo intitolato Un delitto, in cui diceva che «sul governo di Roma ricade il sangue versato». E con questo saldò il conto col Poeta, che stava abbandonando Fiume per rinchiudersi nella sua villa di Gardone.
Uno dei tre protagonisti del giuoco era eliminato. La partita ora si riduceva agli altri due: Giolitti e Mussolini.