CAPITOLO TERZO
L’AGONIA DI UN REGIME
Bonomi, che vi aveva puntato tutte le sue carte, non sopravvisse al fallimento del patto di pacificazione. L’ordine interno, ormai sfuggito al controllo dei pubblici poteri, era alla mercé delle squadre che avevano risolto a loro favore la partita della violenza.
Questa aveva i suoi epicentri in Padania e in Toscana, le zone dominate dagli agrari, e la rottura di equilibrio fra quelli che oggi si chiamerebbero «gli opposti estremismi», era sopravvenuta tra la fine del ’20 e il principio del ’21, quando appunto gli agrari avevano preso nei Fasci il sopravvento. Uno degli episodi decisivi era stato quello di Palazzo d’Accursio, il municipio di Bologna, il giorno in cui vi si era insediata la nuova giunta socialista. Nemmeno oggi si sa con precisione chi ne fu responsabile. Mentre la folla aspettava in piazza che il sindaco parlasse, alcune bombe caddero dal tetto. Il pubblico che assiepava la sala consiliare ne ritenne responsabili i rappresentanti della minoranza e si mise a sparare contro di essa. L’avvocato liberale Giordani venne abbattuto a revolverate, il suo collega Colliva ferito, mentre in piazza si contarono una diecina di cadaveri. L’aggressione fu attribuita ai socialisti, contro cui l’indomani si scatenarono le squadre di Arpinati, il ras di Bologna, e del suo luogotenente Bonaccorsi. La città fu sotto il controllo dei loro manganelli.
Un mese dopo, fu la volta di Ferrara. In origine, il Fascio di Ferrara era stato il più rivoluzionario e a sinistra di tutti. Lo aveva fondato un temerario gigante, ex bersagliere tatuato di ferite e di medaglie, Gaggioli. Ma di proseliti ne aveva fatti pochi perché la borghesia terriera non si fidava dei suoi atteggiamenti sovversivi. Ancora alla fine del ’20 erano in tutto una quarantina, conosciuti per soprannomi (Sciagura, Finestrachiusa ecc.). Ma poi era arrivato Balbo.
Balbo non aveva aderito al primo fascismo perché non lo trovava, per i suoi gusti, abbastanza repubblicano. Tornato dalla guerra, per la quale si era arruolato poco più che ragazzo come ufficiale degli alpini, aveva ripreso a Firenze i suoi studi universitari. Fu l’Associazione agraria che lo richiamò a Ferrara perché prendesse in mano gli squadristi locali e desse loro una riassettata borghese. Per le sue gesta di trincea, per il suo coraggio, per la sua loquela facile, anche se inceppata dalla lisca, aveva tutte le carte in regola per incutere rispetto agli squadristi e paura ai socialisti. Non gli mancavano nemmeno dei doni di calore umano, di generosità e di allegrezza goliardica che gli valsero qualche simpatia fra gli stessi nemici. Quando il prefetto proibì il manganello, Balbo armò i suoi uomini di stoccafissi che, picchiati con energia sulla testa degli avversari, vi producevano gli stessi effetti; e che poi facevano da piatto forte di grandi mangiate conviviali cui talvolta venivano invitate le stesse vittime.
Gaggioli e gli altri della sua banda tentarono a lungo di contendere a Balbo la supremazia nel Fascio ferrarese. La rivalità era puramente di potere personale, ma aveva anche un suo rozzo risvolto ideologico. Anarchico convertito dalla guerra al nazionalismo, Gaggioli era tagliato nello stesso legno dei fascisti rivoluzionari di piazza San Sepolcro, e a tutto era disposto fuorché a fare lo scherano della borghesia agraria. Ma solo questa poteva dare alle squadre i mezzi per diventare un vero movimento politico, e naturalmente li dette a Balbo che, oltre al resto, possedeva anche un notevole talento organizzativo. Quando, nell’aprile del ’21, Mussolini venne a Ferrara, Balbo gli fece trovare in piazza Ariostea trentamila «camerati» fatti affluire con tutti i mezzi dalle province della Padania. Fra essi i Gaggioli e gli altri della sua razza erano oramai ridotti a esigua minoranza gregaria.
Analoga sorte aveva subìto il Fascio fiorentino o meglio i Fasci perché fin da principio ce n’erano stati due. Uno, quello più autentico, faceva capo a una mezza dozzina di ciompi rotti a qualsiasi avventura: Banchelli detto «il Mago», Dumini, Frullini e i due fratelli Nenciolini; l’altro, signorile, in cui militavano i più bei nomi dell’aristocrazia terriera toscana. La faida fra queste due fazioni avrebbe anche potuto arrivare al sangue se a conciliarla non fosse intervenuto un mediatore che aveva buoni titoli al rispetto sia dell’una che dell’altra. Dino Perrone Compagni era marchese ed ex ufficiale di cavalleria: il che lo accreditava presso i nobili che lo sentivano dei loro. Ma ai ciompi lo rendeva simpatico l’essere stato degradato per debiti di giuoco e il suo modo di vivere da rottame fra bische e donne. Così fu lui a emergere e a diventare il capo di tutti, secondato da un certo Tamburini che si guadagnava la vita compilando biglietti da visita grazie al suo unico talento: la calligrafia.
La fusione avvenne ai primi del ’21, sul sangue. Un anarchico lanciò una bomba in via Tornabuoni provocando due morti e una ventina di feriti. Perrone Compagni assunse subito la direzione della rappresaglia in cui tutti si trovarono uniti. Per due giorni la città echeggiò di spari. Uno studente fascista, Giovanni Berta, che voleva raggiungere la sua squadra oltre l’Arno, fu aggredito sul ponte dai socialisti che, dopo averlo lanciato oltre la spalletta, gli recisero le mani aggrappate a una sporgenza. Gli scontri si fecero ancora più fitti e sanguinosi. A Scandicci i socialisti drizzarono barricate che Tamburini espugnò lanciandovi contro i suoi camion. I rossi tentarono la rivincita a Empoli, quando un motociclista traversò il paese urlando che i fascisti erano in arrivo. Tutti corsero ai fucili, e quando sopraggiunsero i due convogli li presero sotto il loro fuoco incrociato. Uno, carico di morti e di feriti, riuscì a proseguire. L’altro fu bloccato dalla folla inferocita che ne linciò selvaggiamente i passeggeri. Solo a massacro ultimato, si resero conto che non di fascisti si trattava, ma di poveri marinai in trasferta da Livorno. I fascisti accorsero subito dopo, da Firenze, per infliggere il castigo, che fu duro. E da allora le spedizioni punitive in tutta la Toscana non si contarono più anche perché queste consentivano ai vari ras di mettersi in luce e di rinsaldare il proprio primato.
Quello di Carrara, Renato Ricci, che sembrava un brigante albanese per via del lunghissimo fez appuntito sulla testa, aveva acquistato gran prestigio per l’energia con cui aveva domato gli anarchici che in quella città avevano la loro roccaforte. Ma non riusciva ad aver ragione di Sarzana, dove i fascisti non osavano nemmeno entrare. Ci si provò lui di persona. Ma dopo aver lasciato per strada morti e feriti, salvò la pelle solo grazie all’intervento dei carabinieri che lo rinchiusero in prigione. La squadre si mossero da tutta la Toscana per liberarlo, e fu una delle prove generali di mobilitazione su grande scala.
Stavolta però i carabinieri, che di solito ai fascisti lasciavano mano libera, spararono. I fascisti, che non se l’aspettavano, si dispersero per i campi, e i contadini ne fecero scempio. Il conto fu saldato da una ventina di morti e una trentina di feriti. Ma naturalmente si trattava di un saldo provvisorio perché subito dopo i fascisti vollero la rivalsa, e andarono a cercarsela soprattutto nelle campagne fra Arezzo e Grosseto, le zone più rurali e più rosse della Toscana. Ne andava di mezzo anche gente che non aveva nulla a che fare con questi «opposti estremismi», e Roccastrada andò addirittura devastata. Perrone Compagni organizzava queste imprese anche per dare modo ai Dumini e ai Nenciolini di sfogarvi i loro úzzoli di violenza. L’unione fra i due Fasci restava precaria e non fu mai completamente raggiunta. I ciompi si rifiutavano di fare la guardia bianca dei signori i quali fecero abbattere Pirro Nenciolini a revolverate.
A questo squadrismo diviso e rissoso faceva eccezione solo Cremona perché il ras che vi dominava lo aveva preso sin da principio e continuava a tenerlo saldamente in pugno. Roberto Farinacci era uno dei pochissimi capi fascisti, forse l’unico, che non avesse meriti combattentistici. Durante la guerra, era rimasto a casa, o meglio in stazione perché era impiegato delle ferrovie, e come tale esentato dal richiamo. I suoi avversari infatti lo chiamavano «Tettoia», e dapprincipio non lo avevano preso molto sul serio anche perché non amava mettersi in prima fila, e nelle spedizioni punitive arrivava a cose fatte. In compenso però era dotato di un senso politico, che sin dagl’inizi gli aveva permesso d’intravedere abbastanza chiaramente lo sviluppo del fascismo. Subito aveva compreso la necessità di appoggiarsi agli agrari, particolarmente forti in quella provincia, e di far leva sui loro mezzi per una soluzione rivoluzionaria. Fra i suoi squadristi non c’erano dissidenze: erano tutti per lui, che non era affatto per Mussolini e per i suoi «compromessi». Nel ’21 era stato eletto deputato, ma siccome non aveva ancora i 25 anni prescritti dalla legge, alla Camera non aveva avuto il tempo d’illustrarsi se non per un gesto teatrale che si era ritorto contro di lui. Affrontato l’on. Misiano, socialista ex disertore, gli aveva ingiunto di consegnargli la pistola, che poi aveva gettato sul tavolo del capo del governo, Giolitti, dicendogli: «Se la tenga». «Non posso perché non ho il porto d’arme» aveva risposto pacatamente Giolitti.
Rientrato a Cremona, Farinacci aveva preso in pugno la città nel più semplice e incruento dei modi: tenendo in stato di permanente occupazione le sedi della provincia e del comune e comportandosi come se ne fosse lui il titolare. Il prefetto chiese a Roma cosa doveva fare. «Applichi il codice» gli risposero dal Ministero. E siccome il codice non contemplava un simile caso, il prefetto lasciò fare. Era il momento in cui Balbo faceva le sue prove generali di mobilitazione. Fra le camicie nere che si stavano concentrando c’erano anche quelle di Farinacci, ma non c’era Farinacci che non amava quelle sagre e non voleva mescolarsi con gli altri. Egli era già in piena rotta con Mussolini per via del patto di pacificazione, e non intendeva piegarsi, ma non intendeva nemmeno confondersi coi Balbo, i Grandi e gli Arpinati forse perché ne prevedeva prossima la sottomissione. Fin da allora egli aspirava a porsi come alternativa di Mussolini, cioè come capo della opposizione interna, quale poi sarebbe rimasto fino alla Repubblica di Salò.
Nel Mezzogiorno lo squadrismo fu tale soltanto in Puglia, zona agraria per eccellenza, e trovò subito un capo in un grande feudatario locale, Caradonna. Quando Balbo suonò i corni dell’adunata a Ravenna per far capire ai Romagnoli ch’era inutile continuare la lotta, ma anche per ammonire Mussolini ch’era inutile fare la pace, tutti rimasero sconcertati dall’arrivo di un manipolo di uomini a cavallo: erano gli squadristi di Caradonna, che aveva dato la caccia ai socialisti delle Murge come gl’Inglesi danno la caccia alla volpe. Ognuno infatti nell’esercito fascista portava la sua uniforme, o se ne inventava una. Ma tutti insieme erano una truppa accampata in terra di conquista, e ben decisi a trattare l’Italia come tale. L’operazione sognata da Giolitti di assorbire il fascismo e di triturarlo nel giuoco parlamentare si rivelava sempre più improbabile, e comunque troppo al di sopra delle possibilità di un Bonomi.
Era stato l’episodio più incruento, quello di Cremona, a mettere in crisi il governo esponendolo al ridicolo e dimostrandone l’impotenza.
L’ultima spinta alla crisi la dette il crack della Banca di Sconto. Questa Banca era dei fratelli Perrone, i quali speravano di risolvere con essa, cioè col risparmio ch’essa riusciva a rastrellare dalle tasche dei depositanti, le gravi difficoltà in cui si dibatteva la loro azienda siderurgica Ansaldo che, dopo gl’immensi profitti di guerra, non riusciva a ridimensionare i propri impianti sulle più modeste esigenze di pace. I Perrone, che già pochi anni prima avevano tentato d’impadronirsi anche della Banca Commerciale, ci si riprovarono, ma inutilmente. Si rivolsero alla Banca d’Italia chiedendole di consorziare altri quattro Istituti per fare fronte ai creditori. Ma Bonomi si rifiutò di far pagare a tutti gl’Italiani gli errori dei Perrone, la Banca di Sconto dovette chiudere gli sportelli, molte aziende creditrici fallirono, e il panico dilagò insieme alla disoccupazione.
L’episodio tuttavia non avrebbe sortito effetti decisivi se non si fosse innestato in una più vasta crisi politica. La maggioranza liberale, su cui Bonomi si reggeva, e che non aveva mai avuto organica consistenza, era vieppiù divisa. Due suoi gruppi, quello di «Democrazia liberale» e quello di «Democrazia sociale» si fusero formandone uno solo che si chiamò «Gruppo democratico» e che, forte di circa 150 deputati, si proponeva di rovesciare Bonomi per ricondurre al potere Giolitti; ma ebbe contro di sé tutta la costellazione dei gruppi che facevano capo agli altri tre notabili del liberalismo: Orlando, Salandra e Nitti. In questa situazione, l’unico sicuro appoggio di Bonomi erano i popolari di Sturzo.
Anche costoro erano divisi. Come nella democrazia cristiana di oggi, la cosiddetta base, dominata da Miglioli e dalle sue «leghe bianche», era completamente spostata a sinistra, vedeva nel fascismo il vero nemico da combattere, e anche per questo avrebbe voluto l’alleanza coi socialisti. Costoro però, fedeli alla loro vocazione del ghetto, vi si rifiutarono, dando così buone carte a Sturzo per continuare la collaborazione col governo centrista di Bonomi, di cui ormai egli era l’arbitro.
Nel gennaio del ’22 il papa Benedetto XV morì, e per la prima volta dalla breccia di Porta Pia il governo prese ufficialmente parte al lutto della Chiesa facendo esporre nei pubblici edifici le bandiere a mezz’asta e mandando il Ministro della Giustizia, ch’era un popolare, a fare una visita di condoglianze in Vaticano. Il gesto suscitò le ire dei liberali, fedeli alla tradizione laica del Risorgimento, e divise vieppiù la precaria maggioranza di Bonomi. Il nuovo Pontefice, che assunse il nome di Pio XI, era il cardinale Ratti: un Lombardo che, già conservatore per formazione familiare e di ambiente, lo era diventato ancora di più dopo l’esperienza fatta come nunzio in Polonia, dove aveva visto all’opera il bolscevismo e ne aveva contratto l’orrore. Come Arcivescovo di Milano si era guadagnata la simpatia dei fascisti facendone benedire in chiesa i gagliardetti. E appena eletto, per la prima volta dal 1870, spalancò il balcone su piazza San Pietro per impartire la benedizione urbi et orbi.
In questa situazione, naturalmente, lo squadrismo guazzava. Sebbene seguitasse ad agitare lo spauracchio della rivoluzione rossa, questa era già stata debellata, o meglio si era auto-debellata. Indebolito dalla secessione comunista, il partito socialista si era praticamente dissolto in tre tronconi in guerra tra loro su tutto. A destra la frazione di Turati e dei riformisti che volevano la collaborazione coi liberali e coi popolari per un governo che arginasse la violenza squadrista. A sinistra, un gruppo che chiedeva la sottomissione del partito alla «Terza Internazionale» di Lenin, cioè la sua trasformazione in un partito comunista di obbedienza moscovita. Al centro, i massimalisti di Serrati che non volevano nessuna collaborazione con nessuno, né coi popolari, né coi liberali, né coi comunisti, ben decisi a «restare se stessi», cioè a consumarsi nella loro solitaria impotenza. Erano stati questi ultimi a vincere il congresso di Milano. Ma la stavano pagando cara. Le grandi confederazioni sindacali – CGL, USI e UIL – sempre più si distaccavano da loro, e nel febbraio (del ’22) si unirono in una «Alleanza del Lavoro» rompendo i ponti col partito.
Questo panorama suggerisce l’impressione che ben pochi si rendessero conto della imminenza e gravità del pericolo fascista. Gli stessi socialisti, che pure ne subivano più direttamente le conseguenze, non riuscivano a superare, per farvi fronte, le proprie divisioni e allergie. E quanto ai liberali e ai popolari, sembrava che gli uni e gli altri avessero più a cuore le vecchie dispute sulla scuola laica e sui rituali risorgimentali che non la difesa della democrazia. Infatti fu proprio per reazione all’arrendevolezza di Bonomi ai popolari e ai suoi atti di omaggio alla Chiesa, che il Gruppo Democratico si ritirò dal governo mettendolo in crisi. Era la fine di febbraio del ’22, non mancavano che dieci mesi alla marcia su Roma.
Era una classica «crisi al buio» perché nessuno aveva in tasca la ricetta per risolverla, o meglio ognuno aveva la sua, inconciliabile con quella degli altri. I giolittiani, com’è logico, rivolevano Giolitti, contro cui però si schieravano non soltanto i popolari di Sturzo che nutriva per lui la più insanabile antipatia, e naturalmente i socialisti fedeli alla loro divisa «contro tutti»; ma anche gli altri gruppi liberali che facevano capo a Orlando, Salandra e Nitti. Solo alcuni di essi, come Amendola e Frassati, vedevano con chiarezza la necessità di una coalizione che si proponesse come compito primario la lotta al fascismo, e perciò chiesero che la Camera per intanto si pronunciasse per un drastico rafforzamento dell’ordine pubblico contro tutte le violenze. Ma Mussolini scompigliò subito le carte del giuoco facendo votare la mozione dai suoi 45 deputati e anzi assumendone il patronato come se delle violenze egli fosse non il responsabile, ma la vittima.
Fu la più lunga crisi della storia parlamentare italiana proprio nel momento in cui più urgeva un governo che governasse. In seguito Sturzo negò di aver opposto un veto a Giolitti, e forse formalmente è vero nel senso che lo lasciò pronunciare dal partito. Ma i giolittiani, se non erano abbastanza forti per fare da soli un ministero, lo erano tuttavia quanto bastava per impedire che lo facessero altri. È inutile qui ridipanare la complicata matassa dei giuochi, dei doppi giuochi, delle estenuanti trattative che si protrassero per settimane. Quella che infine fu trovata era la solita soluzione di compromesso: non potendo Giolitti, i giolittiani riuscirono a portare al governo uno dei suoi «ascari» più fedeli, ma anche dei più sbiaditi: Luigi Facta.
Facta era un bravo avvocato di provincia piemontese con tutte le virtù, ma anche con tutti i limiti del suo ambiente: un uomo probo e integro, che dopo trent’anni di vita parlamentare ne aveva ormai una certa esperienza, aveva ricoperto con onore alcune cariche ministeriali, non aveva altra ambizione che quella di servire fedelmente il suo capo, né altre idee che quelle di lui. Tutto gli si poteva chiedere fuorché risolutezza e immaginazione, cioè proprio le qualità che più urgevano.
Ma forse fu proprio per questo che i popolari decisero di appoggiarlo: speravano di tenerlo prigioniero come avevano fatto con Bonomi.
Mussolini aveva seguito la vicenda con comprensibile ansietà. La crisi di governo andava tutta a suo vantaggio in quanto rivelava l’inefficienza del parlamento e la decomposizione dei partiti tradizionali. Ma poteva anche risolversi col ritorno al potere di Giolitti, l’unico uomo che egli seguitava a temere. La nomina di Facta, anche se la criticò, non gli dispiacque di certo.
Egli non aveva ormai alcun dubbio sulla strada da seguire, anche se non era di suo gusto. Erano stati gli agrari a ingrossare di uomini le fila del fascismo, e ora erano gl’industriali che ne ungevano le ruote. Su questi finanziamenti si è molto romanzato fino a parlare di «pioggia d’oro». Non è così. Secondo gli accertamenti di De Felice, i regolari contributi dell’industria al fascismo cominciarono tra la fine del ’21 e gl’inizi del ’22, e non superarono mai le duecentomila lire al mese che, anche nella valuta di quei tempi, erano una cifra piuttosto modesta. Ma questa veniva versata alla direzione del partito. E questo era il fatto nuovo. Sin allora i contributi erano stati quelli, ancora più modesti, versati dagli agrari, ma direttamente ai ras provinciali che anche da questo traevano la loro riottosa forza. Gl’industriali davano invece al partito che così poteva cominciare a rafforzare le sue strutture centrali.
Questa conversione del grande capitalismo urbano al finanziamento del fascismo era il frutto della nuova posizione assunta da Mussolini in favore dell’iniziativa privata e contro lo statalismo. Egli aveva ormai accettato la sua parte di difensore della borghesia, e per adeguarvisi non esitò a rompere di nuovo con D’Annunzio.
Dopo la schiarita della visita a Gardone, che nell’aprile del ’21 gli era tanto servita a bloccare la dissidenza dello squadrismo dannunziano, i suoi rapporti col Poeta si erano nuovamente deteriorati. Pur senza rinunziare alla sua parte di oracolo al di sopra della mischia, D’Annunzio non risparmiava strali al fascismo, che definiva uno «schiavismo agrario». Tanto che alcuni dirigenti della Confederazione del Lavoro, Baldesi e D’Aragona, pensarono di servirsi di lui come dell’anti-Mussolini. Non è stato mai del tutto chiarito come si sviluppò questa trama. Essa ebbe per intermediari De Ambris e Giulietti, il capo della Federazione dei Lavoratori del Mare, entrambi fiumani. Ma c’entrò anche Nitti, dimentico del «Cagoia» che D’Annunzio gli aveva appioppato. Prima Baldesi, poi D’Aragona andarono a Gardone, vi furono benissimo accolti, ma probabilmente ricevettero la stessa risposta che avevano ricevuto Grandi e Balbo. Al Poeta piaceva moltissimo venire sollecitato come il grande arbitro e régolo della vita italiana; ma, pur incoraggiando tutte le speranze, impegni non ne prendeva con nessuno. Comunque, la manovra a largo raggio di cui si parlò, che avrebbe dovuto condurre, sotto il patronato del Comandante, a una coalizione fra Nitti, i popolari e i socialisti, non ebbe il tempo di svilupparsi.
Facta aveva diramato ai prefetti e ai questori l’ordine perentorio d’impedire le violenze fasciste. Ma la maggioranza dei prefetti e dei questori non avevano nessuna voglia di obbedire; e i pochi che ne avevano voglia – come il prefetto Mori di Bologna, il più risoluto e coraggioso di tutti – non ne avevano i mezzi. Così il manganello imperversava e il sangue correva. Farinacci teneva Cremona nel terrore. Balbo aveva fatto della Padania una piazza d’armi per le esercitazioni delle sue camicie nere. Da Bologna le squadre di Arpinati e Bonaccorsi tenevano le campagne nell’incubo dei loro raid. Non c’era giorno senza morti. E non c’era morte che non venisse ripagata con altre morti.
Questo «sterminismo» era la croce non soltanto di Facta, ma anche di Mussolini, che ne vedeva compromessa la sua maschera di rispettabilità borghese. Egli cercava di richiamare i riottosi dalle colonne del suo giornale: «Quell’alone di simpatia che ci seguì nel 1921 si è attenuato» ammoniva. Ma, dopo la lezione subìta al tempo del patto di pacificazione, non osava prendere risolutamente di petto le squadre scatenate. Non era ancora «il Duce»; e il partito, tuttora in embrione, non gli permetteva di mettere la mordacchia ai ras e alle loro squadre. Ma capiva che se quell’anarchia fosse continuata, il fascismo si sarebbe irreparabilmente squalificato agli occhi della pubblica opinione.
Come al solito, furono i socialisti a riaccreditarlo. Alla fine di maggio, una frazione della fazione riformista, capeggiata dal deputato Zirardini, approvò un ordine del giorno che invitava il partito a uscire dal suo isolamento e a collaborare con un governo che s’impegnasse a una lotta risoluta contro il fascismo. Questo invito era vigorosamente avallato dalle organizzazioni sindacali, dissanguate dalle diserzioni dei lavoratori che un po’ sotto la minaccia del manganello, un po’ perché avevano perso ogni fiducia nei loro dirigenti di partito, accorrevano sempre più numerosi nei sindacati fascisti. Ma Serrati e i suoi compagni di direzione respinsero l’appello.
Le violenze fasciste raddoppiarono. A Cremona Farinacci fece incendiare la casa di Miglioli e distruggere tutte le sedi delle leghe bianche. Facta, accusato di debolezza e financo di connivenza, fu battuto e rassegnò le dimissioni, in fondo contento di trarsi da quelle peste e di tornarsene al suo studio d’avvocato in Piemonte: riconosceva che le cose erano più grandi di lui e sperava di lasciare il mestolo a Giolitti, l’unico in grado di appianarle.
Stavolta Turati, incitato da Anna Kuliscioff, trovò il coraggio di ribellarsi alla inerzia del partito, si dichiarò disposto a collaborare con il governo, e con enorme scandalo dei compagni «si prostituì a salire le scale del Quirinale», cioè a conferire col Re sulla persona a cui affidare il mandato. Naturalmente egli pensava a Giolitti, che non aveva mai smesso di pensare a lui. E Mussolini tremò. Anche dimezzati, i socialisti al governo insieme a Giolitti e ai popolari significavano l’isolamento del fascismo. Ingiunse a Farinacci di richiamare all’ordine le squadre cremonesi, ma non riuscì a impedire la grande mobilitazione che Balbo aveva indetto in Romagna dove si stavano concentrando sessantamila fascisti.
Ma Giolitti declinò l’invito, anzi non si mosse nemmeno da Vichy dove in quel momento si trovava. Non aveva nessuna intenzione, scrisse in una lettera a Malagodi, di capeggiare «un ibrido connubio social-popolare» che avrebbe solo condotto l’Italia alla guerra civile. I motivi di quel rifiuto non sono mai stati del tutto chiariti. La guerra civile c’era già, e solo un accordo fra socialisti e popolari poteva dare a un governo la forza per sedarla. Ma per questo forse Giolitti pensava che occorrevano tutti i socialisti, e non una frazione. È anche possibile che in lui covasse il rancore verso Sturzo per via del veto che gli aveva posto pochi mesi prima. Ma l’ipotesi che più somiglia al personaggio è ch’egli considerasse ormai impossibile un governo che non facesse posto ai fascisti.
Orlando, interpellato per primo, non riuscì a formare una maggioranza di centro-destra. Si provò Bonomi a formarne una di centro-sinistra, ma Turati non gli dette in tempo la garanzia della sua collaborazione. Furono chiamati, ma inutilmente, Meda e De Nava. Tentò di nuovo Orlando, ma senza successo. Il 30 luglio il Re mandò a richiamare Facta e con le lacrime agli occhi, lo scongiurò di formare un nuovo governo. Facta vi si dispose senza entusiasmo, forse convinto di non riuscire. Invece lo accettarono, ma per stanchezza e perché frattanto era successo qualcosa che aveva finalmente aperto gli occhi a tutti, anche ai socialisti.
A Balbo, che stava facendo le sue marce e contromarce per la Padania, era giunto un telegramma in cui il ras di Ravenna, Ettore Muti, lo scongiurava di accorrere perché, dopo un duro scontro a fuoco coi sovversivi, questi si erano impadroniti della città. Balbo marciò su Ravenna alla testa delle sue squadre, dopo avervi fatto affiggere dei manifesti con cui invitava i «sovversivi» ad abbandonarla, mise a sacco la Casa del Popolo repubblicana e diede alle fiamme la sede delle cooperative socialiste.
Di fronte a questa nuova provocazione l’Alleanza del Lavoro indisse lo sciopero generale per il 1° agosto. Sturzo definì quella decisione, nel momento in cui Facta cercava faticosamente di costituire il suo secondo governo e l’ordine pubblico era nelle mani di questori e prefetti di cui non ci si poteva fidare, «moralmente un delitto, politicamente un errore». E aveva ragione. Lo sciopero generale era la cosa che più atterriva i ceti medi italiani, e sembrava fatto apposta per riaccreditare ai loro occhi il fascismo.
Mussolini infatti non si lasciò scappare l’occasione. Egli mobilitò i fascisti dichiarando che se lo Stato non fosse stato in grado di far funzionare i pubblici servizi, ci avrebbero pensato loro a mandarli avanti. Forse non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno perché allo sciopero aderirono solo alcune categorie di lavoratori, e per metà anche quelle. Ma ai fascisti non parve vero mostrare alla cittadinanza ch’essi erano in grado di assolvere quei servizi mobilitando i propri tecnici e mettendoli alla guida dei convogli. Nell’assenza dello Stato, essi ne assumevano le funzioni.
Il 3 agosto l’Alleanza era costretta a proclamare la fine dello sciopero riconoscendone il fallimento («È stato la nostra Caporetto» scrisse mestamente «La giustizia»). E le squadre, riabilitate agli occhi della pubblica opinione da quella prova di forza, passarono alla controffensiva rovesciando con la violenza le amministrazioni socialiste nelle città in cui ancora resistevano. Esse riuscirono a conservare solo Torino e Parma, dove ci fu una vera e propria battaglia fra le squadre di Balbo e gli operai trincerati nell’Oltretorrente.
Stavolta Mussolini non cercò di trattenere le squadre, anzi ne vantò le gesta. «In quarantott’ore di violenza sistematica» scrisse «abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantott’anni di prediche.» Col fiuto che lo distingueva aveva capito che ormai la pubblica opinione vedeva nel fascismo, e non nello Stato, l’unica forza in grado di «far andare avanti le cose» e non era più disposta a sottilizzare sui metodi: lo sciopero generale le aveva fatto paventare il caos. E la reazione era questa: che l’ufficio tesseramento era sempre più affollato di gente che chiedeva l’iscrizione.
Questo però non significa che Mussolini avesse ormai la partita in pugno, avesse scelto la strada da battere, e su questa avanzasse col suo partito compatto, senza più esitazioni sulla tattica da seguire. Per il momento, egli era sicuro solo di due cose: che «la storia andava a destra», come aveva scritto a chiare lettere sul suo giornale dando un definitivo addio ai suoi ricordi e alle sue nostalgie di capopopolo rivoluzionario, cioè rinnegando le pregiudiziali ideologiche da cui erano partiti i fondatori del primo Fascio di piazza San Sepolcro; e che l’avvenire del fascismo era di diventare la forza egemone e traente di tutta la borghesia conservatrice per il momento sparpagliata fra nazionalisti, liberali salandrini e anche popolari dell’ala destra.
Queste erano le forze ch’egli doveva coagulare, ma sul modo di farlo era tutt’altro che sicuro anche perché non sapeva fino a che punto i suoi lo avrebbero secondato. Quando aveva inneggiato alla violenza delle squadre, lo aveva fatto per riprenderle in mano. Ma in realtà quella violenza si era scatenata al di fuori di lui, e in molti casi, come a Cremona, in polemica con lui che ne vedeva i deleteri effetti sulla pubblica opinione moderata di cui considerava necessario l’appoggio. Lo sciopero generale aveva salvato il fascismo facendogli riguadagnare tutti i favori che la danza selvaggia del manganello gli avevano alienato. Ma ora bisognava impedire che la danza ricominciasse. Bisognava «legalizzare» il manganello, cioè metterlo definitivamente al servizio dell’ordine costituito, anzi farlo apparire come l’elemento necessario a ricostituire l’ordine.
Soprattutto a questo compito Mussolini si dedicò, lasciando quasi interamente a Michele Bianchi, luogotenente sicuro e buon organizzatore, l’attività di partito, e al fratello Arnaldo la direzione effettiva del giornale. Egli stava ora la maggior parte del tempo a Roma, dove aveva preso in affitto un modesto appartamento in via Rasella. Fece anche, per aggiornarsi sulla situazione internazionale, un viaggio in Germania, dove ebbe colloqui con Stresemann e con Rathenau. Ma quella italiana voleva sorvegliarla dalla capitale, sicuro com’era che il regime fosse ormai alla vigilia della bancarotta e quindi che non ci fosse che da aspettare e cogliere il momento opportuno per seppellirlo.
Sui giuochi che svolse dietro le quinte ci sono più supposizioni che documenti. È certo ch’egli tentò un’accostata alla monarchia, ma per via indiretta, attraverso Corradini che, come capo dei nazionalisti, era naturalmente persona molto grata a Corte, e il Duca d’Aosta. Non sappiamo se Mussolini scelse questo interlocutore perché ignorava quanto il Re diffidasse di lui, o perché lo sapeva. Sembra in ogni caso accertato che il Duca si mostrò disposto ad assumere la reggenza e ad aprire le porte del potere al fascismo nel caso in cui il Re avesse cercato di sbarrargliele. E non è impossibile che Vittorio Emanuele ne abbia saputo qualcosa perché il timore di essere sbalzato dal trono dal cugino alleato dei fascisti non smise mai di ossessionarlo e pesò molto sulle successive decisioni. Altre accostate Mussolini le tentò con Sturzo, con cui ebbe un colloquio, ma senza risultati, e con Nitti. Ma c’è da dubitare ch’egli volesse condurle a conclusione. È più probabile che egli volesse far balenare a questi uomini la possibilità di un accordo con lui per renderli ancora più intransigenti nei confronti di Giolitti.
A Milano tornò verso la metà di agosto, cioè dopo il fallimento dello sciopero che rendeva ormai superflue tutte queste trame. La battaglia nelle piazze era vinta, e ormai era chiaro che il regime non era più in grado di tener testa alle squadre trionfanti.