CAPITOLO QUINTO
«UN BIVACCO DI MANIPOLI»
Mussolini aveva composto il suo governo in poche ore, ma erano state ore intensissime. Il suo primo scrupolo era stato quello di dimostrare che il fascismo non era avido di «posti» ed era disposto ad accettare la collaborazione di tutti gli uomini di valore. Egli voleva dare al suo ministero un’impronta meritocratica se non proprio tecnocratica, anche perché non si fidava molto dei suoi, quasi tutti giovani ed esperti solo di bastone e rivoltella. I tre che aveva scelto – Oviglio, De Stefani e Giuriati – erano fra i meno in vista come capi di squadre. Comunque i due portafogli più importanti, gli Esteri e gl’Interni, li aveva tenuti per sé.
Ma altre due cose volle subito sottolineare. La prima è che non intendeva trattare con le segreterie degli altri partiti che accettavano di collaborare con lui, lasciando ad esse la designazione degli uomini da cooptare nel suo ministero: gli uomini se li scelse da sé, interpellandoli o facendoli interpellare direttamente. Di uno di essi, Gentile, che non era mai stato fascista, non conosceva nemmeno il nome. Glielo propose, per la Pubblica Istruzione, Lanzillo. Ed egli dovette restare piuttosto stupito quando, all’offerta, Gentile rispose ponendo due condizioni: che fossero ristabilite le pubbliche libertà e introdotto nelle scuole secondarie l’esame di Stato. Mussolini promise.
Ma il suo sforzo maggiore fu quello di sottrarsi subito a ogni condizionamento di destra. Tutti erano convinti ch’egli avrebbe chiamato al suo fianco Salandra per garantirsi l’appoggio delle forze conservatrici. Invece non ne prese in considerazione nemmeno l’eventualità, e tenne a marcare subito le distanze dagli uomini che si erano adoperati per una «combinazione» con lui. Fu per questo che subito rinfacciò brutalmente a De Vecchi di aver cercato di sabotare e mutilare la vittoria mentre «io ero sulle barricate a rischiare la vita, non a lavorare per pateracchi ministeriali dell’ultima ora», e dopo aver rimproverato a Grandi di non aver avuto fiducia «nella sua stella», lo mise addirittura sotto inchiesta e lo tenne in quarantena per due anni.
È difficile pensare ch’egli credesse veramente a un loro tradimento. Ma gli faceva comodo fingere di crederci per tenere a bada, mettendole in stato d’accusa, le forze di destra ch’essi incarnavano. Coloro di cui più diffidava erano i nazionalisti, legatissimi al gruppo salandrino, che del resto reciprocavano il suo atteggiamento. E il vero motivo per cui tenne per sé il portafogli degli Esteri fu per non darlo a Federzoni, che lo considerava una sua spettanza e che venne invece relegato alle Colonie.
Come al solito, Mussolini non voleva essere etichettato «di destra» e tentava di dare al suo governo un carattere socialmente aperto. Offrì un portafogli anche al repubblicano Comandini che rifiutò. Ma l’operazione riuscì coi «popolari» che, di fronte al suo invito, si divisero. Contrari si dichiararono la sinistra e il gruppo di centro che faceva capo a don Sturzo. Ma la destra e i centristi di De Gasperi, appoggiati dalla Chiesa, si dichiararono invece favorevoli, ed ebbero partita vinta perché don Sturzo, contro le sue battagliere abitudini, sentendo – come disse Donati a Salvemini – «la sconfessione e la scomunica pendergli sul capo», lo piego. Così Tangorra andò al Tesoro, e Cavazzoni al Lavoro.
Mussolini però covava un disegno ancora più ambizioso: quello di attrarre nella combinazione anche i socialisti. È difficile dire se lo volesse per nostalgia dei vecchi compagni, o per un complesso di colpa nei loro confronti: qui si entra nella psicologia del personaggio che autorizza tutte le illazioni e non ne legittima nessuna. Ma fatto sta che, come dice Repaci, egli restava l’uomo del «patto di pacificazione», quale del resto cercherà invano di ridiventare alla vigilia del delitto Matteotti e sul finire della sua vita a Salò.
Il momento sembrava favorevole. I socialisti erano ormai irreparabilmente divisi. L’ala riformista di Turati, che contava quasi la metà degli effettivi del PSI, si era staccata dal partito per costituirne un altro autonomo, il PSU, e la Confederazione Generale del Lavoro ne aveva preso pretesto per dichiararsi indipendente da entrambi. Fu su questa che Mussolini esercitò le sue pressioni rimandando a un momento più favorevole eventuali trattative con Turati. Per farlo si servì di un curioso personaggio, che vedremo ricomparire sempre nelle sue funzioni di mediatore al tempo della Repubblica Sociale: il giornalista socialista Carlo Silvestri che, prima pupillo di Turati, era poi passato al «Corriere» di Albertini. La sera del 30 egli fece pervenire a Mussolini un biglietto in cui gli diceva che i suoi sondaggi presso i capi della Confederazione avevano avuto esito positivo: Baldesi accettava di entrare nel suo governo, e Buozzi si disponeva a seguirne l’esempio. «Ma» avvertiva «bisogna fare in fretta, e impedire che da parte di coloro che sono rimasti sbalorditi dalla rivelazione del vostro piano – e, voi mi capite, non alludo ai socialisti – si cerchi di forzare la situazione.» Non è chiaro se l’offerta a Baldesi e Buozzi (e qualcuno dice anche a D’Aragona) fosse stata fatta e accettata a titolo personale, senza impegno da parte della Confederazione. Silvestri ha poi detto che non solo la Confederazione, ma anche il PSU ne discusse e vi dette il suo assenso. Ma De Felice lo contesta, e crediamo che abbia ragione.
Comunque, quando il biglietto raggiunse il destinatario, questi già si era accorto della impraticabilità del suo piano. Avutone sentore, il partito fascista era in agitazione. Non voleva saperne l’ala conservatrice che faceva capo a De Vecchi, non volevano saperne i nazionalisti, non volevano saperne gli squadristi sempre animati dall’odio verso i «sovversivi», non volevano soprattutto saperne, per ragioni concorrenziali, i sindacalisti. E Mussolini, che già incontrava qualche difficoltà a far ingoiare ai suoi quel ministero che li escludeva da molti posti, non si sentì di rischiare una crisi analoga a quella del «patto di pacificazione».
Quando, alle sette di sera di quel convulso 30 ottobre, egli rese nota la lista dei Ministri, Bianchi e Marinelli diedero per protesta le dimissioni. Ma Mussolini le respinse. E a Mastromattei, che si lamentava di quella pacifica e incruenta conclusione della «marcia», rispose: «Il sangue si paga col sangue, e io non voglio fare la fine di Cola di Rienzo».
Il 16 novembre presentò il governo alla Camera per chiederne la fiducia. Come dosaggio di lusinghe, di minacce e di ricatto, quel discorso rappresenta uno dei «classici» del suo repertorio. «Con trecentomila fascisti armati di tutto punto,» disse moltiplicando per dieci la cifra reale «potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato d’infangare il fascismo. Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti». La solita pausa, gravida di minaccia. Poi: «Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». La Camera gli votò la fiducia con 306 «sì» contro 116 «no», e subito dopo gli concesse i pieni poteri per un anno. Il Senato seguì l’esempio due settimane dopo dandogli una maggioranza ancora più forte: 196 contro 19. Come Mussolini aveva detto nel suo discorso, il parlamento, se voleva sopravvivere, doveva adattarsi alla coscienza nazionale. E la coscienza nazionale voleva che si adattasse a Mussolini.
Il Paese, nella sua stragrande maggioranza, aveva accettato il fatto compiuto con un respiro di sollievo. Era stanco. Tre anni di guerra civile gli avevano ispirato un solo desiderio: l’ordine, e il fascismo lo prometteva. Della libertà, visto l’uso che in quei tre anni se n’era fatto, si curava poco, e del resto Mussolini prometteva anche quella. Un fatto però va subito rilevato, che traspare anche dai ricordi d’infanzia di chi scrive: la fiducia andava a Mussolini, non al fascismo. Anzi, per essere più esatti, andava a Mussolini in quanto «domatore» del fascismo. Mio nonno, vecchio liberale giolittiano e sindaco del paese, disse al capo delle squadre locali che lo avevano tormentato: «Finalmente è venuto il castigamatti che metterà a posto anche voi». Il mito di Mussolini nacque in quei giorni, non tra i fascisti, ma contro i fascisti, e Cesare Rossi ne coniò lo slogan: «Prima mussoliniani, poi fascisti».
Lo condivise anche la classe dirigente, e non soltanto – come poi si disse – quella di destra. Le lettere di Giolitti ai suoi amici parlano chiaro: non bisognava ostacolare Mussolini «che ha tratto il Paese dal fosso in cui finiva per imputridire». E Nitti: «Bisogna che l’esperimento fascista si compia indisturbato: nessuna opposizione deve venire da parte nostra». Ma non diversamente la pensava Amendola, secondo cui occorreva aiutare Mussolini a ripristinare la legalità; mentre Salvemini andava oltre augurandosi che Mussolini spazzasse via «queste vecchie mummie e canaglie» della vecchia classe politica. «Se Mussolini venisse a morire, e avessimo un ministero Turati, ritorneremmo pari pari all’antico. Motivo per cui bisogna che Mussolini goda di una salute di ferro, fino a quando non muoiano tutti i Turati.» Ma è curioso che lo stesso Turati, come risulta dall’epistolario della Kuliscioff, riconosceva che la pacificazione poteva ottenerla solo Mussolini.
Non bisogna tuttavia equivocare. In questi consensi ci sarà stata anche della codardia, della stanchezza e della volontà di capitolazione. Ma c’era anche un atto di contrizione. La vecchia classe politica sapeva di aver fallito il suo compito di guardiana delle istituzioni, e si rendeva conto di essere caduta, di fronte alla pubblica coscienza, nel più totale discredito. In queste condizioni, era logico ch’essa vedesse in Mussolini l’unico uomo in grado, per l’intatto prestigio che gli conferiva la sua «novità», di addossarsi i compiti ai quali essa aveva coscienza di essere stata impari. Lo vedeva insomma come «l’uomo dell’emergenza» destinato ad esaurirsi con l’emergenza. E la Kuliscioff lo diceva chiaro: «Bisogna ch’egli possa percorrere tutta la sua parabola, dovesse rimanere anche un paio d’anni al potere…». Poi, essa sottintendeva – come tutti gli altri –, i partiti tradizionali avrebbero ripreso in mano il mestolo di un Paese normalizzato, facendo tesoro della lezione.
In questa coralità di consensi, gli unici a fare stecca erano proprio i fascisti, che paventavano ciò che gli altri speravano. Essi capivano che Mussolini li aveva giuocati mobilitandoli solo per finta, e si sentivano defraudati della «rivoluzione». L’aborto della marcia li aveva lasciati con la bocca amara e non si era svolto senza incidenti. Per fermarle, Grandi aveva dovuto correre incontro alle squadre di Bottai che volevano a tutti i costi prendere Roma d’assalto. E all’ordine di smobilitazione dopo la sfilata sotto il Quirinale, esse avevano risposto invadendo e devastando le sedi di alcuni giornali. Altre violenze ci furono in tutta Italia, e Nitti si salvò a stento dalla bastonatura.
Ma il pericolo più grave essi lo vedevano nella «vendita delle indulgenze», da cui il fascismo sentiva minacciata la sua «purezza», e più ancora forse insidiate le sue «privative». Prontissimi come al solito a correre in aiuto del vincitore, gl’Italiani facevano ressa agli uffici tesseramento del partito, che non resistevano a pressioni e circonvenzioni. Specialmente nel Sud, che al fascismo era sempre rimasto piuttosto allergico, i vecchi maneggioni del clientelismo scoprivano improvvisamente in se stessi una irrefrenabile vocazione fascista, e per tradurla in tessere quando queste gli venivano rifiutate, s’iscrivevano in massa al partito nazionalista che in un battibaleno vide decuplicati i suoi effettivi. A un certo punto, come peso numerico, i «Sempre Pronti», come si chiamavano gli squadristi di Federzoni, che invece della camicia nera portavano la camicia azzurra, rischiarono quasi di sopraffare quelli di Mussolini.
Di fronte a queste «provocazioni», nei vecchi squadristi tornava ad affiorare il fondo massimalista e palingenetico che aveva animato il primo movimento. Essi non volevano inserirsi nelle strutture dello Stato liberale. Volevano sovvertirle. E vedendo nella «normalizzazione» il pericolo che Mussolini se ne lasciasse catturare, cercarono d’impedirla ricorrendo di nuovo al sangue. All’ordine di mantenere la disciplina e di rispettare la vita e la libertà dei cittadini risposero con una ripresa di bastonature e di spedizioni punitive. Il 18 dicembre a Torino furono uccisi ventidue operai, e altri tredici morti ci furono poco dopo alla Spezia. Contro Molinella, superstite isolotto del miglior socialismo riformista, che aveva resistito grazie alla forza delle sue cooperative agrarie e all’energia e all’idealismo del loro organizzatore Massarenti, si scatenarono attacchi su attacchi. Fu in questo clima che maturarono alcuni dei peggiori delitti del fascismo come l’assassinio di don Minzoni, un sacerdote decorato di medaglia d’argento, a Ferrara.
A questa ripresa di violenza che metteva in pericolo tutta la sua azione, Mussolini reagì con tre mosse. La prima fu l’istituzione di un Gran Consiglio del Fascismo col quale egli contava di assumere un più diretto controllo del partito impegnando i capi che ne facevano parte ad avallare le sue decisioni e a farle accettare dai militanti. Sul piano costituzionale questa specie di Politburo fu sempre un rebus nel senso che sia la sua composizione che i suoi poteri rimasero nel vago: tant’è vero che nella seduta del 25 luglio ’43 – l’ultima e la sola che abbia contato veramente qualcosa – si discusse se le sue erano decisioni a cui anche il Duce dovesse attenersi, o soltanto pareri ch’egli potesse seguire o rifiutare. Comunque, è certo ch’egli lo concepì, come dice De Felice, come qualcosa di mezzo fra un «consiglio di palazzo» destinato ad avallare le sue volontà e a dar loro maggior vigore, e una «camera di compensazione» in cui lasciar sfogare ed esaurire i contrasti interni del partito. Col tempo la natura ibrida di quest’organo e l’incertezza delle sue attribuzioni vennero a galla, e infatti esso non esercitò alcun peso. Ma lì per lì permise a Mussolini di riprendere alla meglio il controllo su un partito che gli sfuggiva.
Fu grazie e in forza di esso, riunito per la prima volta nella notte fra il 15 e il 16 dicembre ch’egli poté varare la seconda e più importante misura: l’istituzione di un vero e proprio esercito fascista, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, forte di trecentomila uomini impegnati per giuramento alla fedeltà non al Re, ma al Duce. La decisione era grave, e molti tuttora si chiedono come poté essere accettata da un parlamento ancora in larga maggioranza non fascista, e soprattutto dal Re, che si vedeva nascere in casa una forza armata in concorrenza con quella regolare. Il fatto è che tutti si resero conto che Mussolini non aveva altro mezzo per venire a capo della riottosità delle squadre e ridurle al rispetto della disciplina. Anzi, a capirlo più e meglio degli altri furono proprio gli oppositori che da un corpo militarmente inquadrato e responsabilizzato si sentivano molto meno minacciati che da squadracce alla mercé dei propri sanguinari úzzoli. Forti malumori vennero invece dall’Esercito, geloso delle sue prerogative e privative, e grosse resistenze dalle squadre, restie a un inquadramento che avrebbe distrutto la loro autonomia e soffocato la loro carica rivoluzionaria. Infatti non tutte si lasciarono assorbire; alcune si strinsero intorno ai vecchi ras che le avevano guidate nei tempi della lotta e che condividevano i loro umori.
La terza misura normalizzatrice fu la fusione coi nazionalisti, o meglio il loro assorbimento. Federzoni avrebbe voluto resistere, ma non ne aveva la forza: sapeva benissimo che le reclute affluite all’ultima ora nel suo movimento erano d’accatto e non chiedevano di meglio che di essere traghettate nel Fascio e nella sua Milizia, in cui i Sempre Pronti entrarono con slancio.
Così i problemi più urgenti furono almeno provvisoriamente risolti, e la normalizzazione poté prendere il suo faticoso avvìo.
Anche Mussolini cercava di normalizzarsi, ma senza rinunziare a introdurre nell’esercizio delle sue funzioni un «nuovo stile». Aveva preso in affitto un modesto appartamento in via Rasella, ma non ci aveva chiamato Rachele ed Edda, che preferiva lasciare a Milano. Ad accudirgli provvedeva un certo Cirillo Tambara, qualcosa di mezzo fra il cameriere e il gorilla, che si era fatto apprezzare soprattutto per il modo con cui cucinava il piatto preferito di Mussolini: il minestrone con la cotenna di maiale. Ma in casa il Duce ci stava poco. Si alzava alle sei, usciva poco dopo le sette, e alle otto era già nel suo ufficio di palazzo Chigi, sede del Ministero degli Esteri, attaccato al telefono per controllare se tutti erano al loro posto. «Voglio da quaranta a cinquantamila uomini che funzionino come un congegno di orologeria» aveva detto prendendo possesso della sua carica. E la burocrazia romana rispose a questo appello all’efficienza nel suo solito modo: mostrandosene entusiasta, dando spettacolo di grande solerzia, ma opponendo alle innovazioni una resistenza di gomma. Fu essa a infliggere la prima sconfitta a Mussolini che pretendeva imporle l’orario unico: l’accanimento e la tenacia con cui difese il suo secolare diritto al desinare e alla pennechella, restano memorabili.
Mussolini però non si arrendeva. Non aveva ancora quarant’anni, era al meglio delle sue risorse ed energie e, poco pratico dell’ambiente romano e della sua incalcolabile forza passiva, era convinto di riuscire a scuoterlo col suo attivismo. «Non sono qui di passaggio,» disse «ma per starci e governare. Gl’Italiani devono obbedire e obbediranno, dovessi lottare contro amici, nemici, perfino contro me stesso.» Una pioggia di decreti si abbatté sul Paese, che intendevano regolare la vita dei cittadini fin nei minimi dettagli. Gli automobilisti dovettero imparare a non suonare il clacson, severamente proibito; i pedoni a camminare solo sul marciapiede di sinistra; e con gran disperazione del poeta Trilussa vennero ridotte a mal partito le «botticelle», cioè le carrozze a cavallo, segno di una Roma arcaica e provinciale.
La società romana cercò invano di catturare Mussolini, come sempre aveva fatto con tutti gl’invasori. L’uomo era allergico alla mondanità e nella cosiddetta «società» si sentiva spaesato e a disagio. Seguitava a non curare il proprio guardaroba, e l’unica concessione che faceva a quella ch’egli credeva l’eleganza erano le ghette che portava sempre, anche sull’abito di cerimonia. Il giorno in cui prese possesso del suo ufficio, vi si presentò con una giacca a righe verdi e rosse, che sembrava il plaid d’un cavallo. Il diplomatico Barone-Russo cui era stato discretamente affidato l’incarico di rimetterlo un po’ in sesto, penò parecchio a persuaderlo che sotto la marsina non si poteva indossare una camicia di lino bianco coi polsini rosa. All’esigenze del cerimoniale si ribellava come un cavallo brado alla cavezza, e alla sua prima sortita mondana – un pranzo all’ambasciata d’Inghilterra –, tutti trattennero il fiato per le gaffe che avrebbe potuto fare. Invece non ne fece nessuna anche grazie al tatto dell’ambasciatrice Sybil Graham che, seduta accanto a lui, gl’insegnò senza parere come si maneggiava il coltello del pesce e come si sorbiva il brodo in tazza. Mussolini fece del suo meglio. Ma, accomiatandosi, disse alla signora: «Non sapevo che gl’Inglesi bevono la minestra come se fosse birra». Barone-Russo scoprì abbastanza presto il punto debole del ribelle: la paura del ridicolo. Fu agitandogli davanti agli occhi questo spauracchio che gli fece smettere l’abitudine d’infilarsi il tovagliolo nel colletto e d’inzuppare il pane nel vino.
Questi suoi rustici modi tenevano in allarme soprattutto il Ministero degli Esteri di cui egli aveva assunto il portafoglio. Mussolini non aveva molta conoscenza dei problemi internazionali, di cui sin allora si era sempre occupato solo ai fini della politica interna. Ma sapeva di non averla, e sin dapprincipio accettò di lasciarvisi condurre per mano dal Segretario generale Contarini.
Contarini era un esperto diplomatico di carriera, cresciuto alla scuola di San Giuliano di cui condivideva l’impostazione. Di formazione nazionalista, ma moderata, egli vedeva la collocazione dell’Italia nel vecchio fronte occidentale ma in una dignitosa posizione di parità con Francia e Inghilterra. Che Mussolini intendesse svolgere in questo concerto una politica di prestigio, non gli dispiaceva. Fin dapprincipio si adoperò soltanto a smussarne gli angoli, ma non è vero che, come dice Guariglia, il vero Ministro degli Esteri fu lui. Mussolini si avvalse della sua esperienza e ne accettò i consigli, ma dette subito a divedere che la politica estera voleva farla da sé.
I criteri a cui la ispirò furono soprattutto, se non esclusivamente, quelli della presenza e del prestigio che gli occorrevano per rafforzare la sua posizione all’interno. Il 16 novembre, poco più di due settimane dopo la conquista del potere, volle prendere personalmente parte alla conferenza della pace fra Grecia e Turchia insieme al Presidente del Consiglio francese, Poincaré, e al ministro degli Esteri inglese Curzon. Ma invece di raggiungerli a Losanna, dove si teneva la riunione, pretese che fossero loro a raggiungere lui a Territet. Poincaré e Curzon gli dettero soddisfazione, e in compenso trovarono in lui il più ragionevole degl’interlocutori. L’accordo fra i tre fu presto raggiunto, e in privati colloqui Mussolini credette di aver strappato a Curzon un preciso impegno a ridiscutere la questione dei «Mandati», cioè di quei territori del Medio Oriente, la cui amministrazione era stata affidata, sia pure a titolo temporaneo, alle potenze occidentali. In pubbliche dichiarazioni, Curzon parlò di lui come di «un uomo d’incredibile energia e dal pugno di ferro», ma in una lettera privata al collega Bonar Law lo definì «un pericoloso demagogo privo di scrupoli». I famosi impegni si rivelarono poi delle platoniche dichiarazioni di buona volontà, ma Mussolini tornò in Italia con un accredito internazionale, e tutta la stampa parlò della sua missione come di un grande successo che restituiva all’Italia il suo rango di grande potenza.
Fu tuttavia subito chiaro che, a parte queste affermazioni di prestigio, Mussolini non voleva correre avventure. Dopo aver dato con tanta insistenza di «rinunciatari» a tutti coloro che avevano cercato un accordo con la Jugoslavia per Fiume e la Dalmazia, appena arrivato al potere si affrettò a dargli esecuzione ingiungendo a fascisti e nazionalisti di non creare complicazioni. Il punto su cui fu irremovibile, ma ben sapendo di non rischiarvi nulla, fu il Dodecaneso che l’Italia occupava solo a titolo temporaneo, e di cui l’Inghilterra chiedeva la restituzione alla Grecia. Mussolini replicò con forza che il problema era legato a quello dei Mandati: se da questi l’Italia restava esclusa, non poteva rinunziare alla sovranità su quelle isole, e la conferenza di Losanna gli dette ragione.
Ma accanto a queste iniziative, di cui la stampa parlava esaltandole, e in cui lo zampino di Contarini è abbastanza visibile, Mussolini ne prese per conto suo un’altra, di cui nessuno allora seppe nulla. Appena arrivato al potere egli affidò al proprio segretario personale, Chiavolini, il compito di procurargli un incontro col cardinale Gasparri, il vero régolo politico della Santa Sede. Chiavolini si rivolse al conte Carlo Santucci, presidente del Banco di Roma e personaggio molto influente in Vaticano. Santucci, che aveva un palazzo con due ingressi, lo mise a disposizione dei due uomini, che vi si dettero convegno passando dalle due diverse porte in modo da non dar nell’occhio, una sera della seconda metà di gennaio (la data non è accertata con precisione). Secondo qualche storico fu l’avvìo delle laboriose trattative che sei anni dopo sfociarono nella Conciliazione. Questo non è del tutto esatto. Secondo la testimonianza di Santucci, al termine del lungo colloquio cui egli non aveva assistito, il Cardinale gli disse che «per ora siamo intesi che non convenga affrontare in pieno la questione romana». Ciò vuol dire che ne avevano parlato, ma solo per darsi reciprocamente una prova di buona volontà e raggiungere più facilmente l’accordo su altre cose.
Quella che più stava a cuore a Gasparri era il Banco di Roma, che finanziava tutte le organizzazioni cattoliche e il loro giornale «Corriere d’Italia», e che in quel momento versava in condizioni disperate. Gasparri chiese a Mussolini di soccorrerlo, Mussolini s’impegnò a farlo, e lo fece perché anche a lui stava a cuore qualcosa per la quale Gasparri poteva essergli di grande e decisivo aiuto. Della maggioranza di cui disponeva alla Camera, i popolari erano il gruppo più compatto, anzi l’unico gruppo compatto perché le altre forze di centro e di destra erano oramai frantumate. Ma il partito non era affatto concorde nell’atteggiamento verso il fascismo. L’ala destra era addirittura per la collaborazione al governo, cui infatti aveva prestato due suoi uomini – Cavazzoni e Tangorra – come Ministri, e alcuni altri come Sottosegretari. L’ala sinistra capeggiata da Miglioli era risolutamente per l’opposizione. La maggioranza di centro, guidata da Sturzo e De Gasperi, era contro la collaborazione e per un appoggio condizionato da molte riserve. Queste tre tendenze stavano per venire a confronto nel congresso del partito che si doveva tenere a Torino in aprile. E Mussolini sapeva che una cosa sola avrebbe potuto indurre Sturzo, sicuro vincitore, a mutare atteggiamento o ad abbandonare la partita: un richiamo della Santa Sede.
Certo, egli non lo chiese esplicitamente a Gasparri. Ma probabilmente glielo fece capire al suo solito modo: cedendo a tutte le sue richieste per quanto riguardava non solo il Banco di Roma, ma anche la parificazione delle scuole private (quasi tutte in mano ai preti) a quelle dello Stato, l’insegnamento religioso, il ripristino del crocifisso nelle aule, la lotta contro la massoneria, e infine anche adombrando la possibilità, sia pure proiettata in un avvenire lontano, di una conciliazione fra Stato e Chiesa; ma anche facendo presente la difficoltà, per lui, di legare le mani alle squadre fasciste contro le organizzazioni e le leghe cattoliche se queste continuavano a farsi rappresentare da un partito che si schierava contro il governo fascista.
Gasparri non era uomo da scandalizzarsi di un simile ricatto. Vecchio arnese di Curia temporale, esperto solo di affari terreni, scettico sugli uomini, rotto a tutte le loro astuzie e pronto a ricambiarle, dovette anzi trovare di suo gusto il linguaggio del suo interlocutore. E infatti, uscendo, disse a Santucci: «È un uomo di prim’ordine: sono molto soddisfatto del colloquio». Anche Mussolini lo era, come disse ad Acerbo. Quanto alla questione romana, forse un solo impegno avevano preso l’uno con l’altro: quello di proseguire i loro contatti attraverso un fiduciario, il padre gesuita Tacchi Venturi, che infatti da allora iniziò la sua furtiva spola fra i due uomini, e che fu il vero tessitore della lunga trama che portò alla Conciliazione. Ma Duce e Cardinale si erano studiati, e si erano piaciuti, o per lo meno non si erano dispiaciuti.