CAPITOLO SETTIMO
«IL CADAVERE TRA I PIEDI»
Il 10 giugno era un sabato, e faceva un gran caldo. Matteotti, che abitava nei pressi di quello che è oggi il Ministero della Marina, uscì di casa verso le quattro, e prese il Lungotevere per avviarsi verso Montecitorio. Non si avvide, o forse si avvide troppo tardi, di un’automobile in sosta sotto i platani.
Quell’automobile era lì ferma da tanto tempo che il portinaio di una casa lì nei pressi, insospettito, ne aveva notato il numero. A bordo c’erano cinque uomini: Dumini, Volpi, Viola, Poveromo, Malacria. Erano essi la famosa Ceka a cui aveva alluso Mussolini.
Quando Matteotti giunse alla loro altezza, gli balzarono addosso. Matteotti si difese come poté, e seguitò a dibattersi anche quando lo ebbero ficcato a forza nella macchina, che partì a tutta velocità verso Ponte Milvio. Riuscì anche a gettare dal finestrino la sua tessera di deputato nella speranza di attirare l’attenzione dei passanti. Sembra che a un certo momento egli tirasse un calcio così violento nei testicoli di Viola che questi accecato dall’ira, gli vibrò una pugnalata recidendogli la carotide.
Col morto in mano, i cinque persero la testa. Dumini, ch’era al volante, si mise a girovagare senza bussola per le stradette di campagna. Solo sul far della sera si fermò in un boschetto – il boschetto della Quartarella –, e lì decise di seppellire il cadavere. Non avendone gli attrezzi, scavarono col crickett una fossa profonda meno di mezzo metro, ci ficcarono a forza il morto piegato in due, rientrarono a Roma, e nella notte Dumini si presentò a Marinelli per riferirgli l’accaduto.
Qui, il filo dei fatti si perde in un groviglio di testimonianze contraddittorie. Non sappiamo come Marinelli accolse la notizia, non sappiamo come la riportò a Mussolini, non sappiamo come questi reagì. C’è chi dice che Marinelli uscì dal colloquio piangendo come un bambino duramente castigato. Ma non sono che voci. I fiumi d’inchiostro che sono corsi su questo episodio e le risultanze dei due processi di cui fu oggetto – sia di quello, poco attendibile, che si svolse subito dopo, in regime fascista; sia di quello che si svolse nel ’47 – non sono bastati a ricostruire con esattezza la meccanica degli avvenimenti.
Torniamo a quelli accertati. La notizia della scomparsa di Matteotti fu data naturalmente la notte stessa ai suoi amici dalla moglie sgomenta. Sulla stampa trapelò solo il 12, quando già la Camera tumultuante chiamava Mussolini a fornire spiegazioni. L’uomo, che portava sul volto i segni di una notte insonne, dichiarò di essere all’oscuro di tutto e di avere già impartito rigorosi ordini di ricerca alla polizia, compresa quella di frontiera. Sapeva invece tutto, meno il bosco in cui era sepolto il cadavere perché questo non riuscivano più a ubicarlo nemmeno gli autori del delitto; e accennava alla frontiera per dar credito a una voce che dava Matteotti per espatriato clandestinamente. L’opposizione accolse le sue parole con grida e tumulti, e il deputato repubblicano Chiesa lo accusò di voler coprire le responsabilità dei criminali, riconoscendosene in tal modo complice.
Probabilmente, in quel momento, egli sperava di abbuiare la vicenda. Ma il portinaio che aveva notato il numero di targa dell’automobile lo segnalò alla polizia che fece presto a identificare il proprietario della macchina: era Filippelli, il direttore del «Corriere italiano», il quale l’aveva prestata a Dumini. La notizia era già sui giornali. E a questo punto non era più possibile fermare le indagini.
La notte si riunì il Gran Consiglio, al termine del quale fu emesso un laconico comunicato in cui si diceva ch’era stata presa in esame «la situazione politica generale». Naturalmente si era discusso invece del delitto, e qui erano esplosi tutti i contrasti, ideologici e personali, che covavano in seno al «vertice» fascista. Il pretesto era troppo buono per far cadere alcune teste, e Mussolini si accorse che le più bersagliate erano quelle di Marinelli, che godeva della generale antipatia, di Finzi per le illecite speculazioni che gli venivano attribuite anche dall’opposizione, e soprattutto di Rossi per l’ascendente che tutti gli accreditavano su di lui. Forse non fu detto esplicitamente. Ma i capri espiatori erano già designati.
Quasi nelle stesse ore si riunivano i capi della opposizione che, su sollecitazione di Amendola e di Turati, decisero di disertare le sedute della Camera fin quando il governo non avesse chiarito le proprie responsabilità. Non era ancora quello che poi si chiamò «l’Aventino», cioè il definitivo ritiro degli oppositori come gesto di condanna morale del regime. Ma vi preludeva.
Fu dunque a un’aula popolata soltanto di deputati della sua maggioranza, anche se questa era profondamente scossa e divisa, che Mussolini si ripresentò l’indomani, 13, più rinfrancato, e con un piano di difesa ormai stabilito. Non c’era più dubbio, disse, che si trattasse di delitto. Ma i colpevoli erano già stati identificati, e due di essi (Dumini e Putato) arrestati: il che dimostrava che la giustizia seguiva il suo corso e lo avrebbe seguito fino al completo accertamento delle responsabilità, quali che fossero. «Se c’è qualcuno in quest’aula» aggiunse «che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e, aggiungerei, esasperato, sono io. Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto, che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida d’indignazione.» Dopodiché, con un colpo a sorpresa certamente concertato con lui, il Presidente Rocco aggiornò i lavori della Camera sine die, togliendo così ai nemici del regime il più autorevole podio da cui parlare.
Fu allora che Turati si accorse dell’errore commesso. «Non ti dico» scrisse alla Kuliscioff «come sono pentito del nostro gesto. A noi parve necessario. Ma il ministero, più furbo di noi, ne profittò subito per liberarsi della Camera per sette mesi. E la Camera voleva dire la sola tribuna possibile, la sola trincea, il solo controllo.» È solo curioso che, pur essendosene reso così bene conto, Turati fu poi tra quelli che più insistettero per dare al ritiro un carattere permanente e definitivo.
Liberato dalla Camera, Mussolini non lo era però dalla stampa che, tuttora libera, non gli dava tregua. I giornali avevano raddoppiato le loro tirature, e si facevano concorrenza in sensazionalismo con titoli a tutta pagina. L’impressione generale era che il regime fosse agli sgoccioli, molti fascisti gettavano via ostentatamente il distintivo, e i capi dell’opposizione videro rifiorire intorno a loro molte amicizie che credevano ormai appassite. D’Annunzio era uscito dal suo silenzio per dare un’intervista in cui parlava di «fetida ruina». Circolava la voce di imminenti dimissioni di Mussolini, e Sforza addirittura proponeva ai suoi amici di non aspettare i carabinieri e di andar loro a palazzo Chigi ad arrestare l’inquilino.
Questi sembrava distrutto. La sua anticamera era vuota. E l’usciere Quinto Navarra ha raccontato nelle sue memorie che un giorno, non sentendo più venire alcun rumore dalla stanza del Duce, ne aveva socchiuso la porta e lo aveva visto, in ginocchio su una poltrona, che batteva la testa contro il muro.
La polemica sui giornali si faceva sempre più rovente. Quelli fascisti sostenevano la tesi del «cadavere gettato tra i piedi di Mussolini» dai suoi nemici fuoriusciti e massoni con la connivenza di alcuni traditori fascisti, e l’allusione era diretta soprattutto a Cesare Rossi. La stampa antifascista sosteneva invece che Matteotti era stato soppresso per impedirgli di fare le «rivelazioni» che aveva in serbo sugli affari che fiorivano all’ombra del regime, e di cui aveva già consegnato la documentazione a Turati.
La prima ipotesi cadde subito per mancanza di elementi su cui fondarla. Nella seconda forse qualcosa di vero c’era. Matteotti, che di finanze s’intendeva, sapeva molte cose su certe concessioni di ricerche petrolifere alla Sinclair Company e altri casi di speculazione: vi aveva accennato anche in un articolo su un periodico inglese. Ma non si trattava di cose da mettere in crisi il governo, e lo dimostra il fatto che Turati non produsse mai i documenti di cui avrebbe avuto la copia.
Una terza ipotesi, che dopo la Liberazione fu ripresa da Carlo Silvestri, e che fornisce argomenti a quella del «cadavere gettato fra i piedi di Mussolini», è che Matteotti venne soppresso dai «falchi» del fascismo per creare un «caso» che impedisse l’accordo con la Confederazione Generale del Lavoro, a cui Mussolini non aveva smesso di pensare.
Di tutte queste congetture, poco o nulla rimane. Oramai quasi tutti gli storici consentono su una genesi del delitto molto più semplice, almeno come meccanica di svolgimento: quella fornita da Cesare Rossi nel suo «Memoriale». In Mussolini, disse Rossi, un fondo di criminalità c’era: lo riconosceva anche suo fratello Arnaldo. Ed era stato questo fondo a ispirargli, dopo la requisitoria di Matteotti alla Camera, la famosa e fatale invocazione alla Ceka. Quella frase basta ad attribuire a Mussolini la responsabilità morale del delitto. Ma non si era tradotta in un esplicito mandato. Mussolini era un politico troppo accorto per non capire le conseguenze di un simile assassinio, e che ne venisse colto di contropiede lo dimostra lo stesso smarrimento con cui vi reagì.
A tradurre il suo scoppio di furore in un ordine di castigo fu Marinelli, e il gesto somiglia d’altronde al personaggio: un Himmler in sedicesimo, ottuso burocrate della violenza e carrierista ambizioso, assolutamente privo di qualità sia politiche che umane. La Ceka era sua, la considerava una specie di milizia personale, e solo da lui dipendeva. La sera del Gran Consiglio egli aveva detto a Rossi e a Finzi che l’ordine di metterla in moto gli era venuto da Mussolini. Ma Rossi non ci aveva creduto, e i fatti gli hanno dato ragione. Vent’anni dopo, condannato a morte dal Tribunale di Verona insieme agli altri «traditori» del 25 luglio, Marinelli confidò a Pareschi e a Cianetti, suoi compagni di prigione, che l’ordine l’aveva dato lui, convinto di esaudire i desideri del Duce. Resta solo da sapere se l’ordine fu di uccidere Matteotti, o di «dargli una lezione» com’era nello stile squadrista. Naturalmente gli esecutori sostennero sempre che uccidere non volevano, e che la vittima gli morì in mano. Alla loro parola naturalmente non si può credere. Ma il modo in cui si svolsero le cose dimostra ch’essi avevano agito da persone atterrite dal loro proprio misfatto e che non avevano nulla predisposto nemmeno per occultare il cadavere.
Ma il cadavere c’era, e con esso ormai Mussolini doveva fare i conti. Il 14 giugno i Ministri «moderati» del suo governo – Gentile, Federzoni, Oviglio e De Stefani – gli mettevano a disposizione i loro portafogli per dargli modo – scrissero nella loro lettera di dimissioni – di formare un nuovo ministero che favorisse la «conciliazione nazionale». Mussolini ignorò la lettera, ma comprese che qualche soddisfazione doveva darla, e si decise al sacrificio di due dei capri espiatori già designati: Rossi e Finzi. Chiedendo le loro dimissioni, a entrambi disse che si trattava di «una necessità tattica del momento». Essi accettarono di darle, ma subito dopo si accorsero di essere sotto sorveglianza della polizia. Nascosto in casa di un amico, Rossi mandò a Mussolini una lettera ricattatoria in cui lo minacciava di rivelare i retroscena di tutte le violenze, nelle quali lo stesso Mussolini era implicato come mandante. Anche Finzi si mise a stendere un memoriale, di cui diede lettura anche ad alcuni esponenti dell’opposizione. Ma Mussolini riuscì a placarlo in un secondo colloquio. La terza vittima fu De Bono, liquidato come capo della polizia per scarsa efficienza e sostituito con un funzionario di carriera che desse il senso della «normalizzazione». Infine venne arrestato Marinelli per i suoi riconosciuti rapporti con la Ceka.
La posizione di Mussolini rimaneva precaria. Ma egli capiva che i pericoli non gli venivano dall’opposizione, specie ora che si era ritirata definitivamente sull’Aventino, e nemmeno dalla piazza che, tutto sommato, era rimasta quieta: gli stessi comunisti riconoscevano che a un moto rivoluzionario non c’era nemmeno da pensare. I quattro quinti degl’Italiani erano in quel momento schierati contro il fascismo. Ma aspettavano che qualcuno venisse a liberarli. E questo qualcuno non poteva essere che il Re.
Nel momento in cui era scoppiato l’affare Matteotti, il Re era in viaggio in Spagna e in Inghilterra. Rientrò il 16, e fu certamente con trepidazione che l’indomani Mussolini si recò al Quirinale. Sapeva benissimo che, se il Re si fosse dissociato da lui, era finita. E lo sapevano anche i suoi avversari, che infatti incontro al Re avevano mandato il conte Campello. Questi salì sul treno reale a Livorno, e per il resto del viaggio fino alla Capitale fece al Re il quadro più nero della situazione. Il Re, come al solito, ascoltò. E, come al solito, tacque. Forse perché non aveva ancora deciso l’atteggiamento da prendere. O forse perché lo aveva già deciso.
Non diversamente dovette comportarsi l’indomani con Mussolini, quando questi andò a riferirgli. Si va per induzioni perché del colloquio manca un resoconto. Mussolini non c’era andato a mani vuote. Nella cartella portava il decreto di nomina di Federzoni a Ministro dell’Interno, scelta certamente gradita al Re e che rappresentava una garanzia di distensione. Il Re firmò il decreto, non prese impegni, ma non diede nemmeno segno di voler prendere iniziative. Come poi ha detto suo figlio, si era già formato la convinzione che Mussolini fosse del tutto estraneo al delitto.
Abbastanza rassicurato sulle intenzioni del Re, Mussolini si presentò in Senato il 24 per quella che, come scrisse nei suoi appunti, egli considerava «una battaglia pericolosa». Qui gli oppositori non erano andati sull’Aventino. Erano in aula, e parlarono per bocca di Albertini, Sforza e Abbiate. Mussolini fu pacato e rassicurante. Disse che le indagini sul delitto sarebbero continuate fino all’accertamento di tutte le responsabilità «alte o basse» che fossero, che la giustizia sarebbe stata inflessibile nel castigo e che l’obiettivo del governo restava quello di sempre: «la normalità politica e la pacificazione nazionale».
Mentre il dibattito era tuttora in corso l’«Osservatore Romano» fece udire la parola della Chiesa: era assurdo pretendere che il fascismo si suicidasse e sparisse. E non meno assurdo era pensare che questo potesse avvenire senza provocare nel Paese spaccature e dilacerazioni. «Non si aprirebbe forse il solito salto nel buio?» concludeva il giornale. «Queste inquietanti domande sono nella mente e sul labbro dei più.»
Fu questa paura del «salto nel buio» che alla fine prevalse nell’aula e ne determinò il voto: 225 favorevoli, 21 contrari e 6 astenuti. «Voto importantissimo,» scrisse Mussolini nei suoi appunti «oserei dire decisivo. Il Senato in un’ora difficile, nel pieno della tempesta politica e morale, si schierava quasi unanime col governo. Ciò serviva da indicazione alla Corona.» Era vero. Ma quel voto non era affatto fascista, come poi fu considerato. Le ragioni di esso erano spiegate in un’intervista di Benedetto Croce che era stato tra i favorevoli: ed erano le ragioni di un moderatismo che tuttora vedeva in Mussolini un restauratore dell’ordine e pensava, sostenendolo, di sottrarlo alle spinte eversive dell’estremismo fascista – al quale faceva risalire il delitto –, facendo di lui lo strumento di una restaurazione liberal-conservatrice.
Non si trattava di farneticazioni perché, come i fatti dimostrarono, lo stesso Mussolini voleva marciare su questa strada. Forte del successo riportato in Senato, il 1° luglio procedette a un rimpasto del governo, da cui uscirono Gentile, Carnazza e Corbino per fare posto a Casati, Sarrocchi, Nava e Lanza di Scalea. Erano quattro nomi rassicuranti: i primi due liberali salandrini, Nava un ex popolare legato da stretta amicizia al Papa, Lanza un nazionalista graditissimo al Re. E fra i nuovi sottosegretari figurava, agl’Interni, Dino Grandi, fascista con tutti i crismi, ma anche garanzia di moderazione.
Forse su questa strada normalizzatrice Mussolini avrebbe marciato a un passo ancora più rapido e risoluto, se non avesse dovuto fare i conti coi suoi. Provocato dall’ondata di sdegno che il delitto seguitava a suscitare e dalle diserzioni che ne erano seguite, il vecchio squadrismo aveva rialzato la testa. Nostalgici di una «rivoluzione» di cui si sentivano defraudati, soprattutto gli Emiliani e i Toscani reclamavano una «seconda ondata» che rompesse gli ormeggi con la vecchia Italia liberale e democratica, ne spazzasse i resti e, libera da compromessi, attuasse le istanze del fascismo più estremo, compresa quella repubblicana. A Firenze, il 9 luglio, migliaia di veterani del manganello sfilarono per le strade lanciando abbasso a Mussolini ed evviva a Farinacci, considerato l’interprete più qualificato di questo stato d’animo.
Fu buon per Mussolini che Farinacci non ne approfittasse. Farinacci non aveva mancato di far rilevare sul suo giornale quanta ragione egli avesse avuto di opporsi alla «soluzione costituzionale» scelta da Mussolini al tempo della marcia su Roma accettando l’investitura dalle mani del Re e dal voto del parlamento invece che dalle «baionette delle camicie nere». Ma pur pungolandolo a riprendere l’iniziativa rivoluzionaria e ad agire in conseguenza, non prese posizione contro Mussolini e gli rimase sostanzialmente fedele. Altri però assunsero atteggiamenti di aperta dissidenza, e fra questi ci fu Malaparte che sul suo periodico «Conquista dello Stato» si fece il portavoce dello squadrismo più intransigente. Forse sperava, cavalcandone la tigre, di capeggiare un movimento politico, ma poi si contentò di tramutarlo in letterario. Il suo appello alle «sane forze» della provincia, le uniche in grado di rigenerare con la loro violenza la vita italiana, purificandola da calcoli e compromessi, diventò il manifesto di Strapaese che, grazie a due uomini migliori di lui, Longanesi e Maccari, difese la cultura e il gusto di una certa Italia tradizionale contro le pacchianerie del trionfante fascismo «littorio».
Stretto e incalzato fra le due opposte esigenze di rassicurare da una parte l’Italia moderata del Re, dell’Esercito e del Senato, e dall’altra di tenere in briglia il partito che, reclamando la «seconda ondata», rischiava di sfuggirgli di mano, Mussolini tenne il solito atteggiamento oscillante. Il 22 luglio, in Gran Consiglio, egli si dichiarò pronto anche alla violenza, se fosse stata necessaria. Disse che non avrebbe consentito a nessuno di fare «il processo al regime» che apparteneva solo alla storia. Garantì che «la Milizia non si tocca», e diede soddisfazione a Farinacci consentendogli di assumere la difesa di Dumini. Aggiunse però che anche la rivoluzione richiede i suoi stratagemmi e furberie: chiedeva perciò comprensione e aiuto.
Ma il 16 agosto venne il colpo di scena che mise a repentaglio la sua doppia manovra. Il caso volle che un guardiacaccia passasse col suo cane nel bosco della Quartarella. Il cane puntò il naso per terra e cominciò a scavare furiosamente. Affiorarono dei resti umani: erano quelli di Matteotti.
Nessuno aveva mai dubitato che il deputato socialista fosse stato ucciso, e la macabra scoperta non rivelava quindi niente di nuovo, ma rilanciò l’ondata dell’indignazione e dell’orrore. Ancora abbastanza liberi, i giornali dell’opposizione diedero fondo al repertorio sensazionalistico, aggiungendo anche particolari di fantasia sulle sevizie cui la vittima sarebbe stata sottoposta. Quelli fascisti replicarono con veemenza appellandosi alle squadre, ci furono tafferugli con morti e feriti, e il difficile equilibrio che Mussolini aveva trovato fra gli opposti estremismi si ruppe. Per riprendere in mano la situazione, egli scese nuovamente in piazza tenendo comizi in varie città e alternando come al solito le promesse alle minacce. Parlando ai minatori del Monte Amiata disse: «Il giorno in cui i nostri nemici uscissero dalla vociferazione molesta per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremmo le strame per gli accampamenti delle camicie nere».
Rimbalzata a Roma, la frase provocò fra i liberali fiancheggiatori un serio allarme che indusse Sarrocchi e Casati a presentare le dimissioni. Mussolini riuscì a fargliele ritirare, ma un altro colpo all’opera di distensione lo inferse un esaltato dell’antifascismo uccidendo a revolverate il deputato fascista Armando Casalini che fra l’altro era dei più moderati. La reazione fascista fu violenta, ricominciarono le bastonature e gli assalti specialmente alle logge massoniche. E sempre più difficile si fece per Mussolini il compito di tenere unita una maggioranza, la cui componente liberal-conservatrice si scollava sempre di più da quella fascista.
Questo processo sembrava ormai irreversibile. Gl’industriali, che prendevano il la da Albertini e dal suo «Corriere della Sera», presentarono al governo un documento in cui lo s’invitava a ripristinare tutte le libertà statutarie e in pratica a sciogliere la Milizia. Nel loro congresso di Livorno i liberali affermarono la loro «piena indipendenza nell’esercizio del mandato parlamentare», cioè il diritto dei loro rappresentanti eletti nel «listone» a ritirarsi dalla maggioranza. E le potenti associazioni dei combattenti e dei mutilati, che già nei loro congressi dell’estate avevano preso le distanze dal governo, annunziarono che non avrebbero partecipato alle manifestazioni del 28 ottobre, secondo anniversario della marcia su Roma. Questa scadenza, come quella del 4 novembre, diventò per Mussolini un incubo. Tutte le forze fasciste vennero mobilitate per riempire le piazze. Ma le piazze furono riempite solo da esse, dando così alla pubblica opinione il senso e la misura del loro isolamento.
Nemmeno questo tuttavia riuscì a schiodare l’Aventino dalla sua inconcludenza. Salvo la «questione morale» sulla quale si erano trovati tutti d’accordo, ma che impediva loro di tornare alla Camera, unico terreno sul quale avrebbero potuto svolgere una proficua azione di lotta, i suoi esponenti non riuscivano a trovare punti d’intesa tra loro. Un accordo tattico fra socialisti e popolari era violentemente contestato sia dai massimalisti che dalla Chiesa. Turati ne era scorato («Non si conclude nulla» aveva scritto alla Kuliscioff), e lo stesso Amendola, ispiratore e anima della secessione, fermissimo sul piano morale, su quello politico si mostrava tentennante e irresoluto. Alla fine di luglio egli aveva ricevuto da Filippelli un memoriale di difesa che era di accusa a Mussolini, e un documento, ancora più importante per le sue rivelazioni, gli era pervenuto ai primi di agosto: il memoriale di Cesare Rossi, che aveva dato seguito alla sua minaccia. Se fosse rimasto alla Camera, Amendola avrebbe potuto portarlo in discussione. Fuori, non gli restava che farne materia di una campagna di stampa, ma tuttora esitava a servirsene.
Constatata la propria impotenza, alcuni aventiniani pensarono di rivolgersi al solito D’Annunzio. Ma il Poeta non ne volle sapere adducendo i suoi anni, le condizioni di salute, e i doveri che – disse – gli restavano da assolvere verso la Poesia. Forse però la chiave del suo rifiuto sta in una ricevuta di 5 milioni e 200.000 lire (una cifra colossale, a quei tempi) fatte pagare da Mussolini al Poeta per l’acquisto dei suoi manoscritti.
Così si giunse alla riapertura della Camera, il 12 novembre. Stavolta l’opposizione c’era: la pattuglia dei comunisti che, stanchi delle chiacchiere dell’Aventino, avevano deciso di riprendere il loro posto in aula. Il discorso di Mussolini fu lungo e, come sempre avveniva quando lo allungava, scialbo. La partita del resto non si giuocava lì. Si giuocava nei corridoi, e tutti gli occhi in quel momento erano rivolti – come sempre nelle emergenze parlamentari – a Giolitti, che non era intervenuto alla prima seduta per non derogare alla propria tattica attendista. Giolitti non aveva fin allora scoperto le sue carte, ma aveva vivamente deplorato la secessione dell’Aventino, commentando ironicamente: «Questo Mussolini ha tutte le fortune. A me l’opposizione non ha mai dato tregua. A lui lascia libero il campo». Da allora si era tenuto sulle sue. Ma un suo incontro con Orlando bastò ad accendere le fantasie. La Kuliscioff scrisse a Turati che bisognava favorire l’alleanza fra i due che avrebbe dato coraggio al Re per intervenire. Poi si cominciò a dire che ai tre si sarebbe unito anche Salandra: il che avrebbe definitivamente tolto a Mussolini la maggioranza.
Ma di tutto questo al primo voto – quello sulla politica estera – non si vide nulla. Il bilancio passò con 315 voti favorevoli, 6 contrari e 26 astenuti. Fra i contrari ci fu Giolitti, fra gli astenuti Orlando. Seguì la discussione sul bilancio dell’Interno, molto più spinosa perché riguardava l’ordine pubblico. Mussolini stavolta fu più incisivo, ma il voto andò peggio: i contrari salirono a 17 e – cosa più grave – Salandra, pur dichiarandosi favorevole, fece un intervento molto critico, che indicava la volontà di prendere le distanze.
A questo punto Amendola si scosse e consegnò i due memoriali a Bonomi perché li portasse in visione al Re. Il Re ringraziò per la fiducia, consultò i documenti, e li restituì dicendo che i mittenti avevano sbagliato indirizzo. Non dovevano mandarli a lui, ma portarli alla Camera e sollecitare su di essi un dibattito che solo in quella sede poteva condurre a qualche risultato. C’è chi dice ch’egli aveva ormai deciso di sostenere fino in fondo Mussolini legando così, irrevocabilmente, le sorti della monarchia a quelle del regime. Questo somiglia poco al personaggio, per sua natura cauto e possibilista. Ma è probabile che un fondo di vero ci sia nel senso ch’egli non si fidava completamente di Mussolini, ma si fidava ancora meno dei suoi avversari ed era convinto che costoro, se avessero ripreso il mestolo in mano, avrebbero ricreato il caos del dopoguerra. Comunque, a una cosa era assolutamente deciso: a non farsi coinvolgere nella lotta politica, come del resto gli dettava la Costituzione di cui, quando gli faceva comodo, sapeva ricordarsi. «Io sono sordo e cieco:» ripeteva a chiunque gli sollecitava un intervento «i miei occhi e i miei orecchi sono la Camera e il Senato.»