CAPITOLO OTTAVO
IL 3 GENNAIO
Il Senato si riunì il 3 dicembre, in un’atmosfera che non lasciava presagire nulla di buono. I suoi umori li aveva lasciati trapelare pochi giorni prima negando la convalida di otto nuovi membri proposti dal governo. Per di più i militari, che in Senato avevano una notevole e autorevole rappresentanza, erano in subbuglio contro un progetto di riforma, elaborato dal Ministro della Guerra, generale Di Giorgio, che prevedeva una riduzione di effettivi. Il fatto che Mussolini lo avesse avallato dimostra che di cose militari non capiva nulla: altrimenti si sarebbe accorto che quel progetto, in sé saggio, era destinato a provocare il malcontento degli alti gradi dei quali invece in quel momento egli aveva particolare bisogno.
Il primo a parlare fu Albertini, che pronunciò un discorso di netta e drastica opposizione: ma il suo atteggiamento era scontato. A dare il segno delle incertezze che regnavano in Senato fu l’intervento di Ettore Conti, una delle figure più prestigiose del mondo imprenditoriale. Egli riconobbe le benemerenze del governo, ma contestò al fascismo la pretesa d’inquadrare tutte le masse fasciste nei suoi sindacati a esclusione degli altri, cioè di quelli socialisti e cattolici, e concluse chiedendosi se il fascismo non avesse esaurito la sua funzione ripristinando le condizioni necessarie all’esercizio della libertà.
A questo discorso, che fece molta impressione perché dimostrava la volontà della grande industria di prendere le distanze dal regime, seguirono quelli dei generali Giardino, Zuppelli e Tassoni che non si limitarono alla critica del progetto Di Giorgio, e attaccarono apertamente la Milizia. Le loro parole furono prese per una campana a morto, perché nessuno dubitò che fossero state concordate col Re: e tutti ne videro la conferma nel fatto che il Ministro della Real Casa, Mattioli Pasqualini, abbandonò l’aula prima del voto, e il generale Brusati, ex aiutante di campo di Vittorio Emanuele, votò contro.
Mussolini ebbe il senso del pericolo e lo dimostrò nella sua replica cercando a sua volta di spaventare i Senatori. Al fascismo, disse, non c’erano che due alternative: o il comunismo, a cui ormai l’opposizione aveva spianato la strada facendo di esso la sua forza-guida, o un governo militare, che è sempre un rimedio temporaneo «Potrà durare» disse «per sei, per dodici mesi. Ma dopo le passioni riesploderebbero, e saremmo daccapo.»
Queste parole ottennero il loro effetto. Alla votazione, ci furono 206 «sì», 54 «no», e 35 astenuti. Ma, per quanto ancora abbastanza larga, questa vittoria lo era meno di quella ottenuta in giugno, quando i contrari erano stati 21 e gli astenuti 6. Lo sfaldamento della maggioranza ridiede animo all’opposizione nella stessa misura in cui lo toglieva all’ala moderata del fascismo. Raffaele Paolucci, che al prestigio del grande chirurgo univa quello della medaglia d’oro conquistata in guerra, riunì il 20 dicembre a casa sua una quarantina di deputati fascisti per impegnarli a esercitare su Mussolini una pressione che lo inducesse a farla finita con l’estremismo squadrista, ad andare in fondo all’affare Matteotti colpendo senza riguardi chi era da colpire, a ripristinare la legalità in tutto il suo rigore, e a varare una riforma elettorale che sancisse il ritorno al collegio uninominale.
Non fu una congiura. L’indomani Paolucci andò da Mussolini per informarlo delle decisioni prese in quel lungo conciliabolo, ma qui – egli ha raccontato nelle sue memorie – «mi trovai di fronte a un magistrale colpo di scena: Mussolini depositava al banco della Presidenza il progetto di legge che ripristinava il collegio uninominale».
Qui De Felice ha rilevato, nei ricordi di Paolucci, un errore di date in quanto il colpo a sorpresa di Mussolini avvenne il 20, non il 21. Ma il particolare ci sembra di scarsa importanza. Ciò che interessa sapere è come e perché Mussolini si fosse infilata, tra le carte del giuoco, quella della riforma elettorale, e a cosa mirasse gettandola sul tavolo in quel momento.
La morsa in cui egli si trovava si faceva sempre più stretta. L’indomani stesso del voto in Senato, il 6 dicembre, il direttore del giornale del partito popolare – «Il popolo» –, Donati, aveva presentato denuncia contro De Bono per complicità, quale capo della polizia, nel delitto Matteotti. Secondo Salvemini, era stato lo stesso Mussolini a costringervelo, facendo trafugare e pubblicare alcuni scampoli dell’incartamento, per due motivi: prima di tutto perché la denuncia bloccava il procedimento giudiziario già in corso per l’assassinio, eppoi perché rinfocolava i contrasti tra gli aventiniani, molti dei quali disapprovavano l’iniziativa di Donati, che in realtà non portava all’accusa elementi nuovi, anzi la inficiava con dati piuttosto discutibili. Quella di Salvemini è soltanto un’ipotesi. Ma non è un’ipotesi che i fascisti si sentissero sempre più minacciati e sempre meno protetti dal loro tentennante capo. Dieci giorni dopo, un gruppo di oppositori chiese alla Camera l’autorizzazione a procedere, cioè la consegna alla giustizia ordinaria dell’on. Giunta, che della Camera era vicepresidente, per aggressioni e violenze. Farinacci e Bianchi insorsero, ma Mussolini li richiamò seccamente all’ordine ingiungendo a Giunta, che aveva già dato le dimissioni, di mantenerle e di mettersi a disposizione del magistrato.
Ma a esasperare ancora di più il vecchio squadrismo erano le voci, che si facevano sempre più insistenti, di un segreto accordo fra Mussolini e i liberali per la cessione dei suoi poteri a Salandra in cambio di un’amnistia, che avrebbe costituito una sanatoria per tutti i fascisti che si sentivano in qualche modo compromessi, rimandandoli a casa. Non si è mai saputo con esattezza cosa ci fosse di vero in questa storia, di cui si parlava anche nei giornali. Ma a renderla verisimile erano gli atteggiamenti di Mussolini che anche in Gran Consiglio, pare, una volta aveva accennato alla possibilità di cedere il passo a un governo non Salandra, ma Orlando.
Riteniamo di poter escludere che Mussolini avesse realmente intenzione di abbandonare la partita. Ma non escludiamo affatto che, per seguitare a giuocarla, egli abbia anche negoziato o finto di negoziare coi capi liberali della maggioranza, in modo da tenerli ancora legati a sé per guadagnare tempo. Scrivendone alla Kuliscioff, Turati le dava per sicura una trattativa per la formazione di un governo Salandra con l’appoggio di Giolitti e di Orlando, e aggiungeva che il Re sotto sotto la favoriva. Quest’ultimo particolare era certamente di fantasia, ma non c’è dubbio che la maggioranza su cui il governo si reggeva mostrava chiari segni di frana.
Tutto ciò Mussolini doveva averlo previsto da tempo, o almeno messo nel novero delle possibilità: solo così si spiega il fatto che già due mesi prima egli avesse pensato alla riforma elettorale, e ne avesse affidato il progetto a Federzoni e a Grandi, cioè a due moderati in grado d’interpretare al meglio gli scopi a cui doveva servire. Probabilmente voleva soltanto premunirsi. Ma quando seppe della iniziativa di Paolucci – e lo seppe certamente prima che questi venisse a parlargliene –, capì che non c’era più tempo da perdere. Dietro Paolucci c’era Campello. E se anche dietro Campello non c’era il Re, i fascisti moderati potevano pensare che ci fosse e che quindi convenisse abbandonare ormai al suo destino un governo ormai troppo compromesso con l’estremismo e coi suoi delitti.
Fu allora che Mussolini tirò fuori il suo colpo a sorpresa. E che tutti ne fossero presi di contropiede, lo testimonia Salandra: «Cessata la prima impressione di sbalordimento, fu chiaro lo scopo della mossa di Mussolini: atterrire le opposizioni, ma soprattutto sgominare i nuclei della maggioranza che dimostravano velleità d’indipendenza. Si deve riconoscere che Mussolini vi riuscì mirabilmente». Il ripristino del collegio uninominale colpiva infatti al cuore i partiti di massa socialisti e popolari che dal sistema proporzionale traevano i maggiori vantaggi, rivalutava i notabili liberali che potevano contare sul maggior seguito personale, e metteva i fascisti alla mercé di Mussolini che poteva includerli o scartarli dalla lista dei candidati.
Lo sconcerto fu enorme. Il «Corriere della Sera», che fin allora aveva tenuto l’atteggiamento più risolutamente ostile, scrisse: «Corre l’obbligo di dire che, dopo aver escogitato le riforme più strampalate e reazionarie, consapevole o inconsapevole, il ministero viene alla fine avanti con una proposta che si può onestamente chiamare ricostruttrice». Era la voce di tutta la pubblica opinione moderata, da Salandra a Giolitti, che vedeva nella iniziativa la propria rivincita. La stampa fascista si divise. Gli estremisti rimasero estremisti, ma si accorsero di essere sempre più soli, perché quella che si chiamava «la palude», cioè il fascismo legalitario, il fascismo dei «padri di famiglia», ch’era sempre numericamente il più forte, si allineò subito, un po’ per le sue convinzioni liberaleggianti, un po’ per garantirsi un «posto».
L’opposizione violenta venne, com’era logico, dall’Aventino. Esso ora poteva valutare l’errore commesso abbandonando la sede parlamentare. E per rompere il proprio isolamento, decise la «sortita», ricorrendo finalmente ai documenti che aveva in mano per incriminare Mussolini. Dopo l’inutile presentazione al Re, Salandra dice che il memoriale Rossi venne offerto al cardinale Gasparri perché se ne facesse il banditore avallandolo con la sua autorità; se questo fosse vero, bisognerebbe dedurne che i capi dell’antifascismo avevano poco cervello o lo avevano perso. Nessuno comunque volle prendere in mano la patata bollente. Non restava che la pubblicazione.
Il 27 dicembre «Il Mondo» di Amendola pubblicava la prima puntata del memoriale Rossi. Le rivelazioni erano gravi soprattutto in quanto portavano la firma della persona meglio qualificata a farle, ma l’impressione che suscitarono era attutita dalla mancanza della sorpresa: il contenuto di quel memoriale era già in gran parte noto, l’Aventino l’aveva lasciato per troppo tempo nei suoi cassetti. Tuttavia delle reazioni ci furono in seno allo stesso governo. Al Consiglio dei Ministri del 30 dicembre Casati e Sarrocchi sostennero che il governo doveva dare le dimissioni e mettersi a disposizione della giustizia. Erano convinti di avere l’appoggio di Federzoni, che si era impegnato a darglielo. Ma quando Casati disse che proprio a Federzoni toccava prendere la successione di Mussolini, Federzoni si dissociò. Stando al diario di Salandra, che certamente aveva suggerito la mossa di Casati e Sarrocchi, o almeno l’aveva approvata, Mussolini rispose minacciando di scatenare le squadre. Sebbene ne manchi il verbale, la seduta fu tempestosa e rischiò di concludersi con una crisi di governo che avrebbe aperto la strada a qualsiasi avventura. Ma probabilmente fu proprio per evitare l’avventura che i due militari, Di Giorgio e Thaon di Revel, si schierarono a favore di Mussolini.
Evitate per un pelo le dimissioni, la sorte del governo restava tuttavia appesa a un filo. Avvertendo che la maggioranza si sfaldava, le squadre si ricostituivano per conto proprio dando nuovamente mano al manganello, sfidando i prefetti e i questori di Federzoni e rischiando di mettere Mussolini nelle condizioni di Facta. I loro giornali lo dicevano esplicitamente facendo bersaglio dei loro attacchi non l’opposizione, ma il fascismo moderato e i suoi Ministri, specialmente Federzoni, De Stefani e Oviglio. I più violenti erano «L’Impero» di Carli e Settimelli, la «Conquista dello Stato» di Curzio Suckert (più tardi Malaparte), che addirittura minacciava un «fascismo contro Mussolini». Questo intransigentismo non aveva un capo perché né Farinacci né Balbo vollero esserlo, ma ciò lo rendeva anche più pericoloso perché lo lasciava alla mercé di iniziative irresponsabili. Diecimila squadristi armati di tutto punto convergevano da tutte le città toscane su Firenze, decisi a farne la loro Vandea. Era chiaro che, anche se Mussolini avesse ceduto, il fascismo non avrebbe disarmato.
Di cedere, Mussolini non aveva nessuna intenzione. Ma non aveva nemmeno quella di attuare un colpo di forza, come dimostrano gli sforzi che faceva, o che lasciava fare da Federzoni per riaffermare l’ordine pubblico contro i disordini delle squadre. Non c’è un solo documento né una sola testimonianza da cui si possa dedurre ch’egli pensava a un colpo di Stato. L’uomo non amava i rischi, li aveva affrontati di rado e solo quando aveva poco da perdere. Ora ch’era in giuoco la cosa a cui più teneva, il potere, era diventato ancora più cauto. Sapeva benissimo che un colpo di forza, se non fosse riuscito, lo avrebbe messo alle prese col Re e l’Esercito, le sole forze che gli facevano veramente paura; e, se fosse riuscito, lo avrebbe lasciato alla mercé dello squadrismo, che non era mai riuscito a domare. Aveva ancora la speranza di cavarsela con una di quelle «combinazioni» parlamentari, delle quali era maestro.
A metterlo con le spalle al muro furono i Consoli della Milizia. Guidati da Galbiati e Tarabella, una quarantina di loro si recarono il 31 dicembre a palazzo Chigi con la scusa di fare a Mussolini gli auguri per il nuovo anno. Su questo incontro forse si è un po’ romanzato. Qualcuno ha detto che i Consoli penetrarono quasi di forza nell’ufficio di Mussolini e si disposero intorno a lui, la mano sul pugnale come pronti a sguainarlo. Questo appartiene forse al melodramma. Ma lo scontro fu duro. Con la consueta risolutezza, Tarabella pose l’aut aut: o Mussolini affrontava di petto la situazione assumendone la responsabilità, o questa responsabilità se l’assumevano i Consoli consegnandosi spontaneamente alla giustizia e liberando da ogni vincolo di disciplina le squadre.
Spaurito e disfatto, Mussolini tentò di tergiversare, ma Tarabella fu perentorio. I fascisti avevano capito, disse, ch’egli stava per sacrificare partito e Milizia, ma per impedirglielo erano pronti anche a disfarsi di lui, e Mussolini dovette cedere, impegnandosi a mettere a tacere l’opposizione. Ma non ne era molto convinto, e i suoi interlocutori se n’accorsero. Poche ore dopo essi si riunirono con altri «camerati» in casa di un certo Vizzoni. Era presente anche Raoul Palermi, capo della massoneria. Da un rapporto della polizia risulta che fu avanzata anche l’ipotesi di «far fuori» Mussolini «con due colpi di rivoltella».
Del gesto di forza dei Consoli non fu data naturalmente notizia, ma tutti sentivano che si era ormai arrivati all’ora della verità. I diecimila squadristi toscani stavano mettendo a soqquadro Firenze, dove avevano incendiato il «Nuovo giornale», anche molte altre città erano in subbuglio, e si profilava il pericolo di uno scontro in grande con la forza pubblica. «Viviamo giorni di passione» scriveva Turati alla Kuliscioff, dandole notizia di tutte le manovre che s’intrecciavano per la successione al potere. Erano le solite manovre: Giolitti con Orlando, ma Salandra non voleva. Orlando con Salandra, ma non voleva Giolitti. In questo groviglio di rivalità personali, il capo socialista riconosceva che l’unica speranza era il Re. Da quanto gli aveva detto giubilando Sforza, al ricevimento di Capodanno in Quirinale, il Re aveva piantato in asso Mussolini ch’era rimasto completamente isolato in un angolo della sala: né Giolitti, né Salandra, né Orlando, e nemmeno Diaz e Thaon di Revel gli si erano avvicinati: una scena che ci sembra poco credibile. Ormai, diceva Turati, l’unico problema era quello di «trovare il modo per la ritirata del duce, che al consiglio di andarsene risponderebbe soltanto con questo eloquente bisillabo: dove?».
La verità è che Turati e tutti gli altri oppositori scambiavano per realtà i loro desideri. Mussolini non era affatto deciso a mantenere la promessa strappatagli dai Consoli, ma lo era risolutamente a conservare il potere. Per mettere a tacere le opposizioni senza ricorrere al colpo di Stato, non c’era che un modo: sciogliere la Camera: con la nuova legge elettorale avrebbe potuto procurarsene un’altra in cui l’opposizione sarebbe stata del tutto impotente. Ma per sciogliere la Camera, ci voleva il consenso del Re, e chiederglielo era una mossa azzardata. Se il Re lo avesse accordato, sarebbe stata la prova che la Corona, e quindi l’Esercito, aveva fatto la sua scelta in favore del fascismo. Ma se lo avesse negato?
Mussolini decise di giuocare la carta. La mattina del 2 gennaio andò al Quirinale, ma non parlò al Re del suo progetto. Poi redasse il decreto di scioglimento e incaricò il Sottosegretario alla Presidenza, Suardo, di portarlo al Re per la firma. Sappiamo da un appunto dello stesso Suardo che il Re si mostrò «turbato» della proposta, e soprattutto sorpreso che Mussolini, nella sua visita di poche ore prima, non gliene avesse parlato. Suardo fece del suo meglio per convincere il Re che non c’era altro da fare per ridurre alla ragione gli oppositori che, disse, inquinavano anche l’ambiente del Quirinale (e l’allusione era soprattutto a Campello). Il Re era perplesso. Disse – era il suo solito ritornello – che avrebbe preferito abdicare piuttosto che venir meno alla Costituzione, com’era nelle tradizioni della sua Casa. E alla fine concluse: «Dica al Presidente che io firmo il decreto, ma che voglio consegnarlo a lui personalmente e che perciò lo attendo qui subito».
Ma quando Mussolini arrivò in Quirinale – ed era già la tarda serata –, il Re aveva modificato la sua decisione. Del colloquio manca, come al solito, un testo. Ma lo si può indurre dai fatti che seguirono. Il Re non firmò il decreto, ma disse a Mussolini, o gli lasciò intendere, che lo avrebbe fatto se la Camera gli avesse rinnovato la fiducia e approvato la legge elettorale, e comunque solo dopo la conclusione del processo per il delitto Matteotti, che non poteva esaurirsi prima dell’autunno.
Era un «sì» che equivaleva a un «no» perché, dopo il pronunciamento dei Consoli, Mussolini capiva che fino all’autunno le squadre non poteva tenerle in pugno. Non sappiamo se lo disse al Re. Non sappiamo se lo informò di quanto si proponeva di dire l’indomani alla Camera. In anni recenti, l’ex Re Umberto ha dichiarato che suo padre era completamente all’oscuro delle intenzioni di Mussolini. E ci crediamo senz’altro anche perché è molto probabile che quelle intenzioni Mussolini non le avesse ancora maturate. Impulsivo ma irresoluto, ancora esitava davanti al colpo di forza, e fino a quel momento aveva cercato di evitarlo. Ma durante la notte dovette convincersi che altro non gli restava: anche se non avevano accarezzato il pugnale, quei Consoli stretti a tenaglia intorno a lui lo avevano traumatizzato.
La Camera si riunì nel pomeriggio del 3. Quando si alzò a prendere la parola, Mussolini apparve «pallido e teso». Come sempre faceva nei momenti di emergenza, giuocò sulla sorpresa, cogliendo tutti di contropiede con una domanda che pareva audace e provocatoria: «L’articolo 47 dello Statuto dice: “La Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del Re e di tradurli dinanzi all’Alta Corte di Giustizia”». Pausa. «Chiedo formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che voglia valersi dell’articolo 47.»
La pattuglia dei deputati fascisti, forse colti di sorpresa anche loro, balzò in piedi acclamando mentre tutti gli altri tacevano sbalorditi. Mussolini continuò: «Il mio discorso sarà dunque chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell’avvenire». Era la denuncia delle alleanze su cui il fascismo si era retto fin allora e l’aut aut a coloro che le avevano accettate: o col fascismo fino in fondo, o fuori del fascismo. E il fascismo era lui, Mussolini. «Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica, di tutto quanto è avvenuto.» E come trascinato dalle proprie parole (il discorso non era scritto, e in molti punti appare improvvisato) aggiunse teatralmente: «Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda. Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa. Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». E giù con queste frasi più da comizio di piazza che da aula parlamentare, ma che erano destinate a un grande effetto sulle pagine dei giornali, fino alla logica conclusione che del semplice «effetto» andava al di là:
Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo, e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo perché il governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi questa tranquillità, questa calma laboriosa, gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. State certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area.
Nelle quarantott’ore successive, Casati e Sarrocchi si dimisero, sostituiti da Fedele e Giuriati, e anche Oviglio, inviso al vecchio fascismo, dovette lasciare il posto a Rocco; le sedute della Camera vennero sospese; e una pioggia di «riservate» si abbatté sui prefetti. Essi dovevano provvedere «allo scioglimento di tutte le organizzazioni che sotto qualsiasi pretesto possano raccogliere elementi turbolenti o che comunque tendano a sovvertire i poteri dello Stato»: una direttiva che si prestava a qualsiasi applicazione, ma che era controbilanciata da un telegramma ancora più riservato che autorizzava a misure non meno rigorose contro i fascisti che avessero cercato di approfittare della favorevole situazione per commettere violenze e soprusi. Infine vennero chiamate in vigore le norme repressive della libertà di stampa, che fin allora erano rimaste sulla carta.
Eppure, molti non capirono che col discorso del 3 gennaio il fascismo cambiava volto, e diventava dittatura. Non lo capì il Re, che si dolse, ma a mezza voce soltanto, di non esserne stato informato. Non lo capì l’Aventino che interpretò l’accaduto non come un epilogo, ma come l’inizio della «fase estrema del conflitto fra la dominazione fascista e il Paese». Non lo capì Turati che lo scambiò per uno «dei soliti bluff per disorientare e spaventare le passere». Lo capirono bene soltanto due giovani giornalisti, Adolfo Tino e Armando Zanetti, che sulla loro rivista, «Rinascita liberale», scrissero: «L’on. Mussolini ha ritrovato il suo ruolo. S’era perduto in questi ultimi tempi – non si può dire se per pura ingenuità o per studiato calcolo – dietro a contraddittori e caotici segni di pacificazione. Aveva battuto tutte le strade e gettati tutti i ponti verso tutte le rive. Ma alla fine non gli è rimasto che tornare al suo istinto, o meglio – e la parola forse gli sarà gradita – al suo profondo genio. La normalizzazione per lui e per la sua forma mentis non ha avuto e non può avere senso alcuno».
Resterebbe solo da sapere con che animo Mussolini s’investì, il 3 gennaio, nella parte di dittatore. Se, come molti sostengono, gli sforzi che fino a quel momento aveva fatto per evitarla erano stati solo un giuoco per dimostrare che non era lui a volerla, ma gli eventi a imporgliela, bisogna riconoscere che come giuocatore sapeva il fatto suo.