1

1819, Londra

Nascosto in un vicolo cieco non lontano da St. James's Square, il Vega Club si trovava a metà strada fra la ricca eleganza di Mayfair e lo squallore brutale delle catapecchie di Whitechapel. Non si faceva scrupolo ad accogliere entrambi; si diceva che chiunque – duca o lavoratore portuale, signora del ton o della strada – potesse richiedere di diventarne membro. C'erano solo due condizioni imposte a coloro che erano abbastanza fortunati da assicurarsi il pegno d'argento dei soci.

Pagare i debiti.

Tenere la bocca chiusa.

Si vociferava che ai membri fosse richiesto di giurare solennemente di non rivelare nulla di ciò che accadeva all'interno del Vega. Si vociferava, perché nessuno poteva, o voleva, confermarlo. Se messi alle strette, i soci affermavano di non sapere niente al riguardo, prima di allontanarsi in tutta fretta.

Jack Lindeville, Duca di Ware, sapeva tutto del club. Era la sua rovina, sebbene non ci fosse mai entrato. Il fratello minore, Philip, lo frequentava con gli amici; di tanto in tanto lo invitavano ad accompagnarli, ma lui rifiutava sempre l'invito. Sapeva perché era il benvenuto ai loro tavoli e non era certo per il suo fascino. I giovanotti che vivevano di entrate fisse, magari anche generose, erano sempre alla ricerca di qualche ricco da sfidare al gioco e, come gli ricordava spesso Philip, quello di Ware era uno dei ducati più ricchi d'Inghilterra.

Ciò significava che, ai loro occhi, era un ottimo bersaglio. Sfortunatamente per loro, non era tanto sciocco da accettare. Un colpo di sfortuna e ci si poteva rovinare la vita.

Sorrise a quel pensiero, mentre la carrozza si immetteva in St. Martin's Lane diretta al Vega Club. Philip affermava che era stata proprio la sfortuna la causa della sua rovina più recente: un due di fiori, quando per vincere gli sarebbe bastata una qualsiasi carta superiore a tre. Philip era certo di avere calcolato le probabilità in maniera corretta e che fosse stato il mazziere a sbagliare, sebbene non osasse dichiararlo e rischiare così la sua ammissione al club. In ogni caso il risultato era che aveva firmato un pagherò per quasi duemila sterline, che non poteva saldare.

Si era scusato e aveva promesso che non sarebbe più successo, sebbene fosse accaduto già tante volte prima di allora. Tuttavia ne aveva parlato con la loro madre, che era entrata nello studio di Jack in preda a una furia indignata e aveva insistito affinché pagasse il debito così che Philip non venisse umiliato o impoverito.

All'inizio Jack non aveva voluto saperne. Il fratello se l'era cercata e se era abbastanza uomo da firmare una promessa di pagamento del genere, allora doveva essere anche abbastanza uomo da trovare il modo di onorarla. Ma sua madre aveva discusso e poi lo aveva blandito, finché non aveva cominciato a piangere e ad accusarlo di cinica indifferenza nei confronti del suo dovere verso la famiglia. A quel punto, lui si era arreso. Quando la duchessa si metteva in testa qualcosa, non c'era modo di ragionare con lei.

La carrozza si fermò. Il valletto aprì lo sportello e Jack scese. Avrebbe pagato quel debito per Philip, ma non senza ripercussioni. Il fratello aveva delle entrate indipendenti grazie alla madre, ma otteneva anche un assegno dalle tenute del ducato. Erano sette anni che Jack le sovrintendeva e non avrebbe di certo permesso che il suo duro lavoro venisse inghiottito dalla sfortuna del fratello al tavolo da gioco.

Serio, entrò nel club. Un tipo corpulento con indosso impeccabili abiti da sera gli si parò dinnanzi. «Buonasera. Posso aiutarvi?»

«Sono qui per vedere Dashwood» rispose Jack nominando il proprietario del club. Estrasse un biglietto da visita e lo passò all'uomo.

«Vi sta aspettando?»

Lui sorrise con amarezza. «Credo che non sarà sorpreso dal mio arrivo.» Suo fratello non si vergognava di approfittare del nome dei Ware. Se Mr. Dashwood era davvero astuto quanto suggerito dalla sua reputazione, aveva probabilmente previsto la visita di Jack nel momento stesso in cui Philip aveva firmato il pagherò.

L'uomo, che doveva essere il portiere, lo studiò. «Forse no. Volete attendere nel salone da pranzo?»

Dio, no. Avrebbe potuto incontrare qualcuno che conosceva. Voleva concludere quella faccenda il prima possibile, preferibilmente senza che nessuno ne sapesse niente. «Aspetterò qui» rispose con un tono che chiariva come non prevedesse di attendere molto.

L'altro chinò il capo. «Magari preferireste giocare una mano o due a carte nel frattempo?»

Alle spalle dell'uomo si apriva il salone principale del Vega. Non era vistoso e dozzinale come si era aspettato, ma raffinato; pareva un normale club per gentiluomini... se non fosse stato per le donne. Non mere sgualdrine della casa strette ai fianchi degli uomini, ma donne della società. Jack rimase sorpreso nell'intravedere Lady Rotherwood che giocava a whist.

«Il Vega non esclude le donne» commentò il portiere seguendo il suo sguardo. «È una sorpresa per molti gentiluomini, ma ne comprendono presto il beneficio.»

«Non ne dubito.» Jack si chiese se Philip avesse mai perso contro una signora, ma poi pensò che importava poco. I soldi persi rimanevano soldi persi.

In ogni caso, era incuriosito. Donne che giocavano d'azzardo in compagnia di uomini. Strano.

Il portiere lo lasciò per andare a informare Mr. Dashwood e lui avanzò per osservare il salone da dietro alcune fronde di palma.

Riconobbe Angus Whitley e Fergus Fraser, due compagni di Philip. Sedevano a un tavolo con un altro uomo e una donna che indossava un abito rosso cremisi e che gli dava le spalle. Aveva i capelli raccolti in uno chignon, rivelando così la pelle chiara. Aveva al collo un nastrino nero, stretto con un fiocchetto, con uno dei lembi che si arricciava allettante, come a invitare qualcuno a tirarlo per scioglierlo.

Gli occhi di Jack si attardarono su di lei. Che tipo di donna desiderava essere membro di una casa da gioco? Qualsiasi signora decente sarebbe rifuggita al solo pensiero. Lady Rotherwood, per quanto fosse una viscontessa, aveva la nomea di donna gaudente. Chissà quali erano i requisiti per diventare soci del club; erano diversi tra uomini e donne? Non dovevano essere troppo severi, visto che Philip non aveva avuto difficoltà a entrare, armato solo del proprio nome illustre, di tanto fascino e di una pessima fortuna a carte.

Whitley imprecò, gettando le carte sul tavolo. Fraser rise, pavoneggiandosi vittorioso; si allungò per afferrare i soldi al centro del tavolo, ma la donna lo fermò appoggiando le dita sul suo polso. Jack non aveva idea di che cosa stesse dicendo, ma vista l'espressione sbigottita di Fraser, immaginò che non fossero buone notizie. Il terzo uomo posò le carte e cominciò a ridere, una risata fragorosa che richiamò l'attenzione dei presenti. Chiaramente la donna li aveva battuti tutti.

E piuttosto che essere costernata da tanta attenzione, disse qualcosa che fece scoppiare Whitley a ridere e provocò risatine divertite anche al tavolo vicino. Jack non riusciva a vederle il volto, ma percepiva che era compiaciuta da come aveva appena piegato il capo su un lato mentre raccoglieva le vincite.

Non c'era da stupirsi che a Philip piacesse quel luogo. Chissà se conosceva la donna in rosso.

«Vostra Grazia» lo chiamò una voce alle sue spalle. Jack si girò, contento di poter ricacciare quel pensiero. Il portiere era tornato. «Mr. Dashwood vi aspetta.»

L'uomo gli fece strada attraversando una porta che si apriva discreta di fianco alle palme, seguendo quindi un corridoio, fino a giungere a un'altra porta. Bussò, aprì il battente e si inchinò non appena Jack entrò.

«Nicholas Dashwood, al vostro servizio, Vostra Grazia.» Il proprietario del club si inchinò. Era un tipo alto e slanciato, con i tratti del volto duri e spigolosi. «Mi dispiace per l'attesa, non vi aspettavo.»

«Sono venuto a saldare il debito di mio fratello.»

Dashwood sollevò un angolo della bocca di fronte al suo tono freddo. «Mi aveva detto che forse sareste passato.»

Jack soffocò un'ondata di rabbia al pensiero che Philip aveva fatto così tanto affidamento su quel suo pagamento da averne parlato con il proprietario. Tuttavia, avrebbe dovuto immaginarselo: il fratello non provava alcuna vergogna nel cavarsi fuori da situazioni spiacevoli.

Dashwood girò attorno alla scrivania e prese un foglio. «Duemilacentoventi sterline.»

Jack prese un bel respiro per controllare di nuovo la collera. Philip aveva mentito anche su quello, affermando che si trattava di meno di duemila sterline. «Posso vedere?»

L'altro gli passò il foglio con un sorriso leggero. Doveva occuparsi di tali faccende in continuazione. A Jack bastò un'occhiata per accertarsi che quella era la calligrafia del fratello, che prometteva la grossa somma in questione a Sir Lester Bagwell. «È vostra abitudine garantire debiti per i membri del club?» chiese riconsegnando il pagherò.

«Non garantisco niente.» Dashwood si appoggiò alla scrivania. «I membri sono liberi di scambiarsi promesse di pagamento. Di tanto in tanto preferiscono che le conservi io, non come garante, ma come semplice favore. Sono un intermediario, per così dire. Abbiamo poche regole al Vega, ma la più importante è quella di saldare sempre i propri debiti.»

Ciò significava che Sir Lester temeva che Philip non avrebbe pagato ciò che doveva e voleva quindi che il proprietario del club ne facesse rispettare le regole. Torvo, Jack compilò un assegno per la somma dovuta, rimproverando mentalmente il fratello. Senza aggiungere parola, lo passò a Dashwood, che in cambio gli consegnò il pagherò.

«È stato un piacere, Vostra Grazia.» Si diresse alla porta. «Se vi troverete mai alla ricerca di un tavolo da gioco, spero tornerete al Vega

Neanche per sogno, pensò Jack.

Dashwood lo scortò all'ingresso. D'impulso, lui guardò verso il salone, attraverso le fronde. Suo fratello aveva promesso solennemente di abbandonare i tavoli da gioco per un mese come penitenza, per ridurre le spese e imparare una certa moderazione. Non lo avrebbe quindi trovato, ma la donna in rosso... provava lo strano desiderio di vedere il suo volto. Solo per capire che tipo di dama entrava in una casa da gioco.

Con suo sgomento, intravide tuttavia al centro della sala i capelli scuri del fratello, in mezzo a un gruppo di persone radunate attorno a un tavolo. Rimase di sasso. Philip era di nuovo lì, a piazzare scommesse che non poteva permettersi. In quel momento si levarono delle grida e Jack lo vide sollevare in aria le mani ridendo.

Conosceva bene quel vezzo. Stava perdendo. Perdeva sempre con una risata, un motto arguto, un gesto pomposo. Solo dopo, quando contemplava le conseguenze della perdita, si pentiva. Avendo appena pagato un grosso debito di gioco per il fratello, Jack si sentiva in pieno diritto di trascinarlo fuori dal club prima che potesse accumularne un altro, cosa che, comprese con rabbia, sarebbe successa con molta probabilità, visto che Philip si stava cimentando con i dadi, un gioco di pura fortuna. Girò quindi sui tacchi e passò accanto a Dashwood per dirigersi nel salone.

«Se proprio devo perdere» sentì dichiarare a Philip in tono galante, «quantomeno sto perdendo con la donna più bella di Londra.»

La folla rise chiassosa.

Idiota, pensò furioso Jack, facendosi strada tra i presenti. Non devi perdere, devi solo smettere di giocare. Superò la folla, ma sfortunatamente si ritrovò dalla parte opposta del fratello. Ignaro della sua presenza, Philip si inchinò con stravaganza e offrì il dado a una donna, la stessa donna in rosso che poco prima stava giocando a carte.

«Grazie, sir» rispose lei ridendo. «È sempre un piacere vincere con voi.» Si girò verso il tavolo e si portò il dado alle labbra. «Cinque» disse poi ad alta voce, chiamando il numero in maniera seducente, prima di tirare.

La folla acclamò chiassosa, ma lo sguardo di Jack era fisso su di lei.

Non era bella in senso classico, eppure era incantevole. Il suo volto era un ovale perfetto, i suoi occhi avevano il colore dello sherry. Appeso al nastro nero al collo aveva un medaglione d'argento, e quando si sporse in avanti per riprendere il dado, Jack le intravide il seno, che minacciava di fuoriuscire dal tessuto rosso. La giovane si raddrizzò e lanciò uno sguardo civettuolo a Philip prima di tirare per la seconda volta. Jack riuscì a staccarle gli occhi di dosso appena in tempo per notare l'interesse sul volto del fratello.

Allora due pensieri si abbatterono nella sua mente. Primo, quella donna era una sirena, sfrontata e astuta come una volpe, e Philip era così preso a fissarle il seno da non notare nemmeno quanto stesse perdendo.

Secondo, Jack la voleva.