Filippo II – el Rey prudente, come lo chiamavano – morì nel 1598, quando già la Spagna aveva perso il suo slancio di conquista per ripiegare su una posizione difensiva. Sebbene tuttora imbattuti, i suoi eserciti non erano riusciti ad aver ragione né di quelli francesi né della rivolta olandese, mentre la sua flotta aveva perso il dominio dei mari dopo la disfatta della «invincibile armata» a opera dell’Inghilterra. Filippo si era preso una rivalsa fagocitando il Portogallo, e il suo Impero restava territorialmente il più vasto del mondo grazie alla conquista del continente sud americano. Eppure, già manifestava segni d’involuzione.
I motivi della crisi non si prestano a essere fraintesi. Sposando la Chiesa della Controriforma, la Spagna sposa un certo tipo di società che il mondo moderno ha ormai sorpassato e condannato. È una società pietrificata in rigide gerarchie, che soffoca ogni anelito di libertà, e quindi impedisce qualsiasi evoluzione e ricambio. Il nobile e il prete, che svettano in cima alla piramide, sono a loro modo ammirevoli archetipi umani: l’uno per il Re, l’altro per la Chiesa, sono capaci di eroismi inauditi. Fra loro i dubbi, le ambiguità e i tradimenti non allignano. Si può non amare, ma bisogna ammirare questi uomini di ferro disposti a tutto, a uccidere come a morire, per assolvere la loro missione.
L’unica cosa a cui non sono disposti è a intaccare il principio d’autorità su cui tutta la loro impalcatura si regge. E il principio d’autorità implica la riduzione del popolo a una massa acéfala tenuta solo all’obbedienza e svogliata da qualsiasi iniziativa. «Faltan cabezas», mancano gli uomini, si lamentava Olivares, il grande Ministro di Filippo IV. Egli non alludeva tanto agli spaventosi vuoti che le continue guerre avevano scavato nella popolazione spagnola, quanto alla scarsezza di ricambi per la classe dirigente. Non ce ne potevano essere perché il Paese più ricco e potente del mondo non aveva sentito il bisogno di mandare a scuola i suoi sudditi; anzi, aveva sentito quello di non mandarceli. Tenuti soltanto a credere, obbedire e combattere, che se ne facevano dell’istruzione? La guerra – la guerra del Cinquecento, fatta solo coi cavalli e con gli archibugi – non la esige: le bastano il coraggio e la disciplina. Quanto al Vangelo, la Chiesa della Controriforma non vuole che il fedele lo legga da sé: questo è un compito che spetta in esclusiva al prete.
Di questa mancanza d’uomini e d’iniziative, era fatale che anche l’economia risentisse. La Spagna avrebbe avuto tutto per diventare una grande potenza industriale: un immenso mercato europeo e americano per l’assorbimento dei suoi prodotti, sbocchi privilegiati sui due grandi mari, il Mediterraneo e l’Atlantico, le flotte mercantili catalane e genovesi, le collaudate maestranze italiane e fiamminghe, e infine il grande propellente di ogni sviluppo capitalistico: l’oro messicano e peruviano. Ma quest’oro non trovava né cervelli né braccia capaci d’impiegarlo a scopi produttivi. Esso serviva soltanto a mantenere esercito e burocrazia, e quanto ne avanzava si fermava nelle chiuse caste del privilegio, che non conoscevano altro investimento che la terra. Così, mentre l’Europa del Nord compiva, sotto la spinta della Riforma, la sua grande rivoluzione industriale, la Spagna restava inchiodata a una economia agraria, naturale pascolo di una società feudale, immobilistica, redditiera, parassitaria, e chiusa a ogni esigenza di progresso. Malgrado le montagne di lingotti che i suoi conquistadores gli avevano mandato dall’America, Filippo era sempre vissuto in mezzo ai debiti, e per sottrarsi ai creditori aveva dichiarato fallimento, come un privato qualsiasi, ben tre volte. L’ultima era stata nel 1596, due anni prima della morte. Quello ch’egli lasciava all’erede era sempre un vasto e potente impero – Spagna, Portogallo, Belgio, Italia, America Latina –, ma senza dote.
L’erede si chiamava anche lui Filippo, ma col padre non aveva in comune che il nome e la bigotteria. «Dio, che mi ha dato tanti Reami, mi ha negato un figlio capace di governarli» aveva detto di lui el Rey prudente. Non si sbagliava. Casto per timidezza e bacchettonerìa, mansueto e svogliato, Filippo III a governare non si provò nemmeno. Ne affidò il compito al Duca di Lerma, del tutto dimentico del mònito che suo nonno Carlo V aveva rivolto a suo padre e suo padre a lui: «Scegli bene i tuoi consiglieri, e non fidartene mai». Filippo fece il contrario: scelse male, e si fidò. Il Duca volle una rivincita alla batosta navale che l’Inghilterra aveva inflitto alla Spagna, e ci rimise altre due flotte. Fu la solita mancanza di denaro che gl’impedì di fare altri malestri. Fece pace con Londra e accettò una tregua di dodici anni con l’Olanda, più che mai risoluta a difendere la propria indipendenza dai tentativi di restaurazione asburgica. In compenso, diede avvìo a un altro disastro scacciando dalla Spagna i moriscos, cioè gli Arabi convertiti al Cristianesimo, solo perché l’Arcivescovo di Valenza, sua città natale, andava dicendo che Dio aveva inflitto tante disgrazie alla Spagna per castigarla dell’ospitalità che accordava a quella gente. Ma quella gente era l’unica minoranza, assieme a quella ebraica, che, esclusa dal servizio militare per le origini razziali e religiose, aveva conservato la buona abitudine di lavorare. Gli Ebrei erano già stati scacciati. Col bando ai moriscos, che assommavano a un mezzo milione, il Paese perse gli ultimi suoi artigiani e mercanti. Credette di essersi purificato il sangue e di aver fatto un buon affare se scende, incamerando i loro beni. Invece, un buon affare l’aveva fatto soltanto Lerma, che della cospicua refurtiva trattenne duecentocinquanta ducati per sé, centomila per la figlia, e centocinquantamila per il genero.
Filippo III morì proprio all’indomani di questa rovinosa operazione, lasciando il trono a un altro Filippo, il IV, che al padre somigliava solo nella prodigalità e nell’allergia al lavoro. Era bello, biondo, appassionato di arte, amava la vita e le donne, tanto che ebbe trentadue figli, di cui ventiquattro illegittimi. Tutto preso da questa attività demografica, anche lui preferì delegare il potere a un «Valido», cioè a un Primo Ministro, ma nello sceglierlo ebbe la mano più felice del suo predecessore. Il conte Olivares era un uomo orgoglioso e imperioso, ma integro, e soprattutto animato da una profonda dedizione allo Stato. Lavorava dall’alba a notte inoltrata, la sua dieta era spartana, la sua energia indomabile. Rimise ordine nella dissestata amministrazione, eliminò molti abusi, costrinse anche il Re a qualche economia. Ma nella sua azione diplomatica, ebbe la sfortuna d’incappare in un avversario che aveva tutte le sue qualità più qualche altra: il Richelieu.
Il grande Cardinale stava ricostruendo, come vedremo, la Francia, e per restituirle il suo rango in Europa vi minava la supremazia spagnola. Era un giuoco coperto, ma senza esclusione di colpi. Olivares doveva tenere eserciti con le armi al piede non solo sui Pirenei, ma anche in Portogallo, in Belgio, a Milano, in Valtellina, a Napoli, dove agenti e denaro francesi erano continuamente al lavoro per creare impacci e tendere insidie. Richelieu, nonostante la sua porpora, finanziava i protestanti di Germania per impegnare le forze degli Asburgo tedeschi, e Olivares passava un lauto stipendio al Duca di Rohan, capo degli ugonotti francesi in rivolta contro il Cardinale. Era il prologo della Guerra dei Trent’anni.
La Francia era dunque in fase di riscossa, e tornava a far sentire la sua presenza sulla scena europea. Ne era quasi scomparsa con la morte di Francesco I, il grande e sfortunato rivale di Carlo V. Suo figlio Enrico II aveva cercato di vendicarlo, aveva subìto un’altra disfatta, ed era morto (nel 1559) per un colpo di lancia ricevuto nell’occhio in un torneo. Lasciava una situazione precaria, un erede minorenne – Francesco II –, e una vedova energica e intrigante: Caterina de’ Medici.
Il Paese era mal ridotto dalle interminabili guerre con la Spagna che lo avevano dissanguato e impoverito. Il suo reddito lordo era di dodici milioni di lire, il suo debito pubblico di quarantatré milioni. E secondo certi calcoli i due terzi della ricchezza immobiliare francese appartenevano alla Chiesa. Forse era anche questo, ma non soltanto questo, che aveva favorito il moltiplicarsi degli ugonotti, come in Francia si chiamavano i calvinisti. Malgrado le severe persecuzioni di Francesco e di Enrico, essi assommavano ora dal dieci al venti per cento della popolazione; ma non contavano tanto per il numero quanto per la qualità. C’era fra loro il meglio della nuova borghesia imprenditoriale, gran parte della cultura, e anche parecchi aristocratici, come i Borbone, ramo della famiglia reale.
Si arrivò ai ferri corti proprio nel momento in cui Francesco II moriva di appena sedici anni lasciando la corona al fratello (Carlo IX), che ne aveva dieci. Il potere era quindi più che mai nelle mani di Caterina. I giudizi su questa donna non concordano neanche nei connotati fisici. Brantôme la descrive di «petto bianco e sodo» e di «coscia bellissima», ma di lineamenti irregolari. Dagli antenati Medici aveva ereditato l’ambizione, la doppiezza e la sifilide. L’accusavano di ogni specie di malizia. Ma forse il giudizio più equo lo dette a posteriori Enrico IV: «Cosa poteva fare una straniera lasciata sul trono dal marito con cinque bambini sulle braccia e due dinastie di sangue reale – la nostra dei Borbone e quella di Guisa – decise a strapparle la corona?».
La situazione infatti era proprio questa. Sia i Guisa cattolici che la servivano, sia i Borbone ugonotti che la osteggiavano, cercavano in realtà di arraffarle potere e titolo. Ma essa lo sapeva. «Dio volendo» scriveva «non mi lascerò governare né dall’una né dall’altra parte, avendo imparato fin troppo bene che tutti amano Dio, il Re e me stessa meno del loro vantaggio»: una frase in cui c’era tutta l’italiana sfiducia negli uomini, e che certamente sarebbe piaciuta al bisnonno Cosimo. Caterina non poteva permettersi il lusso di aggravare le divisioni in un Paese militarmente ed economicamente prostrato, e stretto nella tenaglia degli Asburgo di Spagna e degli Asburgo di Austria e Germania; doveva giuocare fra le due forze tenendole in bilico. Ma l’impresa era ardua. Ogni poco cattolici e ugonotti venivano alle mani, ci furono vere e proprie battaglie in campo aperto con migliaia di morti, e a Caterina non restava che un lavoro di rammendo.
È impossibile seguire tutti gli episodi di questa spaventosa guerra di religione che in cadaveri e distruzioni costò alla Francia più di quanto le fossero costate le guerre con la Spagna. A un certo punto essa spezzò il Paese in due: quello a Sud della Loira fu completamente in mano agli ugonotti con un loro esercito, una loro capitale a La Rochelle, e un loro Re, il Borbone Enrico di Navarra. Caterina ricorse a una manovra tipicamente femminile e medicea: offrì sua figlia Margherita in sposa a Enrico. Enrico accettò, ma si presentò alle nozze con un seguito di quattromila armati e non volle mettere piede in chiesa. Dai pulpiti, i predicatori cattolici tuonavano contro il «tradimento» della Monarchia. E la tensione sboccò in un attentato contro il Coligny, il grande ammiraglio ugonotto, tuttavia legato da profonda amicizia personale col giovane Carlo. Si scatenò la rappresaglia protestante, e le strade tornarono a lastricarsi di morti. I Guisa, che probabilmente avevano armato la mano del sicario e temevano il castigo, ne approfittarono per indurre Caterina allo sterminio dei ribelli. Caterina cercò di convincere Carlo a darne l’ordine, e siccome il giovane resisteva, minacciò di tornarsene in Italia lasciandolo solo. In un accesso di disperazione, il giovane gridò: «Per la morte di Dio, se avete scelto di ammazzare l’ammiraglio, fàtelo. Ma allora sterminateli tutti, gli ugonotti… Tutti, in modo che non ne rimanga nessuno a rinfacciarmi l’assassinio!». Erano le parole di un uomo debole, sconvolto dall’idea del massacro. Ma Caterina e i Guisa le presero alla lettera, e fu la famosa «notte di San Bartolomeo» (24 agosto 1572). Bande di armigeri si sguinzagliarono per le strade al grido di «Ammazza, ammazza, ordine del Re», e trovarono la più entusiastica collaborazione nel popolino, eccitato dalla prospettiva del saccheggio. Il Coligny fu raggiunto dai pugnali mentre pregava inginocchiato. Il duca La Rochefoucauld fu scannato dopo una partita a tennis col Re. Costui convocò il cognato Enrico e il principe Enrico di Condé e li mise alla scelta: o una messa, o la morte. Il Condé scelse la morte, Enrico accettò la messa. Il «sacro macello» si estese a tutte le province e si saldò con cinque o diecimila cadaveri (c’è chi dice trentamila).
Sembrava la fine del calvinismo francese, e tale la considerarono con tripudio Filippo II e papa Gregorio XIII (quello del calendario). Ma i fatti dimostrarono che le eresie non si estirpano col sangue. Alimentata dalle flotte dell’Inghilterra protestante, La Rochelle si rivelò imprendibile, molte città chiusero le porte alle truppe del Re mandate a espugnarle, e alla fine Caterina dovette scendere a un nuovo compromesso con gli ugonotti riconoscendo loro libertà di culto. A pagare il conto fu il giovane Carlo. Macerato dai rimorsi, cadde in una crisi di prostrazione da cui non ci fu verso di risollevarlo. Accusava la madre di tutto quel sangue, nel sonno urlava: «Assassini!… Assassini!…». E quando sentì prossima la fine, chiamò il cognato Enrico, gli chiese perdono e gli affidò la moglie e la figlia.
Enrico rimase a Corte, mentre sul trono saliva un altro Enrico, il III, fratello del defunto e più di costui sotto la pantofola di sua madre. Il nuovo sovrano era l’ultimo dei Valois, e diede subito a divedere che da lui non c’era da aspettarsene altri, presentandosi alla festa inaugurativa del suo regno con un cerchio di perle al collo, orecchini, braccialetti, e un seguito di guaglioni il cui aspetto non era neanche equivoco. Le male lingue dicevano ch’era stata sua madre a spingerlo su quella strada per poter continuare a governare. Anche questa probabilmente era una calunnia, ma è certo che il vero Re seguitò a essere lei. E fu lei che a un certo punto, vista l’impossibilità di una successione diretta, consentì che erede al trono venisse designato il genero Enrico di Borbone.
Costui aveva da un pezzo abbandonato Parigi per tornare nelle sue terre e riabbracciare la fede protestante. Sua moglie lo aveva raggiunto. Questa donna bellissima, spiritosa, volubile e piena di sex appeal, riempiva il marito di corna, o per meglio dire gli ricambiava quelle che lui le faceva. Ma nelle emergenze era sempre presente. Tuttavia tante ne fece che alla fine i due Enrichi – il marito e il fratello – decisero di comune accordo di confinarla in un castello. Essa lo ridusse mezzo a salotto, mezzo ad alcova, fu in corrispondenza con Montaigne, scrisse un libro di pettegolezzi autobiografici degno di un rotocalco moderno, ingrassò nel peccato, dopo la menopausa se ne pentì, si prese come cappellano Vincenzo da Paola, fondò un convento, e morì rimpianta da tutti.
Il Borbone frattanto vedeva in pericolo la propria successione per l’ascendente che i Guisa avevano nuovamente preso sul Re. Ma essi sfruttarono male il successo assumendo atteggiamenti autoritari che ferirono il debole e suscettibile sovrano. Questi convocò il loro capostipite, lo fece assassinare in anticamera, e ordinò l’arresto di tutti i più influenti capi cattolici. Quando andò a vantarsi di quelle energiche misure con sua madre, questa gridò disperata: «Avete rovinato tutto!», e ne morì di collera e di sgomento. Abbandonato a se stesso e braccato dai cattolici levatisi in armi, a Enrico non restò che rifugiarsi tra le braccia del suo omonimo e cognato, che gli mise a disposizione l’esercito ugonotto e riebbe la designazione al trono. Un monaco fanatizzato raggiunse il Re fedifrago col suo pugnale, lo uccise, rimase ucciso, e il suo ritratto fu posto sull’altare delle chiese e venerato come quello di un santo.
Così Enrico Borbone di Navarra salì sul trono (era il 1589), o meglio si dispose a conquistarlo perché i due terzi del Paese glielo contestavano. Fu una «lunga marcia» combattuta dal primo all’ultimo miglio contro l’esercito della Lega cattolica comandato dal Mayenne. Enrico aveva meno uomini, ma era aiutato da Inghilterra e Venezia, che paventavano una Francia asservita alla Chiesa che a sua volta era asservita agli Asburgo. Vinse tutte le battaglie, e mise assedio a Parigi. La città si ridusse allo stremo, e per salvarla Filippo II inviò dalle Fiandre un’armata di veterani spagnoli al comando di Alessandro Farnese, uno dei più grandi condottieri del tempo. Enrico evitò lo scontro con un’abile ritirata; e quando il Farnese fu messo fuori causa da una malattia, tornò su Parigi.
Ma capiva che, anche se fosse riuscito a espugnarla, non avrebbe potuto tenerla contro una maggioranza cattolica. Convocò i suoi luogotenenti, l’informò che aveva deciso di convertirsi («Parigi vale una messa», disse), e li lasciò liberi di confermargli o ritirargli la loro lealtà. Alcuni lo abbandonarono indignati, ma i più gli rimasero fedeli, e fra di essi l’avveduto e autorevole Sully. I capi della Chiesa francese non credettero in quella conversione, ma l’accettarono. Enrico a sua volta accettò di essere istruito da un teologo, ma rifiutò l’impegno di perseguitare l’eresia, e quando si trattò di digerire la dottrina del purgatorio, che i protestanti respingevano con orrore, l’ammise con queste parole: «E va bene, visto ch’è la migliore fonte dei vostri redditi», alludendo alle «indulgenze» di cui la Chiesa seguitava a fare mercato. Prima di andare, tutto vestito di bianco, a ricevere la comunione nella chiesa di Saint Denis, scrisse alla sua amante Gabrielle d’Estrées: «Sto per fare il salto mortale».
Enrico promulgò il famoso «editto di Nantes» che garantiva agli ugonotti piena libertà di culto, e condusse la sua azione pacificatrice con un sapiente dosaggio di severità e di clemenza. Istigati dai gesuiti, i cattolici intransigenti non si stancavano di armare sicari contro di lui. Egli ne graziò alcuni, ne decapitò altri, e procedette alla ricostruzione di un Paese che ne aveva urgente bisogno. Sully gli prestò i suoi talenti, ch’erano grandi, e le sue energie, ch’erano immense. Non era un uomo facile, neanche col suo Re. Quando Enrico gli mostrò la lettera che si proponeva di mandare a Henriette d’Entragues promettendole di sposarla a condizione che gli desse un figlio, Sully gliela strappò in faccia. Il matrimonio era una faccenda di Stato, che doveva servire a qualcosa. Il ministro protestante pensava che dovesse servire soprattutto a rimettersi in buona con la Chiesa che seguitava a diffidare di quella conversione. Infatti si rivolse al Papa. Il Papa propose Maria de’ Medici, figlia del Granduca di Toscana, e Sully ne approfittò per farsi rimettere dai banchieri fiorentini tutti i debiti che la Francia aveva contratto con loro.
Enrico andò incontro alla sposa a Lione, la trovò troppo alta, troppo grossa, troppo autoritaria, ma compì il suo dovere – un dovere dal quale nacque un figlio, il futuro Luigi XIII –, e tornò fra i suoi soldati e dalla sua Henriette. Meditava una guerra contro gli Asburgo che seguitavano a stringere la Francia nella loro morsa, prendendo a pretesto una complicata successione nel piccolo Principato di Clèves in Germania. L’imperatore Rodolfo pretendeva nominarvi un cattolico di sua fiducia, ma i protestanti tedeschi si opponevano, ed Enrico intendeva schierarsi al loro fianco.
Nel maggio del 1610 affidò la reggenza a Maria, e si preparava a raggiungere l’esercito, quando fu pugnalato dal monaco Ravaillac. Non si è mai saputo se erano stati i gesuiti a istigarlo. Ma, anche se non c’era una loro diretta responsabilità, ce n’era una indiretta. Le esequie del Re dimostrarono da quale successo la sua opera pacificatrice era stata coronata. Salvo pochi fanatici, tutta Parigi seguì in lutto il suo feretro e tutta la Francia – cattolica e ugonotta – lo pianse. Il popolo lo amava non soltanto per la concordia, l’ordine e la prosperità che aveva restituito al Paese, ma anche perché aveva incarnato il suo prediletto archetipo umano: guerriero, insolente e libertino.
La morte di Enrico ritardò di otto la Guerra dei Trent’anni, ma ripiombò la Francia nelle sue divisioni religiose. La seconda Medici si trovò pressappoco nelle stesse condizioni della prima, ma senza possederne le qualità, con un figlio di otto anni, un Paese in subbuglio e dei consiglieri infidi. Sully tentò di difendere l’ordine e il Tesoro, non ci riuscì, e si ritirò disgustato a scrivere le sue memorie. Il Principe ereditario non somigliava in nulla a suo padre e cresceva male, tribolato da mille afflizioni. Il Boulainvilliers dice che in un anno arrivarono a fargli quarantasette salassi e duecentoquindici clisteri. Soffriva di crisi depressive, la severa educazione religiosa che gli avevano impartito lo aveva reso bigotto ma non gl’impediva di preferire i ragazzi alle ragazze, e odiava sua madre che lo considerava uno scemo e riservava il suo affetto al secondogenito Gastone. Quando lo sposarono ad Anna d’Austria, dovettero spingerlo di forza nel talamo, e gli ci vollero tre lustri per generare un figlio, il futuro «Re Sole», che tuttavia si mostrò degno dei lunghi sforzi compiuti dal padre per la sua procreazione.
Il debutto in politica Luigi XIII lo fece a sedici anni organizzando l’assassinio di un cortigiano, che la Medici si era portato al seguito dall’Italia, il Concini. Era un avventuriero che meritava quella sorte. Ma Luigi gliela riservò soprattutto perché era amico di Maria, che fu deportata in un castello perché protestava. Dopodiché ruppe la tregua con gli ugonotti, e mosse con l’esercito contro di loro, ma non riuscì a espugnare La Rochelle, e di nuovo la Francia rischiò di dividersi. A trarla da quel repentaglio fu il Richelieu.
Il Richelieu era un Vescovo, che Maria e il Concini avevano «scoperto» e portato giovanissimo alla Segreteria di Stato. Quando il cortigiano fu ucciso e la Regina confinata, anche lui perse il posto. Ma una congiura di nobili organizzata da Maria, ch’era evasa dalla sua prigione, costrinse il Re a richiamare in servizio il prelato, l’unico che potesse riconciliarlo con sua madre e i ribelli. Richelieu ci riuscì, e da allora diventò indispensabile.
Alto, fragilissimo, esangue, egli godeva di una pessima salute, di un cervello limpido, di una volontà d’acciaio e di uno smisurato orgoglio. Luigi, che credeva di aver trovato in lui un servitore, trovò invece un padrone che sapeva parlargli come a un subalterno. Sebbene uomo di Chiesa (il Papa si era affrettato a farlo Cardinale), egli procedette subito a liberare lo Stato da ogni sudditanza religiosa, e dette lo sfratto allo stesso confessore del Re. Capiva che solo così si poteva restaurare la concordia, e infatti la resistenza ugonotta ne fu disarmata. Solo la fanatica guarnigione della Rochelle si rifiutò di scendere a patti. Il Cardinale salì a cavallo, pose il blocco alla città sia da parte di terra che da parte di mare mettendo in rotta le navi inglesi che la rifornivano, e la lasciò morire di fame. La resistenza di quei disperati fu epica: mangiarono cavalli, gatti, topi uccidendo chiunque parlasse di resa. Ma alla fine, dimezzati e ridotti a larve, dovettero piegarvisi, sebbene persuasi di esser tutti destinati al patibolo. Richelieu non ne toccò uno, promulgò un’amnistia e richiamò in vigore l’editto di Nantes.
Debellata la dissidenza religiosa, il Cardinale affrontò quella politica dei grandi nobili che pretendevano farla da sovrani assoluti nei propri feudi. Gl’intimò di smantellare tutte le loro fortezze, e quelli risposero montando contro di lui una rivolta di cui la sua vecchia protettrice Maria assunse il patronato. Richelieu sventò il complotto origliando dietro le porte, affrontò di persona la Regina madre e l’obbligò a fuggire in Belgio. I congiurati si strinsero intorno al secondogenito Gastone, Duca di Orléans, che levò un esercito contro il fratello e il Cardinale. Gastone fu sconfitto, cadde prigioniero e per salvare la pelle fece il nome dei complici. Richelieu non si lasciò impressionare dai loro grandi nomi e ne mandò parecchi al patibolo.
Con questi metodi il «Cardinale di ferro» – come lo chiamavano – ricostruì l’unità della Francia, le restituì il suo prestigio e la riportò nel grande giuoco internazionale. Il quale consisteva soprattutto nel rompere il cerchio degli Asburgo e distruggerne l’egemonia sull’Europa. Poiché gli Asburgo erano i campioni del cattolicesimo, l’uomo di Chiesa Richelieu si volse ai nemici della Chiesa e li attrasse nella sua rete diplomatica. Non risulta che la sua coscienza di sacerdote ne fosse turbata. Fu lui a inventare le parole «ragione di Stato», una ragione tanto forte da vincere non soltanto i suoi scrupoli religiosi, ma anche le sue debolezze fisiche. Ne aveva molte, procurategli dalla malcerta salute: emorroidi, calcoli alla vescica, insonnia e incubi. Ma nessuna riuscì a incrinare la sua volontà. Ebbe anche qualche difetto morale: era permaloso, avido di titoli nobiliari, nepotista, e afflitto da una vanità letteraria che lo rendeva geloso dei successi altrui, specie di Corneille. Lasciò dieci libri di memorie, nutriti di ottima prosa e soprattutto di encomiabile modestia. E, a differenza di tutti i dittatori che fanno sempre piazza pulita intorno a sé, lasciò anche un successore. Ma di questo diremo più tardi.
La dissidenza religiosa che aveva messo a soqquadro la Francia stava per provocare gli stessi guai in Inghilterra. Con L’Italia della Controriforma abbiamo lasciato questo Paese in pieno boom, sotto l’accorta guida di Elisabetta. La grande Regina aveva saputo trovare un compromesso tra le forze cattoliche, quelle anglicane e i «puritani» calvinisti, dirottandone le tensioni all’esterno, cioè alla conquista dell’Oceano e alla costruzione di un Impero. La sua era stata una grande Inghilterra che aveva non soltanto distrutto la «invincibile armata» di Filippo, ma anche dato alla cultura europea i Bacone, gli Shakespeare e i Marlowe.
Ora Elisabetta era alla fine, e siccome non si era mai sposata, non aveva eredi diretti cui affidare la successione. Il parente più prossimo era il Re di Scozia, Giacomo, figlio di quella Maria Stuarda che, cacciata dal trono per un’insurrezione e rifugiatasi a Londra, Elisabetta aveva fatto decapitare per congiura contro di lei. L’avvento di Giacomo avrebbe consentito l’unificazione delle due corone. Ma un punto restava oscuro: a quale confessione Giacomo appartenesse.
A quanto pare, non lo sapeva nemmeno lui che, stretto fra gli opposti fanatismi di quei suoi protervi sudditi montanari, aveva evitato di prendere posizione. Sua madre era cattolicissima, ma era fuggita quando lui non aveva ancora un anno lasciandolo in balìa dei calvinisti che l’avevano cacciata. Questi non andavano d’accordo nemmeno fra loro e, dopo aver istituito una gerarchia di Vescovi ch’era in flagrante contraddizione col loro credo democratico e legalitario (la Chiesa calvinista non conosce che i «pastori»), le si erano ribellati. Giacomo fu per i Vescovi, il popolo si ribellò anche a lui costringendolo alla fuga, e lo riaccolse solo a certe condizioni. La verità è che Giacomo era di mentalità e sentimenti cattolici, e come tale si considerava Re per grazia di Dio, mentre i suoi sudditi protestanti lo consideravano Re per loro volontà. Però si guardò bene dal dirlo, non soltanto per conservare la corona scozzese, ma anche perché già pensava a quella inglese. Sicché, quando Elisabetta gli chiese di dichiararsi protestante, egli lo fece.
L’uomo era un coacervo di contraddizioni. Sully lo chiamò «il più saggio sciocco della Cristianità». Volgare d’aspetto e nel linguaggio, aveva gusti raffinati in fatto di cultura, e fu egli stesso un eccellente scrittore. Triviale e permaloso, offendeva tutti, si offendeva di nulla e si abbandonava a collere violente, salvo a piangere di pentimento e di vergogna. Una volta prese a calci il suo aiutante perché non trovava un documento, poi gli s’inginocchiò ai piedi e gli chiese perdono. Sapeva tutto di scienza, ma credeva solo agli astrologi e alle streghe, e andava in giro imbottito di talismani. Non si lavava, ma sperperava patrimoni in abiti, profumi e biancheria. Quando lo sposarono ad Anna di Danimarca, costei si accorse ch’egli non aveva molto trasporto per le donne e preferiva i bei guaglioni. Ma, a parte questo deviazionismo, Giacomo fu un buon marito e soprattutto un eccellente padre, innamorato del figlio che Anna gli diede, Carlo.
Quando ci andò per l’incoronazione, nel 1603, Londra lo accolse bene. Ma Giacomo disse al parlamento che saliva sul trono come luogotenente di Dio e che solo a Dio intendeva risponderne. Evidentemente, aveva sbagliato secolo e Paese, e gl’Inglesi glielo fecero subito capire obbligandolo a prender misure contro i cattolici che rialzavano il capo. Costoro per rivalsa organizzarono un complotto, la cosiddetta «congiura delle polveri», per far saltare la Reggia con tutti i suoi inquilini. La scoperta della tresca provocò una violenta reazione, cui Giacomo dovette cedere mandando a morte molti preti e sbandandone il gregge. Così rimase nelle mani dei protestanti, che accettavano la monarchia, ma non l’assolutismo. La partita però non fu liquidata; fu soltanto rinviata.
In campo diplomatico, Giacomo perseguì una politica di pace, ch’era soprattutto di pace con la Spagna, il nemico ereditario. A spingervelo furono non soltanto le simpatie ideologiche per il regime autoritario dei cattolici Asburgo, ma anche i consigli del suo Primo Ministro. Era costui un certo Villiers, che Giacomo aveva conosciuto ventenne. Se n’era innamorato, lo aveva fatto prima Conte, poi Marchese, e infine, col titolo di Duca di Buckingham, gli aveva delegato il potere. Il Paese non approvò né quella scelta né quella politica, ma ne profittò largamente. Sempre più forti e signore degli Oceani, le flotte inglesi completavano in America e in Asia quella rete di «basi» destinate a fornire l’intelaiatura del più grande impero intercontinentale. Nel 1606 fu fondata la prima vera e propria «colonia» d’oltre Atlantico: la Virginia. In India c’era da vincere la concorrenza olandese che per anni si dimostrò imbattibile. Ma nel 1615 una missione inglese riuscì a mettervi piede e a stabilirvi scali e fondachi.
L’impero prendeva forma, e la politica di Londra cominciava a ruotare su di esso: secondo i suoi interessi si sarebbe orientata anche la diplomazia nei confronti dell’Europa. Per questo l’Inghilterra tergiversò tanto a entrare nella Guerra dei Trent’anni, sebbene la questione dinastica ve la coinvolgesse sin dal primo momento. Ma questo lo vedremo a suo tempo.
E veniamo alla più ingarbugliata di tutte le matasse: la Germania.
Voltaire diceva che il Sacro Romano Impero non era né sacro, né romano, né impero. Aveva ragione. Esso riuniva infatti un insieme di province (Germania, Lussemburgo, Franca Contea, Lorena, Austria, Ungheria, Boemia, Moravia) assai diverse per lingua, cultura, religione; cioè non le riuniva affatto perché l’unico loro vincolo era rappresentato da un Imperatore che imperava ben poco. Dal 1438 questo titolo era rimasto ininterrottamente appannaggio della dinastia Asburgo. Ma costoro avevano potestà assoluta e governo diretto soltanto sull’Austria, di cui erano Duchi per diritto ereditario, e per certi periodi anche su Boemia, Moravia e Ungheria. Da tutte le altre province, dovevano farsi riconoscere il titolo imperiale di volta in volta, contrattandolo con i sette grandi «elettori» qualificati ad attribuirlo: i Principi di Boemia, Sassonia, Brandeburgo, Palatinato, e gli Arcivescovi di Colonia, Treviri e Magonza. Fra costoro c’erano differenze di rango e di attribuzioni, ma qui è inutile addentrarvisi.
Con la diplomazia, col denaro, con l’intrigo, gli Asburgo erano riusciti per oltre cent’anni a conservare alla propria famiglia l’altisonante investitura. Ma con Carlo V essa si era sposata con un potere effettivo: quello degl’immensi domini ereditati dalla madre, Giovanna la Pazza: Spagna, Fiandre, Sud-America, per non citare che i più importanti, cui si aggiunse mezza Italia. Per qualche momento sembrò che, dotato di questa forza, Carlo potesse veramente riunificare sotto il suo scettro tutto l’Occidente e dare consistenza al titolo imperiale com’era avvenuto con Carlo Magno. Ma non ci riuscì. Svegliate dalla Riforma, le forze nazionali si rifiutarono di sottomettersi a un potere centrale sopranazionale come quello dell’Impero, e diedero avvìo alla formazione dell’Europa delle Patrie, ciascuna col suo Stato sovrano. Carlo ebbe il buon senso di prenderne atto e, accorgendosi che il suo Reame era troppo vasto e sparpagliato, al momento di abdicare lo divise, lasciando al figlio Filippo II la Spagna, l’Italia, le Fiandre, l’America latina, le colonie africane, e al fratello Ferdinando i possedimenti ereditari degli Asburgo – Austria, Ungheria, Boemia, Moravia – e il titolo imperiale.
Ferdinando si trovò in una posizione difficilissima. Personalmente era cattolico zelante, e in prevalenza cattolici erano austriaci, ungheresi e moravi. Ma i Principati tedeschi che gli avevano conferito il titolo e con cui doveva vedersela erano in maggioranza protestanti. Egli riuscì tuttavia a manovrare abbastanza bene fra gli uni e gli altri: tanto che, quando morì, il titolo imperiale fu trasferito al figlio Massimiliano, che non ne spasimava. Era infatti un compito e squisito gentiluomo che amava tutte le arti, meno quella del comando. Sul problema religioso, che in quel momento era il più scottante, sebbene anagraficamente egli fosse cattolico, le sue simpatie erano incerte. Era certa solo la sua antipatia per tutti gli estremismi, e infatti riuscì a infrenarli. Al suo letto di morte non permise che si avvicinasse né il prete cattolico né il «ministro» protestante. A benedirlo fu tutto il popolo, che ne aveva apprezzato la tolleranza e l’imparzialità.
Fu per ripagarlo di questi meriti che gli elettori nel 1576 assegnarono il titolo a suo figlio Rodolfo, che dal padre aveva ereditato tante cose, ma non tutte. Anche lui era sobrio e affabile, di tratto democratico, nemico della pompa, amico delle arti e delle scienze, dove si guadagnò una giusta fama di mecenate con la protezione accordata a Tycho Brahe e Keplero, i grandi pionieri dell’astronomia. Ma sul piano religioso fu molto meno aperto, forse perché da ragazzo l’avevano affidato a Filippo II di Spagna che, deluso dei figli suoi, carezzava l’idea di farne il proprio erede, e che a sua volta l’aveva affidato ai gesuiti. Rodolfo subì da loro un lavaggio di cervello che lo rese poco disponibile al «dialogo» con gli eretici. Non li perseguitò; ma impose loro parecchie restrizioni. Lentamente tuttavia si ritrasse dall’esercizio del potere, delegandolo a dei favoriti, scelti purtroppo con mano piuttosto infelice. Era afflitto da una forma depressiva che lo rendeva malinconico, insonne e ossessionato da mille paure, soprattutto degli attentati. Nel 1606 affidò il governo dei domini ereditari asburgici (Austria, Ungheria, Moravia e poi anche Boemia) al fratello minore Mattia, che così si trovò già sul trono quando Rodolfo morì (1612). Ma anche Mattia, già sessantenne e stanco di una vita spesa quasi tutta in servizio militare fra una guerra e l’altra, preferì delegare il potere a Klesl, l’Arcivescovo di Vienna: un prelato così coscienzioso e liberale che i cattolici lo accusarono di collusione coi protestanti. Un altro Asburgo, Ferdinando, cugino di Mattia, ne approfittò per imprigionare l’Arcivescovo, assumerne i poteri e assicurarsi la successione al trono, che effettivamente alla morte di Mattia (1619) gli fu riconosciuta. Fu il prologo della Guerra dei Trent’anni. E quindi vediamo di spiegare un po’ meglio i termini del conflitto e la posta che vi era in giuoco.
L’Impero era una cosa vaga: non solo sul piano giuridico, cioè dei poteri ch’erano connessi al titolo, ma anche su quello territoriale. Di sicuro, come abbiamo già detto, gli Asburgo potevano contare soltanto sul proprio patrimonio ereditario, cioè sulle province di cui erano Re. Su di esse avevano diretta giurisdizione, a esse potevano attingere tasse per le proprie finanze e soldati per il proprio esercito. Però le situazioni variavano dall’una all’altra.
La vera cittadella della dinastia, il suo punto di forza, era l’Austria, sua patria non d’origine (gli Asburgo erano alsaziani), ma d’elezione. La sua compattezza era stata messa a dura prova dal conflitto religioso che sulla metà del Cinquecento sembrava volgere a vantaggio dei luterani, i quali avevano conquistato anche l’Università di Vienna. Ma fu ripristinata da Ferdinando I, lo zio di Filippo II, e dai gesuiti ch’egli chiamò al proprio servizio. Essi agirono con un’abilità in cui la fermezza si univa al tatto. Sicché alla fine del secolo il Paese non soltanto aveva quasi del tutto sanato i suoi contrasti, ma era diventato un bastione della Chiesa nei confronti sia del luteranesimo che dell’Islam.
I Turchi infatti erano alle sue porte, solidamente impiantati nel cuore dell’Ungheria, di cui occupavano due buoni terzi. Questo fece sì che l’altro terzo si stringesse sempre più agli Asburgo e ne accettasse la signoria. Anche in questo brandello di Nazione il conflitto religioso era stato aspro e per lungo tempo incerto fra luterani, calvinisti e cattolici. Ma a risolverlo fu la ragion di Stato. L’unico sostegno dell’Ungheria nei confronti dell’invasore musulmano era l’Austria cattolica. Il gesto di Peter Pázmány esemplifica la situazione. Figlio di calvinista e calvinista egli stesso, si convertì, ricevette dal Papa il galero cardinalizio, e aprì le porte del Paese ai gesuiti.
Moravia, Slesia e Lusazia riconoscevano come loro legittimo sovrano quello di Boemia, che da oltre un secolo riconosceva come suoi Re gli Asburgo. Ma ciascuna di queste quattro province manteneva la propria capitale (Praga, Brno, Breslavia e Bautzen) e la propria «Dieta» o parlamento. Il problema religioso era particolarmente complicato in queste terre che avevano covato la rivolta di Huss, e dove ai contrasti spirituali se ne aggiungevano di razziali e sociali. L’aristocrazia, quasi tutta di sangue tedesco, era in prevalenza luterana; la borghesia, calvinista; la massa contadina, cattolica. Ferdinando I pensò di ripristinare l’unità religiosa affidandosi ai gesuiti, e quella politica abolendo le quattro capitali e accentrando tutti i poteri a Vienna. Ma queste sommarie misure servirono a dilazionare, non a eliminare il conflitto che covava. I suoi successori Massimiliano, Rodolfo e Mattia se lo ritrovarono regolarmente di fronte, e lo lasciarono in eredità a Ferdinando II, fra le cui malaccorte mani era destinato a scoppiare accendendo la miccia della Guerra dei Trent’anni.
La Svizzera faceva anch’essa nominalmente parte dell’Impero. Ma solo nominalmente. In pratica, le sue inaccessibili montagne e anche la sua poco invitante povertà avevano consentito ai «Cantoni», in cui quel territorio era diviso, di sottrarsi al potere centrale. Il conflitto religioso minacciò questa loro autonomia perché Savoia e Spagna accorsero a spalleggiare i Cantoni cattolici, mentre la Francia e i luterani tedeschi davano man forte a quelli protestanti. Ma il patriottismo svizzero ebbe la meglio su queste inframmettenze. Pur continuando a litigarsi tra loro, i Cantoni rimasero sostanzialmente solidali nella difesa della loro indipendenza e libertà. Dopo Calvino, alla testa della «Venerabile Compagnia» da lui fondata a Ginevra, c’era un pastore di grande tatto e accortezza, De Bèze, che fra gli altri meriti ebbe anche quello di campare fino a quasi novant’anni. Egli sfoggiò nella battaglia missionaria un senso politico più fine del suo intollerante predecessore, e piano piano, sotto la sua guida, il calvinismo conquistò la Svizzera senza metterne a repentaglio l’indipendenza. Gl’Imperatori dovettero contentarsi di riceverne qualche formale omaggio.
L’imbroglio più grosso era la Germania, e il lettore non s’illuda che noi possiamo fornirgliene la chiave. Possiamo solo alla meglio semplificarglielo. Dei sette grandi elettori che di volta in volta conferivano il titolo imperiale, qualcuno era laico, Principe o Duca, qualche altro Vescovo. Ma essi non erano i soli padroni del Paese. Come l’Italia, la Germania era una galassia di Stati e staterelli, qualcuno vasto come una regione, qualche altro piccolo come un villaggio, ma tutti gelosissimi della propria sovranità. Il conflitto religioso aveva esasperato questa dispersione, e forse era diventato così profondo appunto perché secondava gl’interessi particolari e le loro tendenze centrifughe.
L’unico vincolo che univa queste province era una Dieta o parlamento, cui tutte inviavano i loro delegati, ma col mandato d’impedirgli di funzionare. Nel 1555 tuttavia, riuniti ad Augusta, essi riuscirono ad accordarsi su un principio, quello del cuius regio, eius religio, che in pratica significava questo: ogni cittadino è tenuto a seguire la religione dello Stato cui appartiene, cioè del suo sovrano. Se vi si rifiuta, emigri in un altro Stato che pratica la sua. Non era una soluzione; era soltanto un rammendo, ma che al rogo sostituiva l’esilio: il che rappresentava un discreto progresso.
All’ingrosso, le province meridionali e la Renania erano cattoliche; protestante il resto. Ma questo resto andava diviso fra luterani e calvinisti, che fra loro si odiavano non meno di quanto entrambi odiassero i cattolici. «Abbiamo notato» scrive Rescius alla fine del secolo «che i libri dei protestanti contro i protestanti sono tre volte più numerosi di quelli scritti contro i cattolici.» Contro questa «rabbia teologica», come la chiamava Melantone, il mite e tollerante successore di Lutero, l’editto di Augusta poteva poco, anche perché esso era rimasto in gran parte lettera morta per le pratiche difficoltà che presentavano i trasferimenti. E ancora meno poteva l’Imperatore, che oltre a dover contrattare volta per volta il suo titolo vitalizio coi sette elettori, non aveva giurisdizione diretta su nessuno di questi Stati, i quali obbedivano soltanto ai loro rispettivi sovrani, i quali disobbedivano a lui.
Al guazzabuglio politico e religioso si aggiungeva una crisi economica. Nell’Italia della Controriforma abbiamo visto le forze traenti della produzione e del commercio spostarsi dalla Germania del Sud verso quella del Nord. Questa inversione di poli era un effetto della decadenza dell’economia italiana, di cui quella tedesca era sempre stata un’appendice. Le capitali industriali e mercantili tedesche erano state le città a ridosso delle Alpi: Augusta e Norimberga. Ma da quando l’Italia era stata tagliata fuori dai grandi traffici internazionali spostatisi verso l’Atlantico, il capitalismo tedesco aveva cominciato a gravitare sul Mare del Nord, sospintovi anche dalla Riforma che nella Germania settentrionale, molto meno romanizzata, trovava più favorevole terreno.
Soprattutto le città anseatiche – Brema, Lubecca eccetera – se n’erano enormemente avvantaggiate, grazie ai loro attrezzatissimi porti e scali. Ma verso la fine del Cinquecento avevano dovuto vedersela con le flotte olandesi, di cui non avevano retto la concorrenza. Nel 1572 la grande banca Loitz fallì riducendo sul lastrico i suoi clienti. Nel 1614 fallirono i Welser. E quasi contemporaneamente crollarono quelli che da oltre un secolo erano considerati l’architrave della finanza tedesca, i Fugger, travolti dai ripetuti fallimenti di Filippo II, che non si erano stancati di sovvenzionare.
Il caos era al colmo. Fra le tante cose che l’Imperatore non riusciva a imporre alla Dieta e agli elettori era una zecca comune. Ogni Stato batteva moneta per conto proprio eppoi, per sottrarsi ai debiti, la tosava. Questo scoraggiava il risparmio, cioè l’accumulo del capitale. La mancanza di capitale impediva gl’investimenti. E la mancanza d’investimenti faceva languire la produzione. Neanche le miniere davano più reddito, da quando l’Europa era stata alluvionata dall’oro e dall’argento delle colonie d’oltre Oceano.
Questa era la situazione con cui il nuovo imperatore Ferdinando II doveva vedersela.
Ma per completare il quadro e rendere un po’ più intelligibile, o un po’ meno oscuro l’imbroglio della guerra che sta per scoppiare, dobbiamo aprire almeno una finestrella sull’Europa del Nord, che per la prima volta si affaccia sulla storia in veste di protagonista.
Alla metà del Cinquecento la potenza egemone era la Danimarca, signora anche della Norvegia, della Svezia meridionale, e insomma di quasi tutto il Baltico. In questi Paesi, convertitisi in massa al luteranesimo, non c’erano dissidenze religiose. Il re Cristiano IV se ne avvalse per cercar di unificare quelle vaste province, accentrandone il governo a Copenaghen, che sotto di lui diventò una bella e attrezzatissima capitale. Cristiano, che regnò sessant’anni, ricordava un po’ il suo quasi coetaneo Giacomo I d’Inghilterra. Anche lui era un curioso miscuglio di finezza e di volgarità. Il suo giudizio in fatto d’arte, di scienza, di cultura, era infallibile; ma sempre espresso in un linguaggio da stalliere e con un contorno di scurrilità da far arrossire un livornese. Il popolo lo amava perché Cristiano partecipava ai suoi balli, alle sue feste, e anche alle sue sbornie; e per questo non lesinava reclute quando il Re bandiva la mobilitazione.
Ciò gli capitava spesso perché Cristiano aveva un debole per la guerra, e ne fece parecchie per rintuzzare le tendenze separatiste dei suoi domini. Fra questi, la Svezia era la più inquieta. Praticamente, essa aveva già raggiunto l’indipendenza nel 1523 con Gustavo I Vasa, fondatore della dinastia regnante. Ma i nobili mal sopportavano l’accentramento dei poteri, e suscitavano torbidi. Eric, il successore di Gustavo, dovette abdicare e fu messo a morte dal fratello Giovanni. Costui, spintovi dalla moglie, ch’era una Principessa polacca, si convertì di nascosto al cattolicesimo: il che consentì a suo figlio di diventare Re di Polonia col titolo di Sigismondo III, in attesa di diventarlo anche della Svezia alla morte del padre, in modo da unificare le due corone. Ma Carlo, altro fratello di Giovanni, radunò a Uppsala trecento ministri protestanti e trecento laici in rappresentanza di tutte le classi sociali, i quali proclamarono che il trono di Svezia era accessibile solo ai luterani. Quando il problema della successione si pose, Sigismondo accorse per assicurarsela. Ma i capi svedesi gl’imposero un’abiura, che gli avrebbe fatto automaticamente perdere il trono di Polonia. Sigismondo tergiversò alcuni mesi in cerca di un impossibile compromesso. Alla fine decise d’invadere la Svezia, vi sbarcò col suo esercito, ma fu battuto dallo zio, che subito dopo fu innalzato al trono col titolo di Carlo IX. Il nuovo sovrano, già vecchiotto, impiegò i suoi pochi anni di regno a organizzare lo Stato. E ci riuscì così bene che Cristiano, vedendo in pericolo il primato danese, gli mosse guerra. Carlo cercò di evitarla sfidando a singolar tenzone Cristiano, che rifiutò. Morendo quando già il conflitto era scoppiato, pose una mano sulla testa del figlio sedicenne dicendo: «Ille faciet», penserà lui a fare il resto.
Questo figlio si chiamava Gustavo Adolfo, e la Svezia già lo adorava per la sua atletica prestanza, per la sua cortesia e per il suo coraggio. Sebbene destinato a trascorrere la sua breve esistenza sui campi di battaglia e a immortalarsi come il più guerriero di tutti i Re scandinavi, egli debuttò comprando la pace dalla Danimarca per un milione di talleri. Aveva capito che il pericolo non era quello, ma il colosso russo, cui occorreva precludere gli sbocchi sul Baltico prima che si fosse organizzato sotto il potere centralizzatore dei suoi Zar Romanov. Con una fulminea spedizione si annesse la Carelia orientale e l’Ingria fino all’odierna Leningrado, strappando alla Danimarca l’egemonia sull’Europa nordorientale.
Questa era pressappoco l’Europa alla vigilia della Guerra dei Trent’anni. Ma prima di addentrarci in questa ingarbugliata vicenda, occorre dare uno sguardo anche al nuovo mondo d’oltre Atlantico, che irrompe anch’esso nella storia.