CAPITOLO QUINTO

LA GUERRA DEI TRENT’ANNI

Abbiamo detto che la pace d’Augusta del 1555, basata sul principio del cuius regio eius religio, per cui i sudditi d’uno Stato dovevano abbracciare la fede del loro sovrano, aveva lasciato aperto il conflitto religioso in Germania. La sua applicazione avrebbe comportato massicci trasferimenti di popolazione che in pratica risultavano impossibili, o difficilissimi. E a complicare le cose c’era l’instabilità degli stessi Principi.

L’elettore palatino Federico III fu un calvinista arrabbiato. Il figlio Luigi si fece luterano. Il fratello Giovanni Casimiro ripristinò la fede paterna. Nell’Isenburg-Ronneburg, il conte Wolfgang invitò i luterani ad andarsene e ripopolò lo Stato di marbachiani, altra setta di protestanti affini ai calvinisti. Enrico, fratello e successore di Federico, bandì questi e richiamò quelli. Nel 1601, il conte Ernst espulse nuovamente i luterani e rimise in auge i calvinisti. Milioni di Tedeschi erano in balìa della fede dei loro capricciosi sovrani, di cui non facevano in tempo a seguire le giravolte, e spesso, nello spazio d’una settimana, passavano dalla parte di persecutori a quella di perseguitati, e viceversa.

La diatriba religiosa e il fratricidio in nome di Dio erano la causa principale del caos tedesco, ma non la sola. Altre vi concorrevano. Ciascun Principe germanico sognava di cingere la corona di Sacro Romano Imperatore, anche se da secoli non era più che un simbolo vuoto e screditato. Per inseguire l’impossibile chimera d’una restaurazione carolingia, i Signori tedeschi abdicavano all’unità nazionale, rintuzzando e soffocando ogni tentativo di dare al Paese una guida centralizzata. Ciascuno badava al suo «particulare» e mirava solo all’ingrandimento del proprio territorio a spese di quelli vicini e rivali. Batteva moneta, arruolava eserciti, faceva e disfaceva alleanze, dichiarava guerre.

Anche all’interno di questi mini-reami c’era una gran baraonda. Le leggi di successione erano incerte e anacronistiche. Nell’Assia-Cassel il diritto di primogenitura era sconosciuto, il Principe spartiva i suoi possedimenti tra i figli, e questi a loro volta li sbocconcellavano fra gli eredi. I Principati spuntavano come funghi: in una provincia se ne potevano contare fino a dieci, molti erano limitati a una città, alcuni non uscivano dai confini d’un villaggio con poche centinaia d’anime, strette attorno a un rozzo padiglione di caccia, capitale e palazzo del Signore. C’erano le cosiddette città libere, sottoposte alla giurisdizione puramente platonica dell’Imperatore. C’erano i feudi della Chiesa, in mano a Principi-Vescovi, indipendenti da tutti, specialmente dal Papa. C’erano i liberi cavalieri, come quel certo Götz von Berlichingen, che si vantava d’obbedire solo a Dio, all’Imperatore e a se stesso. E c’erano, infine, delle enclaves in mano a sovrani stranieri. Il Re di Danimarca, per esempio, era Duca dell’Holstein, quello di Spagna dominava il Circolo Burgundo, cioè le zone renane, eccetera. Si calcola che alla vigilia della Guerra dei Trent’anni, ventun milioni di Tedeschi fossero governati da più di duemila autorità diverse, in perpetuo conflitto fra loro.

La sovranità che l’Imperatore esercitava sul Paese – l’abbiamo già detto – era puramente nominale. Teoricamente, egli poteva convocare la Dieta, o assemblea di tutti i governi indipendenti, l’unico organo qualificato a legiferare. In realtà, radunare in uno stesso luogo i delegati tedeschi e metterli d’accordo era come quadrare il circolo. Le rare volte che queste assise si riunivano non combinavano niente, anzi spesso non cominciavano neanche i lavori perché i partecipanti erano tutti occupati a dibattere e a non risolvere complicate e puntigliose questioni di procedura e di precedenze. La Dieta finì così fatalmente per perdere autorità e prestigio. In mancanza di leggi nazionali, funzionavano quelle locali, che aggravavano il particolarismo e fomentavano le divisioni interne.

Impotente davanti alla Dieta, l’Imperatore era per di più prigioniero dei sette grandi elettori. Tre – quelli di Magonza, Colonia e Treviri – erano Vescovi, quattro – quelli di Boemia, del Palatinato, della Sassonia e del Brandeburgo – erano laici. I loro poteri erano enormi. Eleggevano l’Imperatore, il quale era tenuto a consultarli nelle questioni più gravi come la convocazione della Dieta, l’imposizione d’una nuova tassa, la confisca d’un territorio, la ratifica d’un’alleanza, la dichiarazione di guerra: tutte decisioni che non potevano essere prese senza il loro consenso, il che faceva di loro i padroni del padrone.

In quale baratro le dispute teologiche, le persecuzioni religiose, le divisioni dei Principi, il guazzabuglio di leggi, la riottosità dei piccoli nobili, l’impotenza dell’Imperatore avessero piombato la Germania, è facile immaginare. Il Paese, spezzettato e incapace di darsi un assetto unitario, di diventare cioè una Nazione, non aveva, e non poteva avere una società, ch’è articolazione e fusione di classi. Non che in Germania mancassero. C’erano, ma non comunicavano, e anche all’interno non avevano un ricambio. Le gerarchie erano rigide come nell’età feudale. I nobili se ne stavano arroccati nei loro manieri, dediti alla caccia, ai tornei, alla guerra, refrattari a ogni novità, spavaldi, rozzi, ignoranti. Vivevano di rendite, gabelle e rapine, andavano di rado in città e trattavano dall’alto in basso i borghesi. Questi – commercianti, artigiani e piccoli industriali – sfruttavano il popolo minuto, diseredato e inerme. Il Clero campava, come al solito, di decime ed elemosine.

La moralità pubblica e privata lasciava molto a desiderare. In nessun Paese d’Europa i costumi erano rilassati come in Germania. Specie l’alcolismo dilagava. «I buoi» scriveva un contemporaneo «cessano di bere quando non hanno più sete. I Tedeschi, invece, cominciano allora.» Nelle città e nelle campagne, vino e birra scorrevano a fiumi. Un Principe cattolico si congedava dagli amici con questa frase: «Valete et inebriamini», state bene e sbronzatevi. Il Langravio d’Assia, in un accesso di temperanza, fondò una lega antialcolica, il cui primo presidente morì ubriaco. Luigi del Württemberg sfidò due noti beoni a chi tracannava più vino. Quando costoro furono completamente ebbri, li fece caricare su un carro con alcuni maiali e rinchiudere in un porcile. Il vizio era comune a tutte le classi e diffuso a tutti i livelli. Le leggi contro gli eccessi del bere restavano lettera morta. Uguale effetto sortivano quelle contro le prostitute, i lenoni, i pederasti, gli usurai.

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Già da tempo Francia e Spagna spiavano compiaciute il deteriorarsi della situazione tedesca e soppesavano i pro e i contro d’eventuali alleanze. Nel 1608, Enrico IV prese posizione a favore dei Principi protestanti, schierandosi con l’Unione evangelica, costituitasi proprio in quell’anno in funzione antiasburgica. Nel 1609 si formò la Lega cattolica, capeggiata dal duca di Baviera Massimiliano I, cui la Spagna offrì i propri eserciti. La scomparsa del Re di Francia, pugnalato il 14 maggio 1610 da un monaco fanatico, fu un duro colpo per i protestanti. La Lega cattolica imbaldanzì, e nel 1615 si sparse la notizia ch’essa si stava armando per estirpare dal suolo tedesco l’eresia. Le nubi all’orizzonte si fecero più fosche. Il ciclone che per trent’anni avrebbe infuriato sulla Germania era alle viste.

Il suo occhio fu la Boemia. Questa faceva parte, come abbiamo già detto, dei domini degli Asburgo, e l’imperatore Mattia la governava per interposta persona attraverso un collegio di cinque fedeli luogotenenti. Mattia era vecchio e pieno d’acciacchi, e la sua fine era attesa da un momento all’altro. I protestanti vedevano in essa la grande occasione per strappare finalmente agli Asburgo la corona imperiale. La manovra era semplice: innalzare sul trono boemo un Principe protestante e garantirsi la maggioranza nel collegio elettorale, detenuta fin allora dai cattolici, che avevano già il loro candidato in un altro Asburgo: il lentigginoso e bigotto arciduca di Stiria, Ferdinando II.

A Praga, l’annuncio della sua designazione fece precipitare gli eventi. Il conte Heinrich von Thurn mobilitò i protestanti e il 23 maggio 1618 li fece marciare sul castello di Hradčany, dove si trovavano due dei cinque luogotenenti imperiali. Giunti al loro cospetto, il Conte diede ordine di buttarli dalla finestra assieme a uno dei segretari, che per caso si trovava nella stanza. I tre fecero un volo di quindici metri, ma restarono illesi perché ebbero la fortuna di cadere su un mucchio di rifiuti. L’episodio, noto come la «defenestrazione di Praga», segna l’inizio ufficiale della Guerra dei Trent’anni.

Dopo essersi sbarazzato dei rappresentanti imperiali, il von Thurn cacciò l’Arcivescovo e i gesuiti, e insediò un direttorio rivoluzionario con pieni poteri. Il vecchio Mattia, con un piede già nella fossa, fece sapere al Conte d’essere disposto a trattare con gl’insorti. Il rifiuto di von Thurn provocò l’intervento di Ferdinando, cui la corona boema serviva da sgabello per quella imperiale. Ferdinando era uomo di grandi ambizioni, di scarsa cultura, di modesta intelligenza, ma di non comuni doti politiche. Gliel’avevano coltivate e affinate i gesuiti, di cui era stato uno zelante allievo.

L’annuncio che due suoi eserciti stavano invadendo la Boemia seminò il panico fra i protestanti. Il von Thurn non poteva contare che su poche migliaia d’uomini male equipaggiati, e l’Unione evangelica non si muoveva. Ne profittò l’elettore del Palatinato, Federico, calvinista arrabbiato e genero del Re d’Inghilterra, per offrire, in cambio della corona boema, il proprio aiuto militare. Gli avvenimenti precipitarono. Il 20 marzo Mattia morì, lasciando Ferdinando Re di Boemia ed erede al trono imperiale. Il 17 agosto la Dieta boema depose il neoeletto e proclamò re Federico. Il 28 dello stesso mese, con quattro voti contro tre, i grandi elettori misero sul capo di Ferdinando la corona imperiale.

L’elettore palatino sentì vacillare la sua. Era già pentito d’averla accettata, dopo aver tanto brigato per ottenerla. Aveva agito sotto l’impulso dell’ambizione e dell’età (aveva appena ventidue anni) senza tener conto che, come calvinista, avrebbe avuto contro non solo i cattolici, ma anche i luterani. Come avrebbe potuto in quelle condizioni tener testa a tanti nemici, fra cui il colosso spagnolo? Si rivolse allora al suocero. Ma Giacomo I, invece d’un esercito, diede al genero il consiglio di rinunziare al trono. Era un buon consiglio, ma a Federico sembrò incompatibile col proprio onore. Il 4 novembre egli entrò a Praga, accolto trionfalmente dal Direttorio e dal popolo. Aveva tutto per piacere alla folla: bello, elegante, raffinato e malinconico. Ma sotto queste apparenze c’era un carattere debole, irresoluto e facilmente influenzabile soprattutto dalla moglie, la bellissima Elisabetta.

Il suo debutto di Re fu una catastrofe. L’ordine che diede, appena giunto a Praga, di rimuovere dalle chiese altari e immagini, esasperò le masse contadine, tutte cattoliche, e fornì all’Imperatore un pretesto d’intervento. Ferdinando lo colse al volo e lanciò un ultimatum: se entro il primo giugno (1620) Federico non avesse deposto la corona usurpata, egli l’avrebbe dichiarato fuori legge. Contemporaneamente, con abile mossa, si riconciliò a Ulm coi Principi protestanti, uno dei quali, l’elettore di Sassonia Giovanni Giorgio, si schierò addirittura dalla sua parte.

Sebbene abbandonato da tutti, Federico non mollò, rifiutò di deporre il titolo e s’accinse, con le poche forze di cui disponeva, a sostenere l’urto di quelle imperiali, calcolate a oltre venticinquemila uomini, guidati da un abilissimo generale, il Conte di Tilly, allievo ed emulo del grande Alessandro Farnese.

I due eserciti si scontrarono nei pressi della Montagna Bianca, a Ovest di Praga, l’8 novembre. I calvinisti furono messi in rotta. Federico, la moglie e la Corte fuggirono in Slesia, dove il Palatino cercò inutilmente di racimolare nuove milizie. Il 9 novembre i vincitori, guidati da Massimiliano di Baviera, varcarono le mura di Praga. I templi cattolici riebbero immediatamente i loro altari e le loro immagini, furono richiamati i gesuiti, l’istruzione passò nuovamente sotto il controllo del Clero romano, tutte le religioni, eccetto quelle cattolica ed ebraica, furono bandite. Ogni simulacro d’eresia venne cancellato: l’anniversario di Giovanni Huss fu proclamato lutto nazionale. I partigiani di Federico, che non avevano fatto in tempo a mettersi in salvo, furono impiccati o decapitati, e i loro cadaveri esposti sulla torre del ponte di Carlo sopra la Moldava.

Mentre in Boemia imperversavano le purghe, un esercito spagnolo, al comando del generale genovese Spinola, muoveva dalle Fiandre alla conquista del Palatinato. Questo malaccorto intervento allarmò i protestanti, che sembrarono ritrovare la loro unità. Nei pressi di Heidelberg le loro truppe si scontrarono con quelle spagnole, ma ebbero la peggio. La città, mecca e roccaforte del calvinismo, venne barbaramente saccheggiata. La stupenda biblioteca dell’università, per ordine di Massimiliano, fu smantellata fino all’ultimo volume, caricata su cinquanta carri e spedita a Roma, dono al papa Gregorio XV.

Ferdinando esultò e in cambio dei servigi resi concesse a Massimiliano il Palatinato, il che rendeva schiacciante la maggioranza cattolica nel collegio elettorale dell’Impero. Così schiacciante che a preoccuparsene furono non solo i principi protestanti, ma anche i cattolici. Ferdinando non aveva vinto. Aveva stravinto, e cominciava a diventare pericoloso. Si vociferava che carezzasse l’idea d’unificare sotto il suo scettro la Germania. Anche il Papa e la Francia sentivano il puzzo d’una nuova egemonia asburgica. S’imponeva una mobilitazione antimperiale.

Artefice e regista ne fu il Richelieu. Il Cardinale isolò gli Asburgo stipulando un’alleanza con l’Olanda, attirandovi subito dopo l’Inghilterra, la Svezia e la Danimarca, infine estendendola ai Savoia e a Venezia per strappare agli Asburgo la Valtellina, corridoio strategico di vitale importanza e passaggio obbligato degli eserciti spagnoli e imperiali dall’Italia all’Austria. I frutti di questi maneggi non si fecero attendere.

Il primo fu un frutto amaro, e toccò alla Danimarca inghiottirlo. Il suo bellicoso Re, Cristiano IV, era anche Duca di Holstein e controllava vasti territori nella Germania del Nord, che costituivano un formidabile baluardo per la potenza marittima danese nel Baltico. Questi possedimenti facevano naturalmente gola a Ferdinando, che sognava quello sbocco al mare e si stava armando per piantarvi le sue bandiere. Per prevenirlo Cristiano fece sbarcare sul continente un esercito di ventimila uomini che nella Bassa Sassonia si congiunse con quello savoiardo, condotto da von Mansfeld, forte di quattromila. L’Imperatore ordinò al Tilly di marciare contro il Re danese. Il Generale obbedì ma chiese a Ferdinando rinforzi perché non gli erano rimasti che diecimila uomini, stanchi e male in arnese. L’Imperatore gli mandò un certo Wallenstein.

Costui, di sangue boemo, si chiamava in realtà Albrecht von Waldstein, ed era nato nel 1583, figlio d’un piccolo gentiluomo di campagna protestante. Aveva studiato nella celebre scuola luterana di Altdorf, di dove era stato cacciato per il carattere violento e rissaiolo. Dopo un viaggio a Roma s’era convertito al cattolicesimo, e quando Ferdinando era ancora Arciduca di Stiria, s’era messo al suo servizio. Giovanissimo, aveva sposato una ricca vedova, che l’aveva a sua volta lasciato vedovo. Quando l’Imperatore aveva messo in vendita i beni dei protestanti boemi, egli s’era precipitato a farne incetta. I ritratti che di lui possediamo ce lo mostrano alto, magro, zigomi sporgenti, naso grosso, mascella pesante, labbra carnose. Era d’approccio sgradevole, poco incline alle effusioni e agli entusiasmi, diffidente, taciturno, ambizioso e testardo. S’indovinava in lui l’uomo abituato al comando. Era maniaco dell’ordine e della puntualità. D’abitudini spartane, mangiava con moderazione e nessuno ricorda d’averlo mai visto ubriaco. Si vestiva di nero, un colore che contrastava col pallore del volto, e portava al collo una sciarpa rossa. Pare che si tingesse anche le labbra. Era devoto, ma più che a Dio credeva agli astrologi.

La sua ascesa di condottiero era cominciata nel 1618. In quell’anno era scoppiata in Moravia una rivolta contro gli Asburgo, alla quale avevano aderito anche le truppe del Wallenstein, governatore della provincia. Questi era riuscito a impadronirsi del tesoro militare e a metterlo in salvo alla Corte di Ferdinando. I ribelli, rimasti al verde, se n’erano tornati a casa. L’anno dopo, Wallenstein aveva prestato all’Imperatore in bolletta quarantamila fiorini, poi centosessantamila, poi duecentomila e, nel 1623, mezzo milione. Sapeva che Ferdinando non glieli avrebbe mai resi, ma sapeva anche che quel denaro gli sarebbe tornato prima o poi in tasca sotto forma di favori e privilegi.

Ecco perché, quando Tilly sollecitò rinforzi, l’Imperatore non ebbe dubbi su chi avrebbe dovuto fornirglieli. A Wallenstein quella parve la grande occasione per entrare da protagonista nel teatro della guerra, a fianco e di fronte ai condottieri più prestigiosi dell’epoca. In poche settimane mise insieme un esercito di ventimila uomini, li equipaggiò di tutto punto e li lanciò contro von Mansfeld, travolgendolo, mentre Tilly sconfiggeva Cristiano. Quindi invase il Brandeburgo e costrinse l’elettore Giorgio Guglielmo a schierarsi con l’Imperatore. Dal Brandeburgo marciò sull’Holstein e lo sottomise, cacciando i Danesi dal loro ultimo avamposto continentale, mentre Richelieu richiamava le truppe francesi che aveva spedito in Valtellina.

Il nome di Wallenstein era ormai sulla bocca di tutti. La sua fama di Generale aveva offuscato quella del Tilly, di Mansfeld, di Cristiano. Egli era, col suo esercito, il padrone dei destini d’Europa. Ma l’egemonia continentale, che le sue strabilianti vittorie avevano dato a Ferdinando, non bastava ad appagare la sconfinata ambizione del condottiero. Nei suoi napoleonici piani esse non dovevano essere che la premessa e la base di campagne successive che avrebbero portato al dominio imperiale sul Baltico e sul Mar del Nord. Sognava la rinascita dell’Hansa, l’ormai fatiscente federazione dei grandi porti commerciali che s’affacciavano su quelle grigie distese d’acque, le cui banchine ricevevano e smistavano merci provenienti da ogni parte d’Europa. La realizzazione di questo disegno avrebbe significato il crollo dell’Olanda, dell’Inghilterra, della Svezia, che del Baltico e del Mar del Nord erano le principali utenti. Anche la Chiesa ne avrebbe tratto il suo utile perché Ferdinando, aizzato dai gesuiti, non avrebbe resistito alla tentazione di stroncare l’eresia nei nuovi territori.

La minaccia insomma era grave, e coloro sui quali incombeva corsero ai ripari. I più immediatamente esposti erano i Principi tedeschi, perché sul suolo germanico Wallenstein giuocava la sua partita. Essi avevano seguito con sgomento l’ingrossarsi dell’esercito del condottiero boemo, che contava ora centoquarantamila uomini, mentre quello della Lega cattolica era sceso a ventimila. Con una siffatta massa d’uomini, perfettamente addestrati, magnificamente armati e disciplinati, revocare le «libertà germaniche» e ridurre la miriade di staterelli tedeschi sotto l’egida asburgica sarebbe stato un giuoco da bambini. Nell’inverno del 1627-28, gli elettori dell’Impero si riunirono a Mülhausen per discutere il da farsi. I protestanti erano naturalmente più preoccupati dei cattolici. Ma anche costoro s’allarmarono, quando Ferdinando, senza neppure consultarli, strappò al suo legittimo titolare il Ducato di Meclemburgo e l’assegnò al Wallenstein. Bisognava fermare l’Imperatore prima che fosse troppo tardi, prima cioè che Wallenstein diventasse più potente di lui.

Proprio in quei giorni Ferdinando voleva nominare il figlio Re di Roma, per spalancargli la successione alla corona imperiale, e un veto dei grandi elettori avrebbe fatto fallire la prova. Il 28 marzo costoro fecero sapere all’Imperatore che non lo avrebbero posto s’egli avesse licenziato il Wallenstein. Non gli nascosero neppure che, se non si fosse messo un freno all’ambizione del Generale, l’Impero sarebbe presto caduto in sua balìa. Ferdinando promise che avrebbe tenuto conto del monito.

Esso gli veniva rivolto in un momento particolarmente difficile, in cui più che mai aveva bisogno del Wallenstein e delle sue milizie. Dietro le insistenti pressioni dei gesuiti infatti l’Imperatore stava promulgando un editto che obbligava i possessori di antichi beni ecclesiastici, passati in mani laiche dopo il 1552, a restituire alla Chiesa ciò che da essa avevano regolarmente acquistato. Era una colossale truffa, un’ingiustizia senza precedenti, che poteva imporsi solo con l’uso, o la minaccia, della forza.

L’editto venne applicato con zelo fino all’ultimo centimetro quadrato di terra. Ci furono qua e là delle resistenze, subito domate dai lanzichenecchi del Wallenstein. Decine di città e cittadine protestanti passarono ai cattolici e i loro abitanti, in ossequio al principio del cuius regio eius religio, o abiurarono la vecchia fede o emigrarono. Accontentati i gesuiti, Ferdinando si decise finalmente a dar soddisfazione agli elettori dell’Impero, che gli avevano chiesto la testa del Wallenstein.

Ma il Generale, al corrente delle mire dei suoi nemici e dei sospetti che costoro avevano insinuato nell’animo di Ferdinando, aveva avviato trattative segrete con Cristiano, culminate il 22 maggio 1629 nella pace di Lubecca e nella restituzione al Re danese di gran parte dei suoi ex territori tedeschi. Wallenstein aveva agito in parte all’insaputa dell’Imperatore, che non nascose il suo disappunto, convocò il Generale e gli ordinò di stornare dal suo esercito trentamila uomini e spedirli in Italia. Wallenstein rifiutò, dicendo che il re di Svezia Gustavo Adolfo stava arruolando truppe per invadere l’Europa. Ma Ferdinando fu irremovibile, e alla fine Wallenstein dovette cedere. Due mesi dopo, il condottiero boemo perse anche il comando dell’esercito, che passò a Massimiliano di Baviera. Senza clamori si ritirò nelle sue tenute in Boemia in attesa, come Cincinnato, che l’Imperatore lo richiamasse. Il suo esilio non sarebbe durato a lungo con l’aria che tirava dal Nord, e precisamente dalla Svezia, dove il re Gustavo Adolfo si atteggiava a grande campione della causa protestante, e lo era.

Il 4 luglio 1630 sbarcò a Usedom, in Pomerania. Aveva trentasei anni ed era l’idolo dei suoi soldati, che trattava da commilitoni, condividendone i triboli, le fatiche, i repentagli. Dormiva con loro sotto la tenda, consumava con loro il rancio e indossava persino la loro stessa divisa: giubba e pantaloni di camoscio e un berretto di castoro. Lo si riconosceva per una fascia o un mantello scarlatto che solo lui portava. Era un cavaliere formidabile e instancabile, si lavava di rado, i suoi abiti erano gualciti e sbrindellati, i suoi stivali scorticati e inzaccherati. Quando parlava guardava diritto negli occhi l’interlocutore e andava subito al sodo. I suoi sì erano sì, i suoi no, no. Sotto questa crosta ruvida e cameratesca c’era però un senso puntigliosissimo del rango. Guai se un ambasciatore, presentandogli le credenziali, non si rivolgeva a lui con tutti i titoli che gli spettavano, guai se a palazzo il maestro delle cerimonie commetteva una svista.

Quelli con cui sbarcò a Usedom erano in tutto tredicimila uomini, più alcune migliaia di mercenari, reclutati in Germania dopo un’accurata selezione. Erano in maggioranza luterani, ma non mancavano seguaci di altre religioni. A tutti Gustavo chiedeva obbedienza cieca e fedeltà assoluta non solo alla bandiera svedese, ma anche agli ideali in nome dei quali egli combatteva e si diceva pronto a morire: la sicurezza e l’indipendenza del suo Paese, minacciate da Ferdinando. Ai suoi correligionari chiedeva in più di recitare due volte al giorno le preghiere e di cantare durante le battaglie. Non obbligava nessuno a farlo, ma tutti lo facevano perché lo faceva lui. E l’esempio del Re valeva più d’un ordine. Sebbene la disciplina fosse molto rigida, il saccheggio fosse punito con la morte e non ci fossero prostitute al seguito delle truppe, nessuno si lamentava.

Gustavo Adolfo aveva meticolosamente preparato la spedizione anche dal punto di vista psicologico per guadagnare alla sua causa le masse luterane germaniche. Alla vigilia di salpare per il continente, aveva pubblicato un manifesto in cinque lingue, ch’era stato diffuso in tutt’Europa, in cui spiegava perché muoveva guerra a Ferdinando. Ne dettò un secondo sbarcando a Usedom, nel quale accusava i grandi elettori protestanti di tradire la loro fede, che lui solo si trovava ora a difendere. Ma nessuno si mosse, e Gustavo dovette guadagnarsi gli alleati con la forza delle baionette. In tre settimane quasi tutta la costa baltica era in mani svedesi. Di qui il «leone del Nord», come lo chiamavano, dilagò nel continente, passando da una conquista all’altra. Il 23 gennaio 1631 Svezia e Francia suggellarono la loro alleanza: Richelieu avrebbe fornito i mezzi (quattrocentomila talleri), Gustavo avrebbe trovato gli uomini. Nessuno dei due avrebbe fatto la pace senza il consenso dell’altro, né avrebbe sollevato la questione religiosa. Richelieu invitò Massimiliano di Baviera (e del Palatinato) a passare nel campo franco-svedese, ma il Duca rispose spedendo il Tilly contro Gustavo. Il Generale, ormai settantunenne, puntò sulla cittadina di Neubrandenburg, se ne impadronì e massacrò i tremila uomini che la presidiavano. Gustavo non volle essere da meno: marciò su Francoforte, l’occupò e sterminò l’intera guarnigione. Tilly replicò assediando Magdeburgo. Dopo sei mesi di resistenza disperata, la città, stremata dalla fame, dalla perniciosa e dalla mancanza di munizioni, spalancò le porte agli imperiali, che s’abbandonarono a un saccheggio degno di Attila. Case, scuole, ospedali furono dati alle fiamme, venti dei trentamila abitanti sterminati. Il macello durò quattro giorni, e lo stesso Tilly ammise che s’era sparso troppo sangue. La Germania protestante inorridì e due suoi Principi, l’elettore di Brandeburgo e Giovanni Giorgio di Sassonia, misero i loro eserciti a disposizione di Gustavo, che con queste nuove forze, il 17 settembre del 1631, sbaragliò il Tilly a Breitenfeld, presso Lipsia. Fu una vittoria strepitosa, che rianimò tutto lo schieramento antiasburgico e procurò al Re di Svezia nuovi alleati.

La bandiera svedese sventolava ora dall’Oder al Reno. A Magonza, dove Gustavo aveva stabilito il suo quartier generale, era stata issata sul pennone del più alto edificio cittadino, simbolo della trionfante causa protestante. Quella cattolica, affidata al vecchio e stanco Tilly, sembrava definitivamente perduta. Solo un uomo forse avrebbe potuto operare la riscossa: l’imbattuto Wallenstein. Quando Ferdinando gli chiese di riprendere il comando dell’esercito imperiale, il condottiero boemo accettò, ma volle dettare le condizioni del reingaggio: comando supremo delle truppe, pieni poteri di negoziato e di tregua, diritto di saccheggio, di confisca e d’amnistia. L’Imperatore non aveva scelta, e accettò. Wallenstein riunì in un batter d’occhio un poderoso esercito, indusse Giovanni Giorgio di Sassonia a un’ennesima piroetta. Dopodiché puntò su Praga e, senza colpo ferire, l’occupò.

Nel frattempo, per la seconda volta Gustavo Adolfo sconfiggeva a Rain il Tilly, che due settimane dopo moriva per le ferite riportate. Da Rain, il Re svedese piegò su Monaco, dove lo raggiunse la notizia che all’esercito del Wallenstein, Massimiliano aveva unito il suo, e tutt’e due si stavano ora preparando al grande scontro. Questo avvenne il 16 novembre 1632 a Lützen, nei dintorni di Lipsia. Fino al tramonto la lotta infuriò in un’altalena d’attacchi e contrattacchi, avanzate e ritirate. Sul far della sera, sembrò che i cattolici prendessero il sopravvento. Gustavo allora diede il segnale della riscossa, e vi si pose a capo, lanciando il suo cavallo contro la prima linea nemica. A un tratto, un proiettile lo colpì al braccio sinistro e un altro andò a conficcarsi nella fronte del cavallo, che stramazzò al suolo, disarcionando il sovrano, raggiunto alla schiena da una seconda pallottola. Nella confusione nessuno s’accorse della sua caduta. La ferita non era mortale ed egli forse se la sarebbe cavata se ai soldati imperiali, che per primi gli s’avvicinarono per chiedergli chi fosse, non avesse risposto: «Sono il Re di Svezia, che suggello la religione e la libertà della Nazione germanica col mio sangue». Fu investito da una selva di lance e il suo petto ridotto un crivello.

La notizia della morte di Gustavo si sparse nel campo con la rapidità del fulmine. Gl’imperiali esultarono. Gli Svedesi, dopo un momento iniziale di panico, serrarono le file e, come belve inferocite, s’avventarono sul nemico, frantumandone le difese e volgendolo in rovinosa rotta. Ma mai vittoria era costata più cara.

Le redini della guerra furono prese dal Richelieu che da Parigi seguiva le mosse degli eserciti antiasburgici rimasti in campo: quello francese, comandato da Bernardo di Sassonia Weimar, e quello svedese, guidato da Banér e Torstensson. Gl’imperiali subirono nuovi rovesci, e il Wallenstein si ritirò in Boemia per rimettere insieme i cocci della sua non più invincibile armata. Sapeva benissimo che a guerra finita Ferdinando non avrebbe esitato un solo istante a liquidarlo. Ma sapeva anche che i capi protestanti, il Richelieu e l’Oxenstierna, erano disposti a trattare con lui, e che gli esuli boemi gli avrebbero volentieri offerto la corona di Re.

Il 24 gennaio 1634, Ferdinando gli tolse il comando delle truppe. Wallenstein, con poche migliaia di uomini rimastigli fedeli, fuggì a Eger, dove s’acquartierò. Il 25 febbraio, mentre se ne stava nella sua stanza a curarsi la gotta, quattro soldati v’irruppero e lo massacrarono a colpi di spada, fuggendo poi a Vienna, dove l’Imperatore li ricompensò con una lauta mancia e uno scatto di grado.

Al suo posto, Ferdinando mise il proprio figlio, che si chiamava come lui. Era un giovane di ventisei anni, colto, delicato, amante della musica e della filosofia, e anche buon Generale. La sua prima sortita a Nördlingen contro Bernardo fu un trionfo. Da quella battaglia l’esercito protestante uscì assai malconcio, e Richelieu e Oxenstierna dovettero bandire nuove leve, a cui però i Principi tedeschi rifiutarono reclute. La guerra, che sembrava non dovesse più finire, li aveva stremati e sui loro Stati, devastati dagli eserciti di mezz’Europa, incombeva lo spettro della fame e della bancarotta. Ciononostante erano ancora disposti a combattere, ma non più per la Francia e la Svezia, cioè per lo straniero. Se dovevano continuare a versar sangue, l’olocausto andava compiuto in nome della Germania.

La guerra seguitò a divampare su vari fronti con sorti alterne, che sarebbe troppo lungo seguire. Nella Germania del Nord l’esercito della Sassonia si scontrò nel 1635 con quello svedese. A occidente Bernardo, affiancato dal francese Turenne, batté tre anni dopo gl’imperiali a Wittemweiler e diede alla Francia l’Alsazia. Nel 1642 Torstensson sconfisse la lega asburgica a Breitenfeld. Nel 1643 Enghien mise in rotta gli Spagnoli a Rocroi, nel 1644 lo stesso Enghien e Turenne conquistarono la Renania, nel 1646 ancora Turenne dilagò in Baviera. I franco-svedesi erano imbattibili e gl’imperiali esausti. Ferdinando III, successo nel 1637 al padre, cominciò a pensare alla pace.

Trattative s’andavano trascinando da più di dieci anni. Nel 1635, il papa Urbano VIII aveva invitato i belligeranti a sospendere le ostilità. Le varie parti s’erano riunite a Colonia, ma non avevano concluso niente. Sei anni dopo, Francesi, Svedesi e imperiali s’erano dati convegno ad Amburgo e avevano designato le città di Münster e Osnabrück come sedi di negoziati separati: nella prima, la Francia avrebbe trattato con Ferdinando, mediatori il Papa e Venezia; nella seconda, Francia e Impero si sarebbero abboccate con la Svezia, mediatore il Re danese. La divisione era stata chiesta dal rappresentante svedese, che non voleva sedere allo stesso tavolo col nunzio pontificio, e da quest’ultimo che non voleva aver di fronte un luterano. Beghe procedurali, cavilli di protocollo, puntigli d’etichetta e soprattutto le cangevoli vicende della guerra che rendevano riluttante il vincitore del momento ad abbandonare la lotta, ritardavano il concreto avvìo dei negoziati.

Solo il 4 dicembre 1644 essi finalmente cominciarono, presenti centotrentacinque delegati, che per sei mesi dibatterono le più futili questioni di precedenze. L’ambasciatore francese fece ufficialmente sapere che non avrebbe partecipato ai lavori se non gli fosse stato riconosciuto il titolo d’Altezza. Finalmente, nell’ottobre 1648, la pace, la famosa pace di Westfalia, ossia il duplice trattato di Münster e Osnabrück, fu firmato: Svizzera e Olanda ottennero l’indipendenza; l’Alto Palatinato passò alla Baviera, il Basso tornò a Federico, anzi al figlio, che diventò ottavo elettore dell’Impero; il Brandeburgo acquistò la Pomerania orientale e le città di Magdeburgo e Minden, e gettò le basi d’un nuovo Stato: la Prussia; alla Svezia vennero assegnate le diocesi di Brema e Verden, le città di Wismar e Stettino, e il territorio alla foce dell’Oder; ai Principi tedeschi furono riconfermate le cosiddette libertà germaniche, cioè la loro piena indipendenza dall’Imperatore; questi ottenne il riconoscimento della sua sovranità in Boemia e in Ungheria; la Francia ebbe Pinerolo, l’Alsazia con le diocesi di Metz, Toul e Verdun, ma soprattutto vide realizzarsi tutti i sogni del Richelieu: l’allargamento delle proprie frontiere, l’indebolimento degli Asburgo e il mantenimento della divisione dei Principi tedeschi.

La grande sconfitta fu la Chiesa cattolica, che aveva sognato di riportare la Germania all’ortodossia sugli scudi imperiali. La pace amareggiò profondamente il papa Innocenzo X che la definì: «Nulla e non valida, maledetta, e senza effetto alcuno né risultato per il passato, il presente e il futuro». Ma nessuno gli diede retta. In Germania la Controriforma era stata bocciata. La Riforma, invece, guadagnò punti a Nord e ne perse a Sud, dove non era mai stata forte. Il calvinismo fu ufficialmente riconosciuto.

Trent’anni di guerra – e che guerra! – avevano ridotto la Germania a un deserto dei tartari. Sul suo suolo sei eserciti – tedesco, danese, svedese, boemo, spagnolo, francese – s’erano abbandonati a ogni sorta di violenze, che non cessarono nemmeno con la pace perché molti soldati mercenari, licenziati dai loro comandanti, si trasformarono in briganti e razziatori, sebbene da razziare nel Paese fosse rimasto ben poco. Secondo i calcoli, spesso discordanti, dei contemporanei, i ventun milioni d’abitanti dell’anteguerra erano scesi a tredici e mezzo. La Baviera aveva perduto ottantamila famiglie e novecento villaggi; la Boemia tre quarti della popolazione e cinque sesti dei suoi villaggi. I più colpiti furono i contadini, ch’ebbero i loro campi devastati dagli eserciti, e i mercanti, tagliati fuori dai commerci fra Stato e Stato, fra città e città. Anche le rimanenti attività economiche – industria, artigianato, servizi – erano ridotte allo stremo, e ci volle più d’un secolo perché rifiorissero.

Nessun conflitto come quello dei Trent’anni impoverì e insanguinò tanto la Germania e l’Europa, nessuna pace fu più sudata e sospirata di quella di Westfalia. Il 1648 chiuse l’epoca delle guerre di religione e aprì quella, non meno cruenta, delle guerre nazionali. Al fanatismo teologico e ideologico si sostituì un’altra forma di fanatismo, non meno esiziale.

E ora vediamo il contraccolpo che questo cataclisma aveva provocato negli Stati italiani.