Durante la Guerra dei Trent’anni una delle più pingui riserve di carne da cannone per la Spagna fu il Viceregno di Napoli. Si calcola che circa cinquantamila soldati e cinquemilacinquecento cavalli ne varcarono i confini per andare a concimare i campi di battaglia dell’Europa centrale.
Quella umana era l’unica merce che il Mezzogiorno produceva in quantità superiore al proprio fabbisogno e la sola che fosse in grado d’esportare. Il problema demografico già a quei tempi affliggeva il Sud favorendone il depauperamento, dovuto all’assoluta mancanza d’industrie, allo scarso slancio commerciale, allo stato d’abbandono delle campagne.
Dai tempi di Federico II l’economia meridionale non aveva fatto che declinare. Gli Angioini e gli Aragonesi avevano assistito impassibili alla sua rovina. Gli Spagnoli non mossero un dito per arginarla. Pessimi amministratori, allergici a ogni preoccupazione di bilancio, qui, meno che altrove, riuscirono a farlo quadrare. Nella sua storia del Regno di Napoli, Benedetto Croce ha scritto che la conquista del Mezzogiorno fu per Madrid un pessimo affare. È vero. Ma lo fu altrettanto per i suoi abitanti la dominazione spagnola, la quale, più che a portar oro all’Escuriale, tirò a farsi mantenere dai sudditi, sommergendoli sotto un diluvio di balzelli. La scure del fisco s’abbatteva su tutto. Gli appaltatori sottoponevano i contribuenti a ogni specie di soprusi, facevano la cresta sulle gabelle e non rendevano conto che alla propria rapacità. Poiché le tasse non bastavano a coprire le spese e a colmare i sempre crescenti disavanzi, i Viceré escogitavano, di volta in volta, esazioni straordinarie. Imponevano dogane, dazi, calmieri, concedevano o revocavano privative, limitavano le importazioni, scoraggiavano le esportazioni, manipolavano persino la moneta e alteravano i cambi, stabilivano i «donativi» che servivano per le spese più futili e frivole, come l’acquisto delle pianelle per l’Imperatrice. La Spagna governava il Viceregno come se stessa, con criteri antieconomici e metodi antiquati, che piombarono la colonia nel più spaventoso baratro finanziario.
Alla sprovvedutezza amministrativa e alla cupidigia dei dominatori facevano riscontro l’abulia e l’inettitudine dei dominati, a cominciare dalla classe più altolocata: la nobiltà. Nel Sud essa era assai più composita e differenziata che altrove. C’era quella d’origine guerriera normanna e sveva che preesisteva al dominio spagnolo e non dimenticava i suoi titoli di priorità. Né i Re aragonesi, né i Viceré di Madrid erano mai riusciti a ridurla all’obbedienza. Il nobile napoletano, calabrese, siciliano era rimasto sovrano assoluto nel suo feudo, i cui abitanti si consideravano più sudditi suoi che del Re. Anche se era venuto ad abitare in un palazzo della Capitale e a occupare una carica a Corte, conservava gelosamente le prerogative di questo supremo rango e manteneva le distanze col pari grado di nuova estrazione.
Il governo vicereale inaugurato da don Pedro di Toledo era stato infatti prodigo di titoli nobiliari: un po’ perché, ambiti com’erano per gli onori e i privilegi che comportavano in questa chiusa e gerarchizzata società secentesca, fruttavano al Tesoro fior di quattrini, un po’ perché creavano una categoria di clienti legati al potere costituito, un po’ perché questa nuova aristocrazia serviva a controbilanciare quella più antica e prepotente. Ma quest’ultimo obiettivo s’era dimostrato illusorio perché il nuovo nobile, più che a infrenare quello vecchio, badava a imitarlo soprattutto nell’arroganza. Anche lui si considerava sovrano assoluto nel suo feudo, anche lui si sentiva al di sopra della legge. In pratica, il Viceré non governava che un terzo del Reame. Gli altri due terzi erano «feudali», cioè soggetti ai Signori che se li tramandavano per diritto ereditario e vi dettavano la legge loro. Vi risiedevano di rado. Anzi, c’erano dei nobili che non avevano mai messo piede nelle loro terre. Le amministravano – se si può usare questo verbo – attraverso i «gabelloti», così chiamati perché si impegnavano a pagare una «gabella», o affitto annuo, al padrone che non voleva occuparsi del suo patrimonio, pago di spremerne quanto più poteva per campare a Napoli o a Palermo. È facile capire ciò che avveniva: il gabelloto, a sua volta, cercava di sfruttare al massimo la sua posizione praticando un’agricoltura e una pastorizia di rapina e riducendo allo stremo i contadini. La degradazione del Sud ad «area depressa», depressa non solo economicamente, ma anche moralmente, dalle angherie che vi esercitavano, in nome del Signore assente e col suo tacito consenso, questi rapaci affittuari distruttori di boschi e pascoli, risale a quest’epoca. E l’hanno sulla coscienza i nobili.
Costoro, ormai accasati in città, non avevano altro problema da risolvere che la conquista e la difesa delle «precedenze». A differenza dei Piemontesi e dei Veneziani infatti essi non costituivano un’aristocrazia di potere perché i Viceré spagnoli si guardavano bene dall’affidargliene anche le leve subalterne. Per le forze armate si fidavano solo – e facevano bene – dei loro generali castigliani. Per l’amministrazione preferivano personale borghese. Il nobile quindi, per ingannare i suoi ozi, non aveva altre risorse che la mondanità, il giuoco e le gare di prestigio e di protervia coi suoi pari. Per un posto a tavola, per un titolo omesso in un indirizzo, per un superlativo in più o in meno, era disposto a uccidere e a farsi uccidere. Racconta il Viterbo: «Durante una solennità, a Napoli, il Viceré uscì indispettito di chiesa, perché vide posare due cuscini sotto i piedi dell’Arcivescovo, che aveva diritto a un cuscino solo. Violenti contrasti scoppiarono in mezzo alla nobiltà di Bari perché il castellano Giuseppe Pappacoda, Marchese di Capurso, si faceva dare di eccellenza e soprattutto perché la moglie nei divini uffizi alla basilica di San Nicola e in Duomo usava la sedia con cuscino, il che offendeva la suscettibilità delle altre gentildonne prive di cuscino, e per giunta, dopo essersi seduta, si lasciava avvolgere in nugoli d’incenso da pretonzoli e sagrestani che agitavano turiboli davanti a lei».
I duelli del nobile non si contavano. Il suo senso dell’onore gli consentiva di non pagare i debiti in cui il suo patrimonio stava sprofondando, ma non di cedere il passo sul marciapiede a un suo pari. Questo «affronto» l’obbligava a por mano alla spada che gli cingeva il fianco, e gli uomini del suo seguito (perché un nobile degno di questo nome non andava mai in giro da solo) erano tenuti a imitarlo. Ne nascevano, in piena strada, vere e proprie battaglie che lasciavano sul terreno morti e feriti. Invano i Viceré emanavano bandi per impedire queste orge d’arroganza e di sangue. Solo verso la fine del secolo i nobili napoletani si renderanno conto dell’assurdità di questi massacri e con una dichiarazione s’impegneranno a cessarli.
Era fatale che una siffatta classe, con la sua atavica refrattarietà alle attività produttive e la totale renitenza all’investimento, si giuocasse il patrimonio, che dalle sue tasche cominciò lentamente a scivolare in quelle del ceto medio. Nel resto d’Italia, ceto medio era sinonimo di borghesia artigianale, mercantile, imprenditoriale. Nel Reame, no. Qui designava esclusivamente gli speculatori e gli avvocati. I primi erano appaltatori di gabelle, mercanti di pochi scrupoli, strozzini, usurai, questi ultimi in gran parte forestieri, specialmente genovesi. I Napoletani li chiamavano «giudei» perché erano stati gli Ebrei a detenere il monopolio di quest’attività, prima che don Pedro di Toledo li mettesse al bando.
Se gli speculatori, coi loro traffici più o meno leciti, s’impinguavano alle spalle dei nobili ricchi, sempre meno ricchi, gli avvocati facevano denaro sfruttando la loro litigiosa rivalità. I motivi di contesa, come abbiamo visto, erano innumerevoli. Qualche volta, è vero, ci si faceva giustizia da sé, con un duello o un agguato. Più spesso, a causa dei bandi vicereali che comminavano pene severe a chi regolava in proprio i conti col nemico, s’andava dall’avvocato.
Quanti ce ne fossero a Napoli nel Seicento non sappiamo. Certamente dovevano essere legioni se, come dice Croce, «la strada dell’avvocazione parve fosse la sola aperta agli uomini intraprendenti, perché quella delle armi non valeva più a tal fine, e quella dei commerci e delle industrie mancava, onde il “vender fole ai garruli clienti” divenne la vera industria e il lucroso commercio interno di Napoli». Ma c’era anche un’altra circostanza a rendere vantaggiosa e ambita la carriera forense: gli avvocati potevano facilmente ottenere cariche politiche. Guadagnavano meno ma accrescevano il proprio prestigio e, se giungevano a ricoprire uffici importanti, venivano insigniti d’un titolo nobiliare.
Accanto a questo ceto medio e all’aristocrazia, c’era un’altra classe benestante e privilegiata: il Clero. Napoli pullulava di edifici e istituzioni religiose. A metà del Seicento, nella sola Capitale, sorgevano più di cento conventi, in maggioranza domenicani, francescani, gesuiti. Alcuni risalivano al Medio Evo, molti erano stati innalzati dopo il Concilio di Trento. Il numero dei religiosi si faceva ammontare a trentamila su una popolazione che oscillava fra le duecento e le trecentocinquantamila anime. Essi non erano dediti solo alla preghiera e alle opere di carità, ma anche all’artigianato e al commercio. I gesuiti trafficavano in vino, altri ordini lavoravano l’oro e l’argento che i fedeli gli lasciavano per testamento, le monache confezionavano e vendevano biscotti, canditi, lasagne e altre leccornìe. La chiesa di Donnaromita si specializzò nella composizione di foglie di rosa candite, quella di Santa Caterina nella fabbricazione di tagliolini più fini di capelli, quella di San Potito acquistò rinomanza per il «casatiello», o torta pasqualina. Grazie a quest’imponente attività gastronomica, Napoli godeva la fama della città più buongustaia d’Italia.
Anche nel Reame, come nel resto della Penisola, gli ecclesiastici beneficiavano d’immunità e privilegi. L’alto Clero faceva concorrenza ai nobili nello sfoggio di ricchezza e di pompa e, non meno dei Principi e dei Baroni, era geloso delle proprie prerogative. Il Vescovo viveva da gran signore, teneva mensa imbandita, aveva uno stuolo di maggiordomi, cuochi e camerieri, era riverito e ossequiato dal Viceré, dall’aristocrazia e dalla plebe, che a lui ricorreva in occasione di carestie e cataclismi naturali.
Durante l’occupazione spagnola se n’abbatterono sulla città di terribili: tre volte Napoli fu squassata dal terremoto, una volta fu sconvolta dall’eruzione del Vesuvio, un’altra la sua popolazione fu decimata dalla peste. A far le spese di questi flagelli erano il «popolo» e il «popolino». Al popolo appartenevano bottegai, barcaioli, mulattieri, piccoli commercianti che guadagnavano abbastanza per campare ma non abbastanza per affrontare le conseguenze d’una calamità. Il popolino, che comprendeva la maggioranza degli abitanti, era una specie di sottoproletariato cencioso, diseredato, affamato, che viveva d’accattonaggio e d’espedienti, facile esca di suggestioni demagogiche e di mire sovversive. I Viceré lo tenevano a bada con piccoli sussidi ed elargizioni di vino e farina e se ne servivano, in caso di disordini, come contraltare alla nobiltà.
Questa plebe viveva nei «bassi», stipata in luride catapecchie, infette e fatiscenti, dove nemmeno la polizia osava entrare. Forniva i quadri alla malavita locale che nel Seicento, con la nascita della «camorra», così denominata da un’omonima bisca dove conveniva gente della peggior risma, si diede una vera e propria organizzazione gerarchica. I capi si chiamavano «guappi», indossavano abiti vistosi e sgargianti, assumevano pose minacciose e spavalde, camminavano col petto in fuori e le mani sui fianchi, seguiti da un codazzo di fedeli, armati fino ai denti. Non c’era ratto, omicidio, rapina in cui la camorra non avesse lo zampino. I suoi sicari venivano assoldati indifferentemente dai nobili, dagli Spagnoli, dai ricchi signori che trovavano molto comodo far liquidare un nemico dal guappo, che l’assoluta omertà della popolazione rendeva inafferrabile e metteva al sicuro da ogni sanzione. Talvolta la camorra assumeva le difese del debole, angariato ingiustamente dal potente che, con le buone o le cattive, più con queste che con quelle, doveva riparare il torto e risarcire la vittima, se non voleva rimetterci la pelle. Ma più spesso si comportava come un’associazione a delinquere, spiccia nei metodi, inesorabile negli odi, spietata nelle vendette. E tale s’è tramandata fino ai giorni nostri.
Governare in queste condizioni non era facile. I Viceré che s’avvicendarono a Napoli, salvo rare eccezioni, lasciarono di sé un pessimo ricordo. Venivano dalle file della nobiltà castigliana, erano completamente digiuni d’amministrazione, consideravano la loro carica un titolo da sfoggiare e una facile fonte di guadagno, badavano solo al proprio tornaconto e s’infischiavano dei bisogni dei sudditi. Valga per tutti l’esempio del Duca d’Ossuna, approdato a Napoli nel 1616, a bordo d’una lettiga. Combattendo in Fiandra s’era infatti ferito a una gamba e camminava con difficoltà. Aveva trentasette anni e tutte le stimmate dell’hidalgo. Di statura piuttosto bassa, bruno d’occhi e di capelli, olivastro di pelle, sfrontato, impulsivo, superbo, era dominato da un’ambizione sfrenata e da un’irresistibile inclinazione al bel sesso. Ecco il ritratto che di lui tracciò l’agente a Napoli del Duca d’Urbino: «I concetti di questo Viceré sono smisurati et degni d’un Alessandro Magno. Si è messo in animo di fabbricare et armar galeazze, et spera prender Costantinopoli, racquistar Gerusalemme, pigliar l’Albania et cose maggiori. Cominciò a far descrivere la gente di Napoli atta alle armi, poi à sopreseduto. Vuol far venire qua millecinquecento Valloni, cinquecento Alemanni et quattromila Spagnuoli et tener in ordine seimila regnicoli, per haver un esercito valente».
Era un esibizionista. Vestiva in modo eccentrico, ostentava gioielli di gran fattura, parlava a voce alta, apostrofava chi, incontrandolo per strada, non gli tributava il dovuto omaggio, si circondava di buffoni, faceva plateali elemosine, imbandiva banchetti pantagruelici e dava feste da mille e una notte. Ma sapeva anche guadagnarsi le simpatie popolari con gesti teatrali e demagogici. Un giorno, attraversando in carrozza il mercato, giunto davanti all’ufficio dove si riscuoteva il balzello sulla frutta, ordinò al cocchiere di fermarsi. Scese, sguainò la spada, e con un colpo netto recise le corde della bilancia su cui si pesava la frutta, esclamando: «Così si leva la gabella dei frutti; piuttosto perdi la vita che sopportarla». Con questi gesti da guappo si procurava i favori del popolino, di cui aveva bisogno per compensare l’odio che i nobili nutrivano per lui. Li trattava dall’alto al basso, li offendeva in pubblico e insidiava in privato le loro donne. Organizzava feste con prostitute e teppisti, che spesso degeneravano in orge e tafferugli. Qualche volta ci scappava anche il morto.
Fu la sua avidità a perderlo. In quattr’anni – quanti durò la sua missione – l’Ossuna non mandò in patria un solo rendiconto. Rubò a piene mani e fece rubare ai suoi amici. «Questi» scrive ancora l’agente del Duca d’Urbino, commentando il richiamo in Spagna del Viceré «è uno de’ gran matti ch’abbino mai governato questo Regno; e tutto quel ch’ha fatto per non partirsi di qua, è stata veramente pazzia, senza fondamento nissuno de potersi sostenere; ma l’amore grandissimo di dame ne dà gran cagione; con tutto ciò si porterà seco due cento mila ducati d’oro, senza quel che ha dissipato e dato via.»
Lasciando Napoli, giurò che vi sarebbe tornato per vendicarsi di coloro che avevano voluto, e ottenuto, il suo esonero. Ma non mantenne la parola perché un anno dopo essere rientrato in patria fu imprigionato. Ne aveva fatte troppe. I suoi successori ne faranno altrettante, e il Reame seguiterà a rotolare verso l’abisso, travolgendo l’economia e la società di tutto il Mezzogiorno.