Se l’Italia non era stata fra le maggiori vittime della Guerra dei Trent’anni, che l’aveva coinvolta solo marginalmente e di riflesso, ciò non vuol dire che non ne abbia anch’essa sofferto le conseguenze. Abbiamo già visto cosa quel conflitto costò al Piemonte, lo Stato italiano che vi si trovò più direttamente impegnato. Gli avventurosi Duchi di Savoia che avevano cercato di approfittarne per impadronirsi del Monferrato strappandolo ai Duchi di Mantova e riunire sotto la loro signoria tutta la regione, dovettero contentarsi di poche briciole e consegnare in cambio Pinerolo ai Francesi. Costoro, da questa testa di ponte, poterono sempre più sviluppare le loro interferenze nella Penisola per minarvi la supremazia spagnola. E questa lotta doveva continuare anche dopo la pace di Westfalia, accentuando le divisioni dell’Italia e precipitandola in un seguito di conflitti intestini, che non erano la guerra, ma non erano nemmeno la pace. Più che di grande politica, si tratta d’intrighi, che alla fine lasciarono le cose pressappoco come prima, ma che tuttavia logorarono vieppiù le residue forze del nostro esausto Paese.
La vittima più illustre fu Venezia. La sua diplomazia si era barcamenata saggiamente nel grande conflitto che opponeva gli Asburgo d’Austria e quelli di Spagna ai Valois francesi. Ma la divisione d’Italia e d’Europa le fu fatale nella lotta contro i Turchi all’assalto del suo impero mediterraneo. Di questo Impero, il puntello era l’isola di Creta. I Turchi la conquistarono di sorpresa nel 1645; ma la guarnigione della capitale, Candia, resisté. E Venezia, per sostenerla, mandò flotte su flotte. Lorenzo Marcello distrusse quella avversaria nell’Ellesponto, e Lazzaro Mocenigo forzò addirittura i Dardanelli mettendo il blocco a Costantinopoli. Entrambi persero la vita in queste sanguinose battaglie che testimoniavano l’indomito valore della marineria veneziana, ma nello stesso tempo la dissanguavano. Venezia aveva deciso questa resistenza a oltranza nella fiducia che prima o poi si riformasse il fronte cristiano che cent’anni prima aveva condotto al trionfo di Lepanto. Ma la speranza andò delusa. Quando, dopo ventitré anni di guerra nella città assediata, il comandante dell’eroica piazzaforte, Morosini, si arrese coi brandelli della sua guarnigione, Venezia aveva perduto centomila uomini e oltre duecento navi. Da questo colpo non si riprese più. Da allora, tutta la sua politica non sarà più che un’azione di retroguardia, volta non già a rilanciare la sua gloriosa avventura, ma a ritardarne la fine.
Gli altri Stati italiani facevano soltanto del piccolo cabotaggio. Abbiamo visto i Francesi approfittare dei dissidi fra i Savoia di Torino e i Gonzaga-Nevers di Mantova, titolari anche del Monferrato, per istallarsi a Pinerolo. Di lì a pochi anni s’impadronirono anche di Casale, mettendo così il Piemonte sotto il proprio controllo e tenendo sotto continua minaccia sia il governatorato spagnolo di Milano che la Repubblica di Genova, indipendente ma strettamente legata alla Spagna sin dai tempi di Andrea Doria.
Ma non si contentarono di questo. Con un improvviso attacco navale, occuparono anche Piombino e i cosiddetti «Presidi» della Maremma e dell’Elba. Dal punto di vista territoriale, non erano grandi conquiste. Ma lo erano dal punto di vista strategico perché quei capisaldi dominavano le rotte marittime fra Genova e Napoli. Poteva essere il principio di un sovvertimento di tutta la situazione italiana a pro della Francia, se questa non fosse caduta in preda alle convulsioni della «Fronda», che precipitò nuovamente il Paese nella guerra civile. Casale fu evacuata, mentre Piombino tornò nominalmente ai Ludovisi, ma di fatto alla Spagna, loro protettrice. Ma intanto, di tutti questi subbugli provocati dalla interminabile rissa franco-spagnola, avevano cercato di approfittare gli altri potentati. Nei capitoli che abbiamo loro singolarmente dedicato, abbiamo fatto cenno di queste piccole avventure. Rivediamole nel loro insieme.
Saldo nei suoi possedimenti garantitigli dalla Spagna, il Papato non perdeva occasione per cercar di dilatarli a spese dei vicini. Al Lazio, all’Umbria, alle Marche, a un bel boccone dell’Emilia Romagna, nel 1598 esso aveva aggiunto Ferrara approfittando di una complicata questione di successione per toglierla agli Este, cui rimasero soltanto Modena e Reggio. Nel 1631 si era annesso Urbino, soffiandolo al Granduca di Toscana. Nel 1649 riuscì finalmente a incamerare anche Castro, il feudo laziale dei Farnese contro cui invano si era avventato pochi anni prima Urbano VIII.
Gli Este si fecero compensare dai protettori spagnoli, che sovrintendevano a tutte queste transazioni, con l’assegnazione di Correggio. I Gonzaga riebbero Casale, sgombrata dai Francesi. Quanto al Granduca di Toscana che, confinando con gli Stati pontifici, si considerava il più minacciato dal loro accrescimento, ricevette come contentino le contee maremmane di Pitigliano e di Santa Fiora, e Pontremoli nella Lunigiana, antichissimo feudo dei Malaspina.
Erano cambiamenti che non cambiavano nulla. Quelli che passavano da una mano all’altra non erano degli Stati, e nemmeno dei Comuni o dei Municipi, ma solo delle «fattorie» che i vari Signori consideravano loro privato patrimonio. Tutti i nuovi equilibri che questi baratti creavano erano momentanei e non incidevano minimamente sulle sorti del Paese, che sempre più volgevano al peggio.
Prima della Guerra dei Trent’anni infatti l’Italia esercitava ancora un certo peso. Venezia era una grande potenza, la capitale di un vasto Impero coloniale, con cui l’Europa doveva fare i conti. In campo spirituale, la Controriforma aveva rifatto di Roma un caput mundi, e sia pure di un mondo mutilato qual era quello cattolico dopo la grande divisione operata da Calvino e da Lutero. In campo culturale, il primato italiano restava, sia pure solo per forza d’inerzia, cioè di tradizione. Malgrado i suoi Galilei, i suoi Sarpi, i suoi Bernini, i suoi Monteverdi, l’Italia non era più quella del Cinquecento. Ma il prestigio perdurava. L’italiano era ancora la lingua della intellighenzia e delle Corti europee. Il nazionalista Shakespeare, nei suoi drammi e commedie, non si stanca di avventare strali contro i suoi compatrioti che per snobismo usano parole italiane e ostentano modi e vezzi italiani. La «rifinitura» di un uomo di mondo e il completamento della sua educazione era il viaggio in Italia.
La Guerra dei Trent’anni segna lo spartiacque e dà l’avvìo al grande declino. Venezia rimane una città opulenta, fastosa e festosa; ma il suo Impero non è più il Mediterraneo, che del resto ha ceduto la sua corona di «Re dei mari» all’Atlantico; è soltanto l’Adriatico. Quanto a Roma, i fatti dimostrano che il suo primato spirituale, nella stessa area cattolica, era condizionato dal potere materiale della Spagna, e con esso tramonta. Il Papato, che con la Controriforma aveva creduto di riprendere l’iniziativa e di poter ricreare in Europa un’atmosfera di crociata, dopo la pace di Westfalia si trova ridotto, come influenza, al livello di uno dei tanti Stati italiani; ed ecco perché come essi si abbandona a una politica famelica di annessioni territoriali.
Questa involuzione la si nota financo nella decadenza fisica delle dinastie italiane. Gli Este, i Gonzaga, i Farnese, che nel Quattro e nel Cinquecento avevano sfornato splendidi archètipi di condottieri, magari brutali e crudeli, ma fisicamente gagliardi e carichi di aggressiva energia, sono ora rappresentati da delle specie di mongoloidi, minati da tare ereditarie. L’ultimo Medici che fa onore al nome è Ferdinando II. Dopo di lui, sarà un seguito di degenerati fino all’estinzione della casata.
Ciò non rappresenta una semplice curiosità patologica. Ha il suo peso in una politica personalizzata come quella degli Stati italiani, che quasi dovunque s’identificano col Signore, anzi non rappresentano – come abbiamo detto – che il suo privato patrimonio. Questo, si dirà, è un tratto comune anche alla Francia, dato il carattere assolutistico della sua monarchia. Ma la Francia era ormai una Nazione, che già esprimeva delle classi dirigenti. I suoi Re, anche quando non li amavano, dovevano subire i Sully, i Richelieu, i Mazarino, i Colbert, che rimediavano alle deficienze dei loro sovrani.
In Italia l’unica città che potesse produrre di questi uomini era Venezia, data la sua struttura oligarchica che, almeno nell’ambito delle sue «grandi famiglie», poteva procurarsi i necessari ricambi. Venezia non era il Doge, figura soltanto rappresentativa e simbolica, ma un insieme di Magistrature elettive che da una parte controllavano il potere, dall’altra servivano a selezionarne gli aspiranti. Il filtro non era automatico e perfetto. Come in tutti i regimi e in tutti i tempi, anche a Venezia l’intrigo e la malizia avranno spesso avuto la meglio sul valore e sui meriti. Ma il regime ammetteva una libera competizione, forniva una palestra, garantiva una rotazione. E questo è il segreto della lunga durata della Serenissima.
Nulla di tutto questo avveniva negli altri Stati italiani. A impedirlo non era l’assolutismo che poteva anche spalancare le porte alla collaborazione di uomini energici e preparati. Lo si stava vedendo, come abbiamo detto, in Francia; lo si sarebbe visto nel secolo successivo nella stessa Italia, specie nella Firenze di Leopoldo, il sovrano illuminato che seppe appaltare le proprie riforme agli uomini più adatti selezionandoli indipendentemente dal loro rango sociale. A impedirlo era un altro motivo: il fatto che, nell’Italia del Seicento, il potere rappresentava l’unica industria redditizia, e quindi la classe che ne deteneva il monopolio non era disposta a rinunciarvi per nessuna ragione al mondo. Negli altri Paesi era ormai cominciata la grande avventura capitalistica e coloniale che offriva larghe e remuneratissime possibilità a chiunque fosse dotato d’iniziativa. Più che a diventar «funzionari», l’Inglese e l’Olandese miravano a diventare armatori, a impiantare fabbriche, a impossessarsi dei commerci con l’India o l’Insulindia. Gli stessi Spagnoli e Portoghesi avevano il grande sbocco dell’America latina, dove c’erano da accaparrare miniere e latifondi. Gl’Italiani vivevano in piccoli mondi asfittici e senza sbocchi. Tutta la loro ricchezza era investita in terre che davano scarsi utili per le ragioni che diremo nel capitolo seguente. Per integrare questi redditi miserelli, alle classi privilegiate non restava che scalare qualche pubblico ufficio. La sete del «posto» che caratterizza gl’Italiani, specie i meridionali, nacque allora. E allora nacque lo strano concetto che del posto hanno gl’Italiani, non come di un «servizio», ma come di una greppia o licenza di sfruttamento. Il privilegio si manifestava così: come un titolo, spesso ereditario, all’accaparramento di tutti i pubblici uffici, compresi quelli degli enti caritativi e assistenziali. Coloro che detenevano questa esclusiva la difendevano puntigliosamente da qualsiasi intromissione di estranei. Perfino la gestione dei Monti di Pietà era una privativa di casta. Era questo che rendeva così sclerotica la società italiana e così povera di ricambi. Dal Papa al Duca di Mantova, i signorotti che sgovernavano l’Italia erano prigionieri di queste mafie e camorre che col monopolio del potere si tramandavano di padre in figlio il diritto di abusarne. Ed ecco perché le loro personali tare e deficienze erano più catastrofiche di quanto non fossero là dove si poteva attingere ad altri serbatoi, e specialmente a quelli della cultura e della tecnica.
Ma questa malformazione rischia di restare incomprensibile se non ci si rifà alla situazione economica che la provocava.