CAPITOLO SEDICESIMO

SARPI

Nel 1605, alla morte di Leone XI ch’era durato in carica appena tre settimane, venne eletto al Soglio il cardinale Borghese, che prese il nome di Paolo V. Nel capitolo sugli Stati pontifici, abbiamo già detto di lui e della sua concezione assolutistica. Secondo Paolo il Pontefice era effettivamente il Vicario di Cristo, e quindi ogni offesa a lui era bestemmia da chiunque venisse, anche dai Principi e dai Re. Era l’atteggiamento, portato a conseguenze estreme e quasi caricaturali, della Chiesa controriformista. Paolo fu subito in guerra con tutti gli Stati italiani che tentavano di difendere un barlume di autonomia. Scomunicò il Reggente di Napoli perché aveva condannato un notaio ecclesiastico; minacciò i Savoia, Lucca, Genova che intendevano regolare secondo la loro legge certe questioni amministrative. Ma lo scontro frontale l’ebbe con Venezia.

La Serenissima era il solo Stato italiano – lo abbiamo già detto – che fosse riuscito a conservare, fra Chiesa e Spagna, una certa indipendenza. Gli ambasciatori di Roma e di Madrid erano accolti con grandi inchini e riverenze. Ma poi, come oggigiorno quelli occidentali a Mosca, si trovavano intorno il vuoto perché chiunque intrattenesse rapporti con loro finiva nei Piombi. Il governo dogale non perdeva occasione di dichiarare al Papa la sua profonda devozione. Ma nemmeno perdeva occasione di affermare la superiorità delle leggi dello Stato su qualunque altra. Così, per esempio, ultimamente aveva proibito a tutti di costruire chiese e di cedere al Clero beni immobili senza il permesso dell’autorità, e aveva sbrigativamente messo in galera due ecclesiastici per ripetute e riconosciute infrazioni al codice penale.

Paolo considerò queste misure un affronto alla Chiesa. Reclamò perentoriamente che le due leggi venissero revocate e che i due ecclesiastici fossero consegnati a lui. Ma si trovò di fronte un Doge che aveva dello Stato la stessa concezione che lui aveva della Chiesa, e che proprio per questo era giunto al potere supremo: Leonardo Donà. Costui non si contentò di respingere le pretese del Papa. Volle anche contestarle sul piano giuridico in modo da toglier loro ogni validità anche per il futuro. E ne affidò l’incarico a un frate che già aveva reso segnalati servigi in questo senso come teologo-canonista della Repubblica: Paolo Sarpi.

Il Sarpi era figlio d’un commerciante friulano andato in rovina per speculazioni sbagliate. Ma a educarlo aveva provveduto un suo zio, fratello della madre, direttore d’un collegio frequentato dalla migliore gioventù veneziana. Paolo aveva avuto per condiscepoli dei Contarini e dei Morosini, ma non s’era lasciato sopraffare dalla tentazione di mettersi sul loro livello sociale. Stava in disparte, silenzioso e solitario, e lo chiamavano «la vergine» per via della sua puntigliosa castità, che specie nella Venezia di quei tempi rappresentava un’autentica anomalia. A quindici anni era entrato in un convento di serviti, e dapprincipio si era orientato verso gli studi scientifici. A quelli filosofici e teologici arrivò più tardi, dopo aver scritto un trattatello sul problema della conoscenza, che alcuni suoi ammiratori considerano un’anticipazione delle teorie di Locke. Ma non è così: quel libretto non anticipa nulla e vale poco.

Paolo lo compose al ritorno da Roma, dove il suo Ordine lo aveva mandato come procuratore. Era il momento in cui Sisto V cercava di dare un contenuto spirituale alla Chiesa della Controriforma con una bonifica dall’interno che non si limitasse alle strutture organizzative. Paolo partecipò con fervore a quel travaglio e si legò di stretta amicizia con un gesuita per il momento ancora sconosciuto e con cui più tardi si sarebbe trovato in ben altri rapporti: Bellarmino. Entrambi erano partigiani di una Chiesa più impegnata nel campo morale e più disimpegnata in quello mondano. Ed entrambi furono delusi dalla morte di Sisto e dall’elezione di Urbano VII, che appariva l’uomo meno adatto ad attuare quella riforma. Paolo non aveva simpatizzato con l’Urbe e tanto meno con la Curia. Quei grassi preti romani unicamente intesi al potere e alla ricchezza lo avevano disgustato.

Era stato per questo, cioè per trovarvi una distrazione, che si era dato alla scienza. Non vi raggiunse risultati, ma vi fece degl’incontri che certamente contribuirono al suo deviazionismo. Il più importante fu quello con Galileo, che allora insegnava a Padova e che, pur non essendo ancora caduto in sospetto di eresia, vi si stava avviando per le sue convinzioni copernicane. Diventarono grandi amici e si scambiarono lettere sul problema della caduta dei corpi nello spazio. Ma ora altri interessi stavano prendendo in Paolo il sopravvento. La Repubblica lo aveva assoldato come consulente nelle sue vertenze con l’autorità ecclesiastica. Paolo vi si mostrò subito agguerritissimo e vi guadagnò tale prestigio che il governo propose la sua nomina a Vescovo di Nona. Ma il Papa rifiutò.

Qualcuno dice che fu questo sgarbo a fare del frate un ribelle. Ma non è che una comoda semplificazione. Può darsi che lo sgarbo abbia contribuito. Ma esso sopravvenne quando il Sarpi aveva già assunto un atteggiamento molto preciso contro le pretese ecclesiastiche. I punti di attrito non mancavano. Il Clero veneto era uno dei più ricchi d’Italia: le sue entrate superavano i dieci milioni di ducati, una cifra – per quei tempi – colossale. Da sempre il governo vi prelevava una «decima», cioè una tassa che non superava i dodicimila ducati, una briciola, che tuttavia la Chiesa considerava arbitraria. Sarpi sosteneva che arbitraria era soltanto l’esenzione che il governo accordava agli alti prelati, i quali, secondo lui, andavano più severamente tassati del basso Clero. Ma, oltre a questo, c’era il problema dei libri. Dal grande Manuzio in poi, che ne aveva fornito modelli d’insuperata eleganza, Venezia era rimasta la capitale dell’editoria. I due terzi di ciò che si stampava in Italia, si stampava lì. Ma questa industria, da cui dipendeva lo sviluppo culturale del Paese – e forse proprio per questo – era continuamente minacciata di crisi dall’Indice romano che colpiva spietatamente qualsiasi opera non assolutamente conformista mettendola al bando e ordinandone il ritiro. Esso non ammetteva che messali e breviari, e per cautelarsi contro la farina del diavolo aveva ordinato che tutti i libri colpiti da censura venissero ristampati a Roma. Il governo veneziano si era accorto che i funzionari dell’Indice graduavano la loro severità secondo le «bustarelle» delle varie tipografie dell’Urbe dove, come al solito, la bigotteria dava una mano alla ladroneria.

Il vaso quindi era già colmo quando il Papa ingiunse al governo veneto di consegnargli i due ecclesiastici già arrestati, pena la scomunica del Doge e l’interdetto contro la Serenissima, cioè il divieto di esercitarvi i servizi divini. La minaccia era grave anche per i suoi riflessi politici. La Repubblica confinava col Ducato di Milano, roccaforte degli Spagnoli. E gli Spagnoli avevano sempre agito da braccio secolare della Chiesa. Ma Donà e il governo non vacillarono nemmeno di fronte a questo pericolo. Confermarono le loro leggi, rifiutarono la consegna dei galeotti e quando il Papa, trascorsi i termini dell’ultimatum, lanciò l’interdetto, ordinarono al Clero d’ignorarlo. I gesuiti esitarono, e solo su un perentorio ordine del Papa abbandonarono la Serenissima che si affrettò a lanciare contro di loro un bando perpetuo. I teatini e i cappuccini li seguirono di malavoglia. Ma tutto il resto del Clero si schierò con la Repubblica e seguitò a svolgere le sue funzioni.

Sarpi, chiamato a difendere l’operato del governo sul piano teologico, capì immediatamente che quella era la grande occasione non per liquidare un incidente, ma per porre in termini di dottrina e su basi permanenti il problema del giurisdizionalismo, cioè dei rapporti fra Chiesa e Stato. La passione con cui si gettò in questa impresa testimonia la forza delle sue convinzioni. Il compito non era facile perché anche Roma, per far valere i suoi argomenti, aveva mobilitato il suo controversista più agguerrito: il cardinale Bellarmino. E così i due vecchi amici si ritrovarono dalle due parti della barricata, e bisogna dire che dell’amicizia si ricordarono poco.

Tuttavia la prima battaglia il Sarpi dovette combatterla non tanto contro il suo avversario quanto contro gli stessi giuristi veneti, renitenti a una polemica col Papa che rimettesse in discussione il suo primato assoluto in tutti i campi. Fra’ Paolo fu reciso. Disse che se si ammetteva quel principio, tanto valeva arrendersi senza condizioni. Ma questo, aggiunse, era tradimento dello Stato (e di uno Stato – sottintendeva – che i traditori li aveva sempre mandati al patibolo senza pensarci due volte). Eppoi, continuava fra’ Paolo, non era il primato del Papa che bisognava discutere; ma l’esenzione degli ecclesiastici dalle leggi dello Stato. Nemmeno lo Stato potrebbe accordarla, perché ciò facendo verrebbe meno al mandato affidatogli da Dio: quello di emanare e di far valere la legge su qualsiasi interesse privato di laici o di ecclesiastici. Questo, dice Sarpi, è insieme il fondamento, la giustificazione e la missione dello Stato.

Sarpi svolse queste tesi, assolutamente rivoluzionarie nell’Italia di allora, nelle Considerazioni sopra le censure della Santità di Papa Paolo V contro la Serenissima Repubblica di Venezia, cui seguirono l’Apologia per le opposizioni dell’Illustrissimo e Reverendissimo Cardinal Bellarmino e il Trattato dell’Interdetto. Erano scritti fortemente polemici in cui il Sant’Uffizio ravvisò plurima temeraria, calumniosa, scandalosa, seditiosa, schismatica, erronea et haeretica. Invitato a presentarsi a Roma per rispondere di questi delitti, fra’ Paolo naturalmente rifiutò, rispose per le rime e fu scomunicato. Ma quella «guerra delle scritture», come fu chiamata, aveva raggiunto lo scopo che il ribelle, scatenandola, si era proposto: la «contesa dell’Interdetto», da piccolo episodio di cronaca locale, era diventato un «caso» mondiale, su cui l’intera Europa si era divisa. L’Inghilterra e l’Olanda acclamavano il Sarpi chiamandolo «il piccolo Lutero d’Italia», e poco mancò che quella diatriba anticipasse la Guerra dei Trent’anni. Comunque, a correre non fu solo l’inchiostro. Nell’autunno del 1607, l’intrepido frate fu aggredito da alcuni sicari, pugnalato e lasciato per morto. Guarì invece delle ferite, e si dice che commentasse: «Riconosco lo stile della Curia romana», giuocando sul doppio senso della parola «stile» che significa anche «stiletto».

L’attentato aveva molto contribuito alla popolarità del Sarpi in Europa, ma arrivava troppo tardi per la vittoria della sua causa. Malgrado la sua ostinatezza, anche il Papa si era reso conto della gravità della situazione. Se si fosse rivolto alla Spagna per infliggere un castigo a Venezia, questa si sarebbe rivolta alla Francia di Enrico IV, in cerca di pretesti per intervenire nella Penisola. Non solo. Ma si correva anche il rischio che la Serenissima, moralmente e diplomaticamente sostenuta dai Paesi protestanti, ne adottasse anche la religione. La città formicolava di agenti inglesi e olandesi, e dai loro rapporti risultava che specialmente l’aristocrazia, cioè la classe dirigente, era fortemente tentata dal calvinismo e propendeva per un aperto scisma.

Per quel Papa prepotente il compromesso dovett’essere un amaro boccone. Lo fu anche per i Veneziani più attaccati alla causa del laicismo. Ma bisognava arrendersi alla ragion di Stato: la massa della popolazione era pur sempre cattolica, e una guerra di religione sarebbe stata anche una guerra civile. Le trattative furono lunghe: ambedue le parti dovevano salvare la faccia, e non era facile, specie per quanto riguardava i due preti prigionieri. Finalmente fu trovata una di quelle scappatoie che i diplomatici considerano geniali mentre a noi sembrano soltanto farsesche. I Veneziani «regalarono» i due galeotti all’ambasciatore di Francia, il quale a sua volta li regalò a un messo del Papa. In compenso Venezia ribadiva le leggi di cui le era stata intimata l’abrogazione, non riconosceva la scomunica considerandola non soltanto nulla, ma mai pronunciata e, pur concedendo il permesso di ritorno ai cappuccini e ai teatini, confermava il bando ai gesuiti.

Questa soluzione era una vittoria per la Serenissima, ma una delusione per Sarpi, che aveva sperato di vedere sboccare quel conflitto in un vero e proprio distacco dalla Chiesa. Sebbene qualcuno lo abbia negato, il suo epistolario coi protestanti d’Olanda e d’Inghilterra parla chiaro: Sarpi era uno dei pochi italiani che avevano capito l’inconciliabilità di uno Stato libero e di una società ordinata e civile col cattolicesimo della Controriforma. E nessuno oggi può dire che cosa avrebbe rappresentato per l’Italia una Repubblica veneta che fin d’allora avesse ripudiato i legami con Roma e fosse diventata il focolare delle libertà laiche.

L’indomito frate continuò la battaglia per conto suo. Non ve lo spingeva di certo l’amore della popolarità. Viveva in disparte, chiuso nel suo convento, da cui non era riuscita a cacciarlo nemmeno la scomunica perché i serviti, solidarizzando con lui, l’avevano ignorata. Non era nemmeno uomo da covare illusioni. Anzi, freddo e distaccato com’era, sui risultati pratici della propria azione si mostrava piuttosto pessimista. Ma a spingerlo era la sua coscienza cristiana. «Se sarà guerra in Italia» scriveva a un amico francese «va bene per la religione: l’Inquisizione cesserà e l’Evangelio avrà corso.»

Purtroppo fu proprio il Re di Francia, quell’Enrico IV che pure in gioventù era stato ugonotto e di cui si diceva che conservasse rimpianti calvinisti, a infliggere un duro colpo al frate ribelle. Egli intercettò e consegnò al nunzio pontificio a Parigi una lettera del Diodati, corrispondente del Sarpi, in cui tutta l’opera di proselitismo che costui stava svolgendo veniva descritta nei suoi particolari. L’emozione fu grande, sia a Roma che a Venezia. Tutti i timorati e benpensanti della Repubblica videro in Sarpi un perturbatore della pubblica quiete, un fomentatore di «grane», e gli fecero il vuoto intorno. Era un brutto momento, per lui. In tutta Europa spirava aria di bonaccia. Con Enrico IV, pugnalato da un frate, scompariva non soltanto il delatore del Sarpi, ma anche il grande rivale e concorrente della Spagna. Gli amici protestanti d’Inghilterra e Olanda abbandonavano la Serenissima per mancanza di prospettive di azione concreta. Galileo, con cui fra’ Paolo aveva serbato stretti rapporti, aveva lasciato Padova per Firenze. Ma il Sarpi non per questo si scoraggiò. E quando l’ambasciatore d’Inghilterra venne a portargli un messaggio di re Giacomo che gli consigliava di cambiar aria e di trasferirsi suo ospite a Londra, rifiutò. Aveva trovato un altro campo di battaglia: la Storia.

Quello stesso ambasciatore inglese, Carleton, si arrogò più tardi il merito di aver suggerito al Sarpi l’idea di scrivere una storia del Concilio di Trento e di avergliene fornito il modello nel libro di un suo cugino, ministro anglicano. Ma si tratta di millantato credito. Sarpi aveva già raccolto parecchio materiale sull’argomento perché si era sempre vivamente interessato al Concilio, in cui vedeva – giustamente – la grande svolta, l’avvenimento più decisivo della storia moderna. Conosceva anche di persona alcuni suoi protagonisti, fra i quali l’amico-nemico Bellarmino. Quando nel 1614 si sparse la notizia ch’egli aveva posto mano a quel lavoro, tutta la cultura europea ne trasalì. Una storia del Concilio degna di questo nome ancora mancava, e Sarpi era considerato per la sua indipendenza e serietà l’unico che potesse scriverla. I protestanti trepidarono per lui, e specialmente re Giacomo lo bersagliò di lettere, sollecitandolo di nuovo a trasferirsi a Londra o per lo meno a mandargli i fascicoli del lavoro, via via che lo componeva, per sottrarlo alle insidie dell’Inquisizione.

A tanto orgasmo Sarpi oppose una pazienza che gli valse aspre critiche. Lo accusavano di freddezza e indecisione, spesso dubitando che avesse abbandonato il lavoro per mancanza di coraggio. Il fatto è ch’egli sentiva l’importanza di quella impresa che richiedeva una documentazione coscienziosa e gran controllo critico. Quanto profondamente vi si sentisse impegnato, lo dice nella prefazione: «Raccontarò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di ventidue anni, per diversi fini e con vari mezzi da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni diciotto ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al disegno di chi l’ha procurata e al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento per rassignare li pensieri in Dio e non fidarsi della prudenza umana».

Dedicò al lavoro quattro intensi anni. Poi affidò il manoscritto (o una copia) a un Inglese mandato apposta per ritirarla dall’Arcivescovo di Canterbury che lo fece stampare a Londra: nessun editore italiano avrebbe osato farlo. Il successo fu pari all’attesa che, data la situazione, era immensa: s’era alla vigilia della guerra che per trent’anni doveva fare dell’Europa un rogo di passioni religiose. Sarpi aveva dunque scelto il momento giusto.

Non riassumeremo il suo libro, che seguita a essere oggetto di vivaci polemiche. Seguendo il loro solito cavilloso metodo, i gesuiti ne denunziarono immediatamente le inesattezze, come avevano fatto per demolire la versione biblica di Erasmo. E come in Erasmo, può darsi che anche in Sarpi delle inesattezze ci siano. Ma come Erasmo, anche Sarpi esce trionfante da questo assalto di pedanti. La sua Storia ha certamente dei difetti. Approfondisce poco le questioni dogmatiche, e riduce a una battaglia puramente verbale perfino quella sull’Eucarestia. Non sempre lo scrupolo di oggettività dello storico ha la meglio sui suoi risentimenti polemici.

Sono difetti da cui nessun libro di storia è mai del tutto immune, e che scompaiono di fronte agl’immensi pregi del Sarpi. Il suo coraggio anzitutto, cioè la sua libertà. Sarpi non paga pedaggio a nessuna censura né esterna né interna: obbedisce soltanto al suo cervello e alla sua coscienza. I suoi errori – se ne commette – sanno di bucato: non sono mai suggeriti da paura o da calcolo. E questa sincerità si riflette anche nell’impasto della sua prosa, nel suo calore di convinzione, nel suo ritmo serrato. La sua è una storia di uomini, colti in tutti i loro aspetti grandi e meschini. Mai ch’essa degeneri in astratto dibattito o che si perda in retorici moniti. Niente letteratura, che è poi l’unico modo di far buona letteratura. Sarpi va subito all’osso. Il suo bersaglio, più che la dottrina della Chiesa, è il Papato, e lo s’individua subito. Il suo anticattolicismo, prima ancora che dichiarato, è implicito nella insofferenza di quest’uomo, che traspare chiaramente da tutta la sua prosa, a una fede imposta dall’alto, puntigliosamente dettagliata nei suoi articoli come un codice, ridotta a pura osservanza di pratiche liturgiche, che non concede libertà di parola alla coscienza né spazio a un dubbio. Questi rimproveri Sarpi li muove imparzialmente anche a un certo dogmatismo protestante. Il suo contraddittore Bellarmino, da buon gesuita rotto al cavillo, ha un bell’inchiodare il Sarpi sul particolare teologico. La sua argomentazione sarà anche dottrinariamente ineccepibile, ma sotto ci si sente l’uomo di Chiesa, cioè non libero. In Sarpi si sente l’uomo, e basta. E la storia, fra i due, ha giudicato: di Bellarmino rimane solo l’Inquisitore; di Sarpi, rimane tutto lo scrittore.

Il rumore suscitato da quel libro fu presto sopraffatto da quello della guerra che scoppiava. Ma Sarpi non se ne dolse. Anzi. In quella guerra aveva investito tutte le sue speranze, compresa quella che Venezia v’intervenisse schierandosi dalla parte dei protestanti. La battaglia della Montagna Bianca, che vide il trionfo degli eserciti cattolici, fu per lui un amaro disinganno. I «papalini» ripresero il sopravvento nel governo e nell’opinione pubblica della Serenissima, e il nunzio apostolico riferiva a Roma in tono trionfante che fra’ Paolo era odiato da tutti, nobili e popolo. C’era anche da sperare, aggiungeva il prelato con squisito senso cristiano, che ormai il reprobo, in là con gli anni (ne aveva settanta) e piuttosto malandato, ne avesse per poco. E quindi consigliava di «recuperarlo» in modo che non diventasse, da morto, l’eroe di un’apostasia. Per due volte la Curia invitò fra’ Paolo a Roma impegnandosi a rispettarne la vita e la libertà in cambio di un atto di sottomissione. E per due volte fra’ Paolo rifiutò.

Morì nel 1623, nella cella e tra i fedeli monaci del suo convento. La Repubblica, che non aveva mai riconosciute le scomuniche lanciate dal Papa, e quindi nemmeno quella che aveva colpito il Sarpi, fece stendere una relazione sulle ultime ore di fra’ Paolo, da cui risultava che questi era spirato secondo tutte le regole chiedendo i sacramenti e rivolgendo gli ultimi pensieri alla Chiesa e alla Patria. Ma l’estensore di quell’atto fece poi sapere che il Sarpi invece, in perfetta coerenza con le sue idee, i sacramenti li aveva rifiutati, meno la comunione.

Così finì l’ultima grande coscienza italiana scampata alla Controriforma.