CAPITOLO DICIASSETTESIMO

LA RIVOLTA DELLA RAGIONE

Come devastazioni, la Guerra dei Trent’anni detiene forse un primato assoluto nella storia. Come abbiamo già detto, alcuni Paesi ne uscirono letteralmente distrutti, come la Boemia che vi perse i tre quarti dei propri abitanti. Le Nazioni che avevano preso parte a quel «sacro macello» ne emersero imbarbarite. Ma a fare le spese di quella interminabile guerra di religione fu anche la religione.

Il fenomeno è abbastanza facile da capire. Sebbene a prendervi il sopravvento fossero poi stati tutt’altri interessi, di potere e di ragion di Stato, il conflitto era nato come regolamento di conti fra le due Chiese, quella cattolica e quella protestante, e appunto per questo era stato così lungo, accanito e micidiale. Ma proprio negli orrori che provocava, il fanatismo trovava il suo contravveleno. Questi orrori non erano soltanto le stragi e le razzie degli eserciti che scorrazzavano come orde imbestialite dal Danubio al Mare del Nord. Erano anche gli eccessi cui si abbandonavano gli zelatori dell’uno e dell’altro credo, sospinti dal furore della lotta e travolti da quell’orgia di sangue. È il momento della «caccia alle streghe», nelle quali la superstiziosa mente popolare incarna le proprie calamità. L’Europa, intendiamoci, conosceva di già questo flagello. Ma ora esso diventa febbre, delirio, manìa collettiva, al cui contagio non sfuggono nemmeno uomini di cultura e prelati d’alto bordo. C’è chi v’impegna addirittura un’ambizione agonistica come il Vescovo di Würzburg che rivendica il primato dei roghi per averci mandato oltre mille disgraziati, fra cui anche dei bambini. Ma un persecutore lorenese glielo contende vantandosi di averne accesi di più. L’iniziativa privata trova in questo lugubre sport il più fertile dei terreni: ognuno ha la sua strega da bruciare, e ognuno può diventare la strega di qualche altro.

Di fronte allo spettacolo di questa umanità impazzita, sempre più un dubbio s’insinua e una domanda ronza nella mente degli uomini, vittime e carnefici: «Ma che Dio è, un Dio nel cui nome si possono commettere simili massacri e crudeltà, e che li consente?». Se lo chiedono sia i cattolici che i protestanti. Ed è naturale che gli uni e gli altri siano portati a riconsiderare le rispettive posizioni. Il grande accusato, in questo processo, è naturalmente l’intransigenza. Così Ignazio di Loyola e Calvino si trovano sullo stesso banco. E la gente si accorge che si somigliano come due gocce d’acqua.

Questa non è, si capisce, che una schematizzazione. Ma il fenomeno, ridotto all’osso, è questo. Dopo tanto sangue, l’Europa cominciava a domandarsi, da una parte e dall’altra della barricata, se la teologia giustificasse un tale salasso.

La prima risposta era venuta implicitamente da Erasmo, ma troppo presto. Per sua disgrazia, il grande umanista fiammingo aveva lanciato la sua invocazione di pace nel momento in cui i furori teologici dirompevano, e la sua voce si era persa nei clamori della battaglia che cominciava. Ma proprio mentre questa toccava la sua acme nelle grandi guerre della seconda metà del Cinquecento fra Riforma e Controriforma, c’era già qualcuno che ne denunciava tutta la futilità. Montaigne, fra gli altri e sugli altri.

Che questo richiamo alla misura e alla saggezza venisse dalla Francia, ha il suo perché. Diviso fra cattolici e protestanti, quello era anche il Paese che più aveva bisogno di trovare fra di essi un terreno di conciliazione. E la conciliazione esigeva una lotta a fondo contro il fanatismo dell’una e dell’altra parte. Montaigne non lo combatté di proposito e per cosciente calcolo politico. Era, come oggi si direbbe, uno scrittore «disimpegnato», che non si arruolò sotto nessuna bandiera. Ma proprio qui sta il suo valore di esempio, in un momento in cui per tutta l’Europa risuonava il grido, il solito grido che dacché mondo è mondo annunzia i massacri e gli fa da alibi: «Chi non è con noi, è contro di noi». Montaigne insegnò che si poteva, anzi si doveva, non essere con nessuno. E in mezzo a quei suoi contemporanei ubriachi di Dio fino al punto di massacrarsi in suo nome gli uni con gli altri, rispolverò Socrate «che aveva fatto calare la saggezza umana dal cielo, dove s’era persa così a lungo, per restituirla all’uomo». Non era né contro i cattolici né contro i protestanti. Era contro il loro dogmatismo, cui contrapponeva il proprio dubbio. «Non so nulla» diceva con Socrate e Pirrone «non so nemmeno se abbia ragione Copernico o Tolomeo. Propendo per Copernico. Ma può darsi che di qui a mille anni scopriremo che avevan torto entrambi e che questo enorme corpo da noi chiamato Mondo è un genere di cosa assolutamente diversa da quella che tutti crediamo.»

Ecco in cosa consiste il suo cosiddetto «scetticismo». Glielo suggerisce la storia dell’uomo. Ogni volta, dice Montaigne, questo stupido bipede pretende di aver scoperto la Verità e il Bene definitivi e assoluti; e ogni volta suo figlio o suo nipote gli dimostrano che non è vero. Un po’ di modestia non farebbe male. Oltre tutto, essa impedirebbe agli uomini di avere delle proprie opinioni un’opinione così alta da sentirsi autorizzati ad arrostire coloro che non le condividono. Richiamo pertinente in quell’epoca di roghi.

Montaigne fu il padre del «memorialismo»: quello che ne dettò il modello a Saint-Simon e agli altri. Forse non fu un grande filosofo. Ma molti filosofi del Sei e del Settecento, senza Montaigne, non sarebbero diventati grandi. Più che all’altezza del pensiero la sua influenza fu dovuta alla perfezione della sua prosa, una perfezione assoluta perché assolutamente immune da letteratura. Montaigne non scrive; parla. I suoi Essais (per i quali daremmo a occhi chiusi tutta la produzione italiana del Seicento, meno Galileo) sono una conversazione diretta, intima, familiare. Leggerlo è come andare a braccetto con lui che ci parla di tutto, ma specialmente di se stesso, e non soltanto delle sue idee, ma anche dei suoi personali triboli, in cui riconosciamo i nostri. Il lettore non creda che tanta spontaneità fosse un dono di natura: non lo è mai. Montaigne stesso racconta, ridendo, come nei suoi primi componimenti egli si fosse compiaciuto di lardellare le sue pagine di svolazzi, ribòboli e soprattutto di citazioni dai classici che fanno tanto «cultura». Poi s’era accorto della pacchianeria di tutto questo, e se n’era liberato, ma non senza lotte e difficoltà. «Sentii» dice «di aver raggiunto il vero stile, quando riuscii a parlare alla carta come faccio con la prima persona che incontro.» Se gli scrittori italiani avessero udito queste parole e ne avessero fatto tesoro, quanti secoli di retorica e di pedanteria ci avrebbero risparmiato!

Montaigne ebbe un continuatore nel suo amico Charron il cui trattato Della Saggezza riscosse là per là ancora più successo degli Essais. Molto meno geniale, vivo, brillante e immediato, Charron ebbe tuttavia il merito di dare al pensiero suo (e di Montaigne) una quadratura più sistematica. Il fatto di essere un prete non gl’impedì di portare un colpo decisivo al fanatismo religioso. Cattolico o protestante, egli dice, il fanatismo è soltanto il frutto dell’ignoranza e della presunzione. La Verità non la possiede nessuno perché all’uomo non è dato di conoscerla. Chi uccide in nome di essa uccide solo per le proprie opinioni, e non è che un delinquente. Il vero galantuomo, per restare tale, non ha bisogno di credere né al paradiso né all’inferno, che infatti non ci sono. Ciò non vuol dire che le religioni siano infondate. Esse assolvono il prezioso compito di dare agli uomini una regola di condotta morale, ma nulla di più. E questa proposizione riassume il pensiero degli scettici in rivolta contro gli opposti fanatismi. Essi negano il Cristianesimo come verità rivelata, sia nella sua interpretazione cattolica che in quella protestante. Lo accettano soltanto come guida ideale di umana convivenza. Che era il modo più diretto ed efficace di sottolinearne la incompatibilità con le barbarie che in suo nome si stavano perpetrando.

A ordinare questo orientamento del pensiero in un sistema filosofico coerente fu Descartes, o Cartesio.

Lo avevano chiamato Renato, cioè «rinato», perché sua madre, tubercolosa, lo mise al mondo in tali condizioni da far disperare che ci restasse. Solo verso gli otto anni la sua salute si normalizzò, tanto che lo misero in un collegio di gesuiti, dove tuttavia gli concessero cure speciali, fra cui lunghi supplementi di sonno la mattina. Si sdebitò di queste indulgenze con lo zelo negli studi. A Poitiers si laureò in diritto canonico, conobbe l’amore, ci provò poco gusto; ma frattanto aveva acquistato una tale fiducia nelle proprie forze che si arruolò nell’esercito olandese per la Guerra dei Trent’anni. Ma anche l’esperienza militare gli procurò scarse soddisfazioni, e quasi subito l’abbandonò per intraprendere un lungo viaggio in Italia.

In quel momento egli si era già orientato verso gli studi matematici, o per meglio dire gli era balenata l’idea di applicare alla filosofia il metodo matematico. A suggerirgliela, egli dice, fu un sogno fatto da soldato, mentre dormiva in una capanna della Baviera: lo spirito divino gli apparve, e gli suggerì la geometria analitica come strada per la ricerca del vero. Curioso avvìo per un filosofo che doveva affermare i diritti assoluti della Ragione e tacciare di superstizioso pregiudizio tutto ciò che con essa era incompatibile.

Altrettanto curioso è che, pur con quella vocazione per la matematica, nel passare da Firenze mentre scendeva da Venezia a Roma, non andasse a visitare Galileo, di cui non poteva ignorare il nome, reso ormai famoso non solo dalle grandi scoperte ad esso legate, ma anche dal processo che aveva fatto sensazione in tutta Europa. Il fatto è che il coraggio di Cartesio non era pari al suo talento. L’uomo non voleva storie con la Chiesa, per tutta la vita mantenne un atteggiamento filiale verso i gesuiti. E a ogni modo, per mettersi del tutto al sicuro, non solo decise di stabilirsi nella calvinista Olanda, ma per ventiquattro volte in vent’anni vi cambiò domicilio. Problemi di denaro non ne aveva, grazie alle cospicue rendite lasciategli dal padre. Visse sempre comodamente in belle case, ma «isolato in mezzo a questo popolo grande e attivissimo, come nel più remoto deserto». Non aveva bisogno di compagnia: gli bastava quella del suo limpido cervello inteso a tessere la tela di una logica che escludeva tutto ciò che non avesse un fondamento razionale, a cominciare dai sentimenti. Questo non gl’impedì di avere un’amante, ma non la sposò nemmeno quando essa gli diede una figlia. Apprendiamo con un po’ di sorpresa, ma anche con un certo sollievo, che quando la bambina a cinque anni morì, egli pianse come un padre qualsiasi, senza chiedersi se le lacrime fossero razionali o no.

Aveva deciso di dar fondo all’umano sapere in tutte le sue discipline. Era un traguardo irraggiungibile, ma Cartesio fu il pensatore che più vi si avvicinò grazie non soltanto alla sua forza di lavoro, ma anche al suo ordine. Nel culto dell’orario e come burocrate della scrivania, non fu da meno di Aristotele e di Kant. Si rifece dall’inizio con un Discorso sul metodo in cui con meravigliosa chiarezza e in un francese intelligibile a tutti disse cosa voleva fare e come intendeva farlo. Voleva cancellare, disse, dalla lavagna della memoria tutto ciò che vi avevano scritto gli altri, a cominciare appunto da Aristotele, considerato l’infallibile, la fonte di ogni verità; e partire dal dubbio su tutto.

Subito però si rese conto che il dubbio non offre un ubi consistam su cui si possa costruire qualcosa. Per raggiungere delle certezze, bisogna pur partire da alcunché di certo. Cartesio, dopo lungo annaspare, lo trovò nel pensiero. La famosa formula cogito ergo sum, penso dunque sono, diventò la sua base di partenza, il punto fermo del suo sistema. Gl’intenditori dicono ch’esso non aveva nulla di originale perché è già in Sant’Agostino. Certamente era già implicito in Montaigne, che Cartesio conosceva a fondo. Ma lasciamo queste discussioni da specialisti. La cosa importante è che Cartesio affermò quel suo principio non come una «idea», ma come una «esperienza», cioè disse in parole povere: «Sono sicuro che esisto perché il fatto che penso me ne dà la dimostrazione». E qui sta l’essenza del suo metodo, che consiste appunto nel sottoporre tutto alla verifica dell’esperimento.

Non seguiremo lo sviluppo del suo pensiero perché questo fa parte della storia della filosofia. Ci basta di sottolineare la sua impostazione, cioè il rifiuto di ogni fideismo. Dicendo: «Io non accetto altre verità che quelle sperimentabili e dimostrabili», Cartesio infligge un colpo mortale al dogma e quindi al fanatismo. Almeno formalmente, egli non nega Dio. Anzi. «Come potrei concepire Dio, se Dio non esistesse veramente?» dice a un certo punto. Ma c’è da chiedersi se queste parole gli fossero suggerite dalla convinzione o dalla prudenza. Un eroe, lo abbiamo già detto, non era; e l’aver preso domicilio in un Paese come l’Olanda non lo metteva al riparo dalla persecuzione, perché anche i calvinisti la praticavano. Infatti l’attacco più aspro gli venne proprio da loro. Un teologo di Utrecht lo denunciò ai magistrati, i quali lo convocarono a discolparsi. Cartesio non si presentò, ma alcuni suoi amici intervennero, e la faccenda si chiuse con un ostracismo alle sue opere.

Non sentendosi più abbastanza sicuro in quel Paese, tornò in Francia per vedere come vi si mettevano le cose. Il nuovo re Luigi XIV gli assegnò una pensione, che forse l’avrebbe indotto a restare, se proprio in quel momento non fosse scoppiata la guerra civile della Fronda. Cartesio rifece precipitosamente fagotto, e dopo una breve sosta in Olanda proseguì per Stoccolma, dove l’aveva invitato la regina Cristina, la grande patronessa della cultura, che voleva le sue lezioni. Cartesio fu onorato di dargliene, ma imbarazzato dall’orario impostogli dall’imperiosa e insonne allieva: le cinque del mattino, il che significava per lui – che anche in collegio aveva usufruito di un supplemento di sonno e di letto – alzarsi alle quattro e attraversare la città sepolta nella neve. Come già era successo a Grozio, i suoi fragili polmoni non resistettero alla prova, e una bronchite lo stroncò nell’inverno del 1650.

Negli ultimi dieci anni egli si era dedicato esclusivamente alla scienza, che offriva un terreno molto più congeniale al suo sperimentalismo, e soprattutto alla geometria. Portò a fondo i calcoli per il raddoppio del cubo e la trisezione dell’angolo, e dette avvìo a quelli del calcolo infinitesimale. Aveva trasformato la casa in un laboratorio pieno di aggeggi – pule, ruote, morse, torni – costruiti con le proprie mani. Studiava l’angolo di rifrazione della luce, operava dissezioni di animali per rendersi conto della loro anatomia, e a un visitatore che gli chiedeva dov’era la sua biblioteca mostrò un quarto di bue appeso alla parete per dire che la sua cultura era negli esperimenti, non nei libri. Diceva anche delle sciocchezze, come quando negò l’esistenza del vuoto, sostenendo ch’esso era solo nella testa del suo più giovane rivale Pascal. Ma molte sue scoperte rimangono fondamentali, anche nel campo della fisica e della fisiologia. Tutto sommato, c’è qualcosa di vero nel giudizio che di lui, dopo morto, diede Fontenelle: «Proprio applicando le regole ch’egli ci ha fornito possiamo vedere quanto di falso o arbitrario ci sia nella sua filosofia, molto meno valida della sua geometria. Ma Cartesio ci ha insegnato un metodo, anzi il metodo del ragionamento».

È proprio così. Cartesio non conta tanto per le sue scoperte, quanto per quelle ch’egli ha permesso di fare ai suoi successori, indicandogliene la strada. Egli veramente liberò la filosofia da quella specie di terrorismo aristotelico che fin lì l’aveva paralizzata. D’allora in poi fu molto più difficile imporre certe assurdità sulla base dell’ipse dixit, cioè solo perché le aveva dette Aristotele o – come più frequentemente avveniva – a lui erano attribuite.

Ora la ragione affermava i suoi diritti anche su di lui.