CAPITOLO DICIOTTESIMO

LA RIVOLTA DELLA SCIENZA

Abbiamo visto Cartesio almanaccare nel suo domestico laboratorio con lenti, torni e bisturi. Con quegli aggeggi, aveva fatto molte scoperte, e non trascurabili, nel campo della scienza. Eppure, malgrado il giudizio di Fontenelle, egli non era stato un vero uomo di scienza. Di essa si era servito soltanto per sviluppare il proprio metodo; ma il fine per lui restava la filosofia. E in questo, egli era ancora un uomo del Rinascimento, che alla scienza riconosceva soltanto un rango subalterno. Infatti il più grande cultore della scienza rinascimentale era stato Leonardo che pur con tutte le sue illuminazioni, faceva della scienza un hobby.

Solo nella seconda metà del Cinquecento la scienza comincia a ribellarsi a questa squalifica. Anche qui la spinta venne da una reazione: la reazione alle superstizioni che pullulavano in tutto il mondo. Il terrore delle streghe era soltanto la più diffusa e pericolosa. Ma ce n’era di ogni genere, forse di più che nei più bui secoli del Medio Evo. In Inghilterra il Browne ne riempì un elenco di seicentocinquanta pagine, mostrandoci in quale giungla di terrori e di esorcismi si svolgeva la vita di quei nostri progenitori. Essi dovevano passare gran parte delle loro giornate a difendersi dai diavoli, fantasmi, spiriti, jettatori, «untori» dai quali si sentivano perpetuamente insidiati ricorrendo a scaramanzie, astrologi, carto e chiromanti, amuleti, minerali, piante. E tutto questo non era prerogativa solo della gente semplice e ignorante. Lo stesso re Giacomo I pubblicò una Demonologia, in cui con la massima serietà si attribuiva a certe persone il potere di seminare il malocchio, di trasferire le malattie da un corpo all’altro, di provocare tempeste, e si affermava il diritto di condannare a morte questi agenti del demonio.

L’Inghilterra era forse uno dei casi limite di questo vaneggiamento, e quindi è naturale che proprio lì la reazione si manifestasse con più vigore. Ma vi concorreva anche un altro motivo: lo sviluppo della cultura sotto gli stimoli e gl’impulsi che aveva ricevuto dalla grande Elisabetta. Questa cultura progrediva in tutti i campi, ma restando fedele alle caratteristiche che la stessa situazione economica e politica del Paese esigeva: la concretezza e la praticità. L’Inghilterra era impegnata in una lotta per la vita e per la morte. Doveva difendersi da due potenze molto più forti di essa, la Spagna e la Francia. Le sue energie creative non potevano quindi distrarsi nel Bello, come quelle degl’Italiani del Rinascimento che non avevano una Nazione da difendere perché non lo erano. Dovevano concentrarsi sull’Utile: istallare industrie, costruire flotte, fabbricare cannoni. E quindi erano attirate soprattutto dalla scienza.

L’uomo che riassume nel suo nome il genio inglese fra il Cinque e il Seicento, e lo illumina, è una di quelle figure che sembrano confezionate apposta dal buon Dio per gettare lo scompiglio nelle nostre idee preconcette. Raramente il talento e la canaglieria si sono così felicemente sposati come in Francesco Bacone. Dei vizi che lastricano l’inferno non gliene mancava nessuno, dalla omosessualità all’arrivismo alla ladroneria. Ma non gli mancava nemmeno nessuna di quelle virtù che spianano la strada alla grandezza. Si servì dei denari della moglie per far carriera e una volta raggiunto il vertice di Primo Ministro, si servì della carica per fare altri denari. Vendeva le sentenze, accettava bustarelle da chiunque e in maniera così sfacciata che alla fine il parlamento si ribellò e lo mise sotto processo. Bacone riconobbe tutte le proprie malversazioni e peculati, ma se ne giustificò dicendo che, anche dopo aver intascato le bustarelle, aveva colpito coloro che gliele avevano date. A commento della condanna al carcere che il tribunale gli aveva inflitto, scrisse più tardi: «È stata la più giusta sentenza che il parlamento abbia emesso negli ultimi duecento anni. Eppure io sono stato il più giusto magistrato che l’Inghilterra abbia avuto negli ultimi cinquanta».

La pena gli fu abbuonata dal Re che aveva un debole per questo suo Ministro mariuolo. «Se dovessi punire tutti quelli che prendono mance, non mi rimarrebbe nemmeno un suddito» disse quel sovrano che prendeva le mance anche lui. E mai indulgenza si dimostrò così bene investita. Ricco e libero da impegni di lavoro e ambizioni di carriera, Bacone poté dedicarsi interamente allo studio. Non gli mancava nulla per grandeggiarvi, nemmeno l’immodestia. Nella prefazione alla sua prima opera, La grande Restaurazione, scriveva: «Bacone di Verulamio ritiene che sia nell’interesse della presente e delle future generazioni ch’esse siano edotte dei suoi pensieri». E per una volta tanto la presunzione non fu la madre di un inganno. Il suo dichiarato proposito era di «provare tutto di nuovo per dare inizio a una ricostruzione totale delle scienze e di tutto il sapere umano». Anche lui dunque, come Cartesio, avrebbe fatto tabula rasa di tutte le credenze fin allora accettate per sostituirle con quelle dimostrabili per via di esperimento, e da queste risalire alle verità generali ed eterne della filosofia.

Noi possiamo sorridere di questa pretesa di abbracciare tutto lo scibile. Ma, a parte il fatto che lo scibile di allora non era così vasto e approfondito come quello d’oggi che costringe alla specializzazione, ciò che di Bacone conta, come di Cartesio, è il metodo ch’egli introduce. Contro il sistema aristotelico invalso fin allora, Bacone insegna agli uomini a procedere non dall’idea al fenomeno, ma dal fenomeno all’idea. Egli dice: «Se voglio avere un’idea dell’aria, devo prima sapere come e di cosa l’aria è fatta. E per questo il sillogismo astratto di Aristotele non mi serve. Mi serve solo l’esperimento concreto Non è la filosofia che mi permette di capire le cose. È lo studio e la comprensione delle cose che in seguito mi permetteranno di farmene una rappresentazione filosofica».

Noi oggi sappiamo quale illusione sia alla base di una simile impostazione e quali insidie essa nasconda. Ma per i nostri antenati del Seicento si trattava di una conquista assolutamente rivoluzionaria perché, liberandola dal vassallaggio alla filosofia, conferiva alla scienza una sua indipendente dignità. E infatti Dignità e progresso delle scienze intitolò Bacone una delle sue successive opere. Era un bando di mobilitazione, un appello agl’intellettuali per una crociata del sapere non più attraverso i libri e secondo le formule e i dettami di Ille Philosophus, come ancora si seguitava a chiamare Aristotele sottintendendo che l’unico depositario della verità era lui; ma attraverso la sperimentazione. Guardatevi intorno, dice Bacone. «L’uomo, essendo il servitore e l’interprete della Natura, può fare e comprendere solo in rapporto e limitatamente a quanto abbia osservato nel corso della Natura. Oltre di esso, né sa né può fare alcunché.» In parole povere: lo scienziato è una persona seria; il filosofo, che dalla scienza non proceda, è un ciarlatano.

Polemicamente, in contrapposto all’Organon di Aristotele, egli chiamò Novum Organum la sua opera principale. E annunziandola agli amici, disse con la sua solita modestia: «Ho l’impressione che questo libro durerà finché durano i libri». Ma neanche stavolta la presunzione fu madre d’inganno. Più che dare all’umanità un pensiero nuovo, Bacone disintossica quello vecchio di tutti i tabù e idoli e feticci che lo impacciavano e paralizzavano. Ma non c’è dubbio che da lui prendono avvìo tutte le scuole filosofiche moderne, anche quelle che poi giungeranno a conclusioni antitetiche alle sue. Egli sottrae l’uomo alle tentazioni della metafisica e gli dice: «Il tuo regno è la natura. Conténtati di capire le leggi che la regolano». Anche lui, come Socrate e Montaigne, ritrasferisce sulla terra la saggezza che si era così a lungo persa nel cielo.

Lavorò fino all’ultimo giorno nella sua lussuosa villa circondata da uno stupendo parco e accudita da uno stuolo di servi e segretari. Fra questi ultimi c’era un certo Thomas Hobbes, di cui udremo riparlare. A chi gli diceva che quella vita da gran signore non s’intonava alla sua attività di filosofo, rispondeva: «Non capisco perché il talento debba indossare vesti sdrucite». Era un uomo felice. Non aveva dubbi su nulla, neanche sui suoi vizi che seguitò a praticare senza scrupoli né rimorsi, e tanto meno sulla sua priorità nella scala dei geni passati e presenti. Forse segretamente credeva di essere esente dalla fatalità biologica della morte sicché non si allarmò quando, a sessantacinque anni, fu colto da una bronchite. L’aveva presa per riempire di neve un pollo e vedere quanto il ghiaccio ne avrebbe ritardato la putrefazione. «L’esperimento è riuscito perfettamente» scrisse a un amico: «il pollo è rimasto fresco e conto di mangiarlo domani.» Ma l’indomani era morto.

Il suo compatriota Pope lo definì «il più sapiente, il più geniale, il più meschino degli uomini». Meschino, no. Non lo erano stati nemmeno i suoi difetti. Anche come canaglia, era stato un colosso.

Per correr dietro a Bacone – personalità troppo potente per poterle resistere – abbiamo un po’ perso il filo del nostro discorso. Riprendiamolo, dunque.

Montaigne col suo scetticismo, Cartesio col suo razionalismo, Bacone col suo empirismo (anche se questo termine fu coniato più tardi) portavano un attacco concentrico sia al dogmatismo cattolico che a quello protestante proprio nel momento in cui la Guerra dei Trent’anni ne documentava le tragiche conseguenze. Ciò non vuol dire ch’essi ebbero subito partita vinta, e che di colpo tutto il pensiero europeo si orientò sul loro insegnamento ed esempio. Non ci stancheremo mai di mettere in guardia il lettore dalle nostre stesse schematizzazioni. Noi ce ne serviamo solo per permettergli di capire le più importanti direttrici di marcia ideologica di quel periodo. Chi voglia più a fondo indagarne la complicata matassa, si rivolga a qualche storia della filosofia come quella del Russell. Ma il senso fondamentale è quello che abbiamo detto: la crisi di stanchezza e quindi la reazione dell’Europa ai «sacri macelli» di cui è stata vittima per quasi un secolo. Questi macelli sono stati perpetrati in nome di Dio, o per meglio dire di due diverse interpretazioni di Dio, e hanno trovato alimento nel furore teologico. Per porvi fine e prevenirne degli altri, bisogna battere in breccia la teologia distraendo l’uomo dalla contemplazione del cielo, dove esso non sembra trovare altra ispirazione che a guerre e persecuzioni, per riportarne l’attenzione sul suo regno: la natura. Questo è il tema che propongono ai loro contemporanei le due più grandi voci del tempo, specialmente Bacone. E questo tema è l’invito alla scienza perché la scienza è appunto lo studio della natura. Si capisce che di voci ce ne sono anche altre, e discordanti. Ma quelle che meglio interpretano il momento storico sono queste. Esse suscitarono un’eco profonda anche in Italia, ma per altri motivi. L’Italia era stata il principale teatro dei grandi conflitti di potenza fra Asburgo spagnoli e Valois francesi. Ma dal trattato di Cateau-Cambrésis, cioè dal 1559 in poi, il dominio spagnolo l’aveva tenuta al riparo dalle lotte di religione esterne e interne. All’esterno, solo le flotte di Venezia e di Genova erano state impegnate a Lepanto. All’interno, la mancanza di sostanziosi movimenti protestanti non aveva offerto pretesto a massicce persecuzioni. C’era stato il mostruoso massacro dei duemila valdesi di Calabria. C’erano stati altri processi e roghi. Ma in confronto a quanto accadeva in Francia e Germania, l’Italia sembrava un’oasi di pace: anche la Guerra dei Trent’anni non l’aveva che marginalmente sfiorata.

Da noi quindi la fuga dalla teologia non derivava dall’abuso che se n’era fatto e dagli eccessi che aveva provocato. Veniva soltanto dai rigori inquisitoriali della Controriforma. Annusando puzzo di eresia in ogni speculazione filosofica che non fosse scrupolosamente ortodossa, il Tribunale del Sant’Uffizio dirottava le menti verso la scienza sperimentale, ma ponendo loro un limite ben preciso. Sia nella fisica che nella matematica, nella meccanica, nell’astronomia, gl’Italiani furono i più grandi «specialisti» di questo periodo. Ma i loro studi restavano delle costruzioni senza tetto, perché dalle leggi che via via scoprivano essi non potevano risalire all’idea generale cioè all’idea filosofica, che per forza di cose li avrebbe messi in contrasto col dogma e fatti cadere sotto le grinfie dell’Inquisizione. Lo dimostrerà Galileo. Ma prima di lui lo dimostrarono anche degli altri che, pur non venendo dalla scienza, cercarono di battere in breccia tutta la tradizionale impalcatura su cui la Chiesa sorreggeva il suo castello di verità rivelate a furia di Aristotele e di terrorismo persecutorio.

Il primo era stato Bernardino Telesio, autore di un De rerum natura, di cui il titolo basta a chiarire gli orientamenti. Telesio era un calabrese di Cosenza che, dopo aver insegnato a Padova per dieci anni, tornò nella sua città natale e vi fondò una scuola destinata a dare buoni frutti. Lo dimostra il fatto che meridionali e più o meno influenzati da lui sono tutti i pochi pensatori italiani di questo periodo. Telesio ebbe una vita tribolata da mille guai. Per lo studio trascurò il patrimonio lasciatogli dal padre, fu sempre a corto di soldi, ebbe un figlio assassinato. Ma gli toccò anche la fortuna di restare al riparo dai furori inquisitoriali. Anzi, Pio IV gli offrì addirittura l’Arcivescovato di Cosenza. Telesio, ch’era un galantuomo, lo pregò di darlo a suo fratello.

Telesio d’altronde si guardò bene dal disturbare la Chiesa. Non discusse l’autorità sovrana di Aristotele nel campo delle idee, anzi le rese omaggio incondizionato. Si limitò a dire che la natura è regolata da leggi che hanno in se stesse il loro principio e il loro fine e che pertanto vanno indagate senza riferimenti al trascendente. Questa discriminazione gli permise di campare povero, sì, ma indisturbato fino agli ottant’anni facendo dell’«Accademia Cosentina» un centro culturale di gran richiamo per tutto il Sud-Italia.

Non sappiamo se il Bruno lo conobbe perché quando andò a Padova, Telesio l’aveva già lasciata da parecchi anni. Ma certamente vi trovò i semi del suo insegnamento e se ne alimentò, sebbene la personalità di Bruno fosse troppo prepotente e disordinata per accettare una scuola e inquadrarvisi. Di lui abbiamo già detto nell’Italia della Controriforma, e non vogliamo ripeterci. Ricorderemo solo che il Seicento s’inaugurò appunto col rogo di Bruno, eloquente ammonimento agl’intellettuali italiani. Si convertissero pure alla scienza, diceva l’Inquisizione. Ma non pretendessero d’indurne una nuova filosofia in contrasto con quella tradizionale di Aristotele e dei Padri della Chiesa. Guai a chi avesse violato questo off limits.

Giulio Cesare Vanini lo fece forse senza accorgersene. Aveva quindici anni quando Bruno salì sul patibolo, e anche lui era un meridionale di Taurisano in quel di Lecce. Si era laureato in medicina, ma poi era entrato nei carmelitani e aveva girovagato nei Paesi riformati del Nord-Europa. Convinzioni molto salde non doveva averne perché in Inghilterra si convertì all’anglicanismo, ma dopo tornò al cattolicesimo. Forse, com’era stato anche per Bruno, gli umori in lui erano più forti delle idee e lo portavano a litigare con tutti. Lo pungolavano delle ambizioni molto più grandi del suo ingegno, ch’era in realtà assai modesto. Accanto a qualche sorprendente intuizione, come quella che l’uomo in origine era stato un quadrupede, i suoi libri sono una cattiva antologia d’idee raccattate un po’ dappertutto. A Praga, una delle tante tappe del suo inquieto e rissoso vagabondare, Vanini suscitò i sospetti dell’Inquisizione, e per sottrarvisi si rifugiò a Tolosa sotto falso nome. Per un paio d’anni riuscì a viverci abbastanza tranquillamente insegnando. Ma uno dei suoi allievi riferì che nelle sue lezioni egli negava non soltanto la divinità di Cristo, ma anche l’esistenza di un Dio individuato. Gli misero accanto un provocatore per indagarne il pensiero e gli orientamenti. Era difficile venirne a capo perché Vanini non era inquadrabile in nessun coerente sistema. Egli riecheggiava soltanto, e confusamente, la grande rivolta dello scetticismo e dello scientismo, ch’era nell’aria dovunque, contro la teologia. Ma in quei tempi di furori persecutori ce n’era d’avanzo per incriminarlo.

Convocato davanti al tribunale per ateismo e bestemmia, Vanini dapprima cercò di respingere gli addebiti protestando la propria fede in Dio e nei dogmi della Chiesa. Ma quando si vide perduto, accettò con coraggio la propria sorte. E al momento di avviarsi al patibolo dove gli avrebbero tagliato la lingua prima di strangolarlo e bruciarlo, pare che abbia detto: «Andiamo allegramente a morire da filosofo». Aveva ragione perché, anche se filosofo non era, lo diventò grazie a quel supplizio che fece di quest’uomo di pochi pensieri un martire della libertà di pensiero.