CAPITOLO DICIANNOVESIMO

GALILEO

Il Cinquecento, lo abbiamo già detto, era stato più il secolo degli artisti e dei letterati che degli scienziati, specialmente in Italia. Ma fu proprio in questo periodo che fra le mani di Leone X, il grande Medici, capitò un libriccino intitolato Piccolo commentario che preannunciava una delle più grandi scoperte scientifiche di tutti i tempi, e forse la più grande di tutte: la scoperta cioè che il centro dell’Universo non era la Terra, ma il Sole.

Non si trattava di una novità assoluta. Già nell’antichità alcuni astronomi greci come Filolao e Aristarco di Samo avevano avanzato ipotesi analoghe. Ma non si trattava appunto che d’ipotesi senz’appoggio di dati che le convalidassero. Esse non avevano resistito alle confutazioni di Tolomeo d’Alessandria, che nel secondo secolo dopo Cristo aveva formulato la cosiddetta teoria «geocentrica» che restituiva alla Terra la sua posizione di fulcro dell’Universo come dice la Bibbia: teoria che, appunto dal nome del suo autore, si chiamò «tolemaica». E per più d’un millennio nessuno l’aveva più rimessa in discussione.

Solo nel Quattrocento qualcuno ricominciò ad avanzare dei dubbi. Nicola da Cusa disse che, secondo lui, la Terra non stava ferma, ma si muoveva insieme a tutti gli altri astri del firmamento. E il solito Leonardo, che con le sue intuizioni anticipava sempre le scoperte degli altri, aggiunse che a star fermo era il Sole, mentre la Terra non era il centro di nessun sistema.

Tutto questo però era detto come lo dicevano i Greci, cioè sempre come ipotesi basate più su impressioni che su osservazioni ed esperimenti. Mentre il Commentario adduceva a sostegno della teoria «eliocentrica», cioè quella che fa del Sole il centro dell’Universo, calcoli, dati, rilievi, insomma un vero e proprio corredo scientifico.

Il suo autore, Nicola Copernico, era un polacco che aveva fatto studi seri a Bologna sotto la guida d’un maestro italiano, Domenico da Novara. Pur senza sostenere la dottrina eliocentrica, costui criticava quella geocentrica trovandola del tutto insoddisfacente. Copernico aveva fatto tesoro di quegli insegnamenti e li aveva approfonditi per suo conto anche dopo esser tornato nei Paesi suoi a fare il prete. Quel problema lo turbava profondamente perché capiva quanto l’eliocentrismo fosse incompatibile con le Sacre Scritture. E infatti quando Lutero e Calvino videro il suo Commentario, reagirono con furore tacciandolo di «follia» e di «empio attentato contro il Verbo di Dio».

Papa Leone invece vi si era vivamente interessato perché a lui delle Sacre Scritture importava poco. L’incredulità lo rendeva molto più tollerante dei due capi della Riforma. E forse, se non si fosse trovato coinvolto nel turbine dello scisma, avrebbe fornito aiuti e incoraggiamenti a Copernico che ne aveva urgente bisogno. Era rimasto infatti amareggiato dagli anatemi protestanti, aveva deciso di abbandonare gli studi, e solo le insistenze di un suo amico matematico glieli fecero riprendere. Così compose il Primo libro delle rivoluzioni, che vide la luce proprio lo stesso giorno (24 maggio 1543) in cui l’autore entrava nel buio della morte. Ebbe appena il tempo di palparne la copertina, e chiuse gli occhi contento. Ne aveva di che.

Il libro era zeppo di errori, anche marchiani: fra cui quello che il Sole è il centro di tutto l’Universo e sta fermo. Conserva, di Tolomeo, una cervellotica e macchinosa farragine di «sfere», «cicli», «epicicli», eccetera. Ma per la prima volta, non più come ipotesi basata solo sull’intuizione, ma come teoria poggiata sull’osservazione e il calcolo, degrada la Terra da centro del creato a suo periferico frammento, con tutte le conseguenze che ne derivano.

E le conseguenze erano catastrofiche, specialmente per la teologia. Cattolica o protestante, essa pone a fondamento della sua costruzione la premessa che tutto è stato creato in funzione dell’uomo. L’unico punto sul quale tutte le Chiese sono d’accordo è il conferimento all’uomo di questa suprema dignità. Tutto ciò che l’Onnipotente ha fatto, lo ha fatto per l’uomo, dandogli in appalto il centro immobile di un cosmo che ruota intorno a lui. Questa è l’architrave di ogni religione cristiana, anzi di ogni religione allora nota perché anche quella ebraica e musulmana partono dalla stessa pregiudiziale. Sopra l’uomo c’è il paradiso, sotto l’uomo c’è l’inferno: tutto, confezionato per lui.

Il crollo di questo sistema pone alla mente domande terribili. Se il suo abitacolo non è che un frammento relegato alla periferia del creato, che fondamento ha la pretesa dell’uomo di considerarsene il centro? E perché il Signore avrebbe mandato suo Figlio a morire proprio su questa scheggia persa tra le tante che popolano l’infinito? E il Cielo dove sta, in questa nuova concezione che abolisce il criterio stesso di sopra e di sotto, lasciando il nostro pianeta a ruotare in uno sterminato vuoto intorno a se stesso e ad altri corpi? Tutte le più radicate certezze su cui l’uomo ha costruito la propria vita e creduto d’interpretare la propria missione e il proprio destino escono sconvolte dalla nuova teoria. Scrisse Gerolamo Wolf, inorridito: «L’interpretazione cristiana del mondo non ha mai subìto un attacco più pericoloso di questo».

Ma a rendersene conto, lì per lì, furono in pochi. E fra questi non ci fu per esempio neanche il papa Paolo III, cui Copernico aveva dedicato il suo libro, evidentemente nella speranza di mettersi al riparo da accuse di eresia. E c’era, per il momento, riuscito. Ancora quarant’anni dopo la morte dell’astronomo, il vescovo Kromer fece elevare un monumento sulla sua tomba nella cattedrale di Frauenburg. La Chiesa non aveva afferrato le implicazioni e le conseguenze di quella rivoluzionaria scoperta perché, tutto sommato, non ci credeva: seguitava a considerarla una semplice congettura, una specie di balocco per intellettuali in vena di originalità.

Non c’è da stupirsene perché non ci credevano neanche gli astronomi. Il loro più autorevole esponente, Tycho Brahe, era un nobile danese nato tre anni dopo la morte di Copernico, e pieno di soldi e di bizzarrìe. Portava un naso artificiale d’oro perché quello vero l’aveva perso in un duello. Aveva sposato una contadinella con gran scandalo dei suoi pari, e aveva investito tutto il patrimonio nella costruzione di un osservatorio. Ci rimase vent’anni a scrutare il cielo. Lo scrutava come poteva, perché il telescopio non era stato ancora inventato. Ma questo non gl’impedì di raccogliere un materiale che batteva ogni primato per ricchezza e precisione di dati. Scoprì le variazioni del moto della Luna, la natura delle comete e i loro tracciati orbitali, la rifrazione della luce. Insomma era, malgrado il naso, uno studioso serio che lasciò alla scienza un prezioso patrimonio di accertamenti e le aprì molte strade. Ma rifiutava Copernico. La Terra, per lui, restava il centro del creato.

Fra gli allievi che gli s’erano radunati intorno, c’era anche un giovane protestante tedesco che si era cacciato nei guai coi suoi correligionari perché in un libriccino aveva sostenuto la dottrina di Copernico. Si chiamava Giovanni Keplero. Nonostante la sua divergenza dalle proprie idee, Brahe, che frattanto si era trasferito a Praga, capì che in quel ragazzo c’era qualcosa, e ne fece prima il suo assistente e poi il proprio successore.

L’eredità consisteva soltanto negli studi e nei calcoli del maestro. Keplero, che non era ricco, anzi era poverissimo, non poté comprare gli strumenti per approfondirli. E dovette contentarsi di meditarci sopra. Ma lo fece così a fondo, che da quei dati riuscì a ricavare una scoperta fondamentale: la scoperta che l’orbita di Marte attorno al Sole non è un cerchio, come aveva creduto Copernico, ma un’ellissi. Subito si chiese se non fossero ellittiche tutte le orbite planetarie, compresa quella della Terra. Si provò a fare i calcoli sui dati di Brahe. Tornavano. E allora enunciò le tre famose «leggi di Keplero». Primo: ogni pianeta si muove seguendo un’orbita ellittica di cui uno dei fuochi è il Sole. Secondo: il movimento è più rapido quando il pianeta è vicino al Sole, più lento quando è lontano. Terzo: il quadrato del tempo di rivoluzione di un pianeta intorno al Sole è proporzionale al cubo del grande asse dell’ellissi da lui descritta.

Queste tre leggi rappresentano una tappa fondamentale nella storia dell’astronomia, e il fatto che Keplero le abbia scoperte senza neanche l’aiuto del telescopio ha del miracoloso. Il segreto del suo successo stava nella forza di concentrazione. Keplero aveva avuto una vita piena di triboli. La moglie gli s’era ammalata di epilessia: egli aveva dovuto prendersi cura di lei e dei sette figli che ne aveva avuto. La madre era stata arrestata e processata come «strega», e Keplero aveva dovuto lottare per salvarla dal rogo. Unica evasione e consolazione a queste tragedie e difficoltà era stato lo studio. La scoperta che il cosmo era regolato da leggi che gli davano un ordine assoluto e immutabile lo ripagava dei suoi guai immergendolo in una specie di mistica esaltazione, di cui si vede la traccia nella prefazione al suo libro L’armonia del mondo: «Nulla mi trattiene, mi abbandonerò al mio sacro furore. Se sarò perdonato, me ne rallegro. Se sarò condannato, lo sopporterò. Il dado è tratto, il libro è composto. Che lo leggano i contemporanei o i posteri, non m’interessa. Se Dio ha aspettato per seimila anni uno scopritore, io posso ben aspettare per cent’anni un lettore». Perché in Dio seguitava a crederci. «Il mio solo desiderio» disse «è di poter percepire Dio dentro di me con la stessa chiarezza e certezza con cui mi si rivela nella struttura del creato.»

Morì povero in canna nel 1630, mentre infuriava la Guerra dei Trent’anni che sembrava dover spazzar via ogni traccia di cultura e cancellò perfino la sua tomba. Ma se i libri di Keplero avevano effettivamente avuto pochi lettori, fra di essi ce n’era uno che bastava da solo a garantirne la continuazione e l’immortalità.

Fin dal 1597 Keplero aveva ricevuto una lettera di un professore italiano, che gli diceva di rallegrarsi moltissimo per aver trovato «un così grande alleato nella ricerca della verità, e tanto più in quanto già da molti anni fui dell’opinione di Copernico, il quale, benché abbia ottenuto fama immortale presso pochi, fu posto in ridicolo e condannato da gente infinita (poiché grandissimo è il numero degli stupidi)». La lettera era firmata: Galileo Galilei.

Galilei aveva sette anni più di Keplero, ma come astronomo era più giovane di lui perché a questi studi si era convertito da poco. Nato a Pisa di padre fiorentino e cresciuto nel pieno meriggio del Rinascimento, avrebbe voluto essere un Leonardo, di cui per tutta la vita invidiò la completezza. Il suo primo interesse era stato per la pittura, il secondo per la musica. Disegnava abbastanza bene e imparò l’organo e il liuto, che poi diventeranno l’unica consolazione nella sua vecchiaia di cieco proscritto. Alla fine si era deciso per la filosofia, ma per assumervi subito atteggiamenti non conformisti e polemici. Galilei accusava i suoi professori di essersi addormentati in braccio ad Aristotele, le cui astratte categorie rischiavano di paralizzare ogni progresso scientifico. Occorre liberarsene, diceva, e restituire al pensiero una maggiore concretezza sottoponendolo alle verifiche dell’esperimento.

Fu questo che lo condusse alla prima scoperta. Misurando sul proprio polso le oscillazioni del pendolo, accertò ch’esse impiegano un tempo uguale indipendentemente dalla loro ampiezza. Non era granché. Ma era la scelta di un certo metodo: il metodo induttivo della scienza, che parte dall’osservazione del fenomeno particolare per risalire alla formulazione di una legge generale. Quell’attività l’occupò al punto che trascurò gli studi accademici e non riuscì a prendere nemmeno la laurea. Per cui, quando il padre morì lasciandolo senza mezzi, dovette accontentarsi di un incarico di supplente nella cattedra di matematica con uno stipendio di fame.

Alla matematica si era convertito grazie a un precettore dei paggi del Granduca che gli aveva dato da leggere gli Elementi di Euclide. Galilei trovò che in quel libriccino c’erano più verità che nei quaranta volumi della Summa di San Tommaso, fin allora considerata l’architrave del pensiero filosofico. E quindi si può capire come le sue lezioni facessero un certo scandalo. Fra l’altro, egli s’era dato a smontare uno dei postulati della fisica di Aristotele, secondo cui la velocità di caduta nel vuoto di un corpo cresce proporzionalmente alle sue dimensioni. Secondo il suo amico e biografo Viviani, Galileo convocò professori e studenti davanti alla torre pendente, dalla cui cima lanciò oggetti di varie dimensioni per dimostrare che la loro velocità di caduta era uguale. «E questo» dice Viviani «fece sì che molti filosofastri suoi rivali, spronati dall’invidia, si levarono contro di lui.»

Gli storici hanno rifiutato questo episodio, di cui lo stesso Galileo non fa menzione. Ma non ci sembra che il particolare abbia molta importanza. Ne ha di più il fatto, comunque accertato, che Galileo aveva nel corpo accademico più nemici che amici. A procurarglieli non era solo la spregiudicatezza e novità dei suoi metodi, ma anche il suo carattere. Fin d’allora Galileo sapeva di essere Galileo, e mal sopportava che gli altri lo ignorassero. Aveva il disprezzo facile e la polemica rovente. A chiunque lo contraddiceva appioppava con disinvoltura la qualifica di somaro, cretino e perfino eunuco. E quindi non c’è da stupirsi che molti lo trovassero insopportabilmente presuntuoso e insolente.

Fatto sta che nel 1592 lasciò Pisa per trasferirsi a Padova a insegnarvi meccanica. Ebbe subito un gran successo con gli studenti perché invece di limitarsi a lezioni teoriche, li faceva partecipare ai suoi esperimenti. Col loro aiuto riuscì a dimostrare che la curva di un proiettile è la risultante delle forze d’impulso e di gravità, e formulò la legge dell’inerzia preparando così la strada a Newton. Ma fra i colleghi dovette trovare pressappoco la stessa ostilità che a Pisa, perché in un’altra lettera a Keplero si lamenta ch’essi si rifiutassero non solo di ammettere le sue scoperte, ma perfino di guardare il cielo col telescopio ch’egli aveva costruito.

A quell’invenzione di decisiva importanza Galileo era arrivato grazie agli studi di due ottici olandesi, Lippershey e Metius, che all’insaputa l’uno dell’altro avevano costruito un rudimentale cannocchiale applicando una doppia lente convessa a un capo di un tubo e una doppia lente concava all’altro capo. L’episodio dimostra quanto Galileo fosse informato e seguisse i progressi tecnologici in tutto il mondo. Subito si appropriò quell’esperienza e l’applicò ai suoi fini. Il suo telescopio ingrandiva gli oggetti solo di pochi diametri. Ma gli bastò per scoprire nel firmamento una quantità di stelle che nessuno fin allora aveva mai catalogato. Egli rivelò che le Pleiadi non erano sette, come finora si era creduto, ma trentasei, che la Via Lattea non era una massa di vapori, ma una sterminata foresta di stelle, che la luce della Luna non era che quella del Sole riverberata sulla Terra, che la sua superficie era increspata di valli e montagne, e che anche Giove era un pianeta coi suoi satelliti. Infine un’attenta osservazione gli rivelò che anche Venere girava intorno al Sole, come Copernico aveva intuito ma senza riuscire a dimostrarlo, e infatti aveva anch’essa le sue «fasi» come la Terra. E questa era la conferma della teoria eliocentrica.

Galileo annunziò le sue scoperte in un libro, Sidereus nuncius, dedicato al granduca di Toscana Cosimo II, e diede il nome di «Medicei» ai quattro satelliti di Giove da lui scoperti. Non ne poteva più di Padova. E il Granduca, lusingato dall’omaggio, lo richiamò in patria nominandolo «Primo Matematico» all’Università di Pisa e filosofo di Corte. A quest’ultima qualifica Galileo teneva in modo particolare perché, come Bacone, più che a singole scoperte, egli si sentiva vocato a rivoluzionare il metodo della conoscenza. Si lamentava anzi di dover provare le sue verità con tanti esperimenti perché, diceva, «per soddisfare soltanto me stesso, mai avrei sentito il bisogno di compierne». La scoperta per lui era soltanto un’arma contro l’ordine costituito delle verità rivelate. E questo lo poneva fatalmente in contrasto con la Chiesa che di quelle verità era la grande depositaria e garante.

Questo contrasto non esplose subito. Dapprincipio anzi egli mantenne i migliori rapporti coi gesuiti. Una loro commissione riferì al cardinale Bellarmino che gli studi di Galileo rappresentavano quanto si era fatto di meglio nel campo dell’astronomia e non prestavano il fianco a nessuna obiezione. E quando nel 1611 Galileo andò a Roma, lo stesso papa Paolo V lo accolse con tutti i riguardi.

L’idillio non poteva durare: prima o poi l’incompatibilità fra le teorie eliocentriche di Galileo e il dogma della Chiesa sarebbe emersa. Ma dobbiamo riconoscere che a fornirgliene il pretesto molto contribuì la vanità dello scienziato. In una conferenza tenuta a Roma, Galileo si era vantato di avere per primo scoperto le macchie solari. Forse era in buona fede. Ma quella scoperta pretendeva di averla fatta poco prima di lui un gesuita, Scheiner, che insegnava matematica a Ingolstadt. Costui rivendicò la precedenza con tanto di documenti. E Galileo gli rispose nel suo brusco stile polemico, cioè dandogli all’incirca dell’imbroglione e affermando che quella scoperta lui l’aveva fatta sin dal 1610 a Padova: il che pare che non fosse vero. Comunque, ne seguì una polemica piuttosto arroventata, nella quale i gesuiti si schierarono col loro confratello. E questo ferì a morte l’orgoglio di Galileo.

Fin allora egli si era sempre riferito a quelle di Copernico e di Keplero come a semplici ipotesi. D’allora in poi cominciò a citarle come teorie e leggi. I gesuiti gli rivolsero qualche blando ammonimento. Lo stesso Scheiner, superando i rancori della precedente polemica, gli scrisse in termini concilianti. «Se desiderate esporre le vostre tesi, non ce ne offenderemo affatto, anzi esamineremo volentieri i vostri argomenti nella speranza che tutto questo aiuti a illustrare la verità.» Era un richiamo a quella specie di sottinteso gentlemen’s agreement che nel Rinascimento si era stabilito fra la Chiesa e gl’intellettuali. «Sviluppate pure» aveva detto quella a questi «una cultura e una filosofia profane. Ma fàtelo in latino e dentro le Accademie, in modo che resti tra noi e non turbi la fede delle masse.» Tale era stato il senso di quell’alleanza, anche se non lo si trova scritto in nessun documento.

Galileo non raccolse l’invito. Gliel’impediva non soltanto l’impetuoso temperamento, ma anche lo scopo che si era prefisso. Volendo insegnare agli uomini a ragionare per esperienze invece che per astrazioni e superstizioni, non gli restava che battere in breccia queste ultime, e scopertamente. Scrisse a padre Castelli: «Io credo che i processi naturali che percepiamo attraverso attente osservazioni o deduciamo da dimostrazioni coerenti non possono essere confutati da brani della Bibbia». Era una dichiarazione di guerra, e il Bellarmino se ne allarmò. Non volle tuttavia intervenire direttamente e si limitò a dare qualche consiglio di prudenza a uno degli allievi dell’astronomo: «Contentàtevi» gli diceva «di parlare ex suppositione, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico». Si rifiutò di adottare provvedimenti anche quando un predicatore domenicano, il Caccini, denunziò Galileo al tribunale dell’Inquisizione. Anzi si affrettò a far sapere a Galileo che, se inseriva nei suoi testi qualche frase che li riaccreditasse come semplici ipotesi, la denunzia sarebbe stata archiviata. Ma Galileo rispose che non intendeva «moderare» Copernico.

Anche il Granduca ne fu spaventato e gli consigliò di andare a chiarire le cose con quelli del Sant’Uffizio. Galileo accettò e scese a Roma con lettere di raccomandazione di Cosimo per l’ambasciatore di Firenze e per alcuni influenti prelati di Curia. Si comportò da uomo sicuro del fatto suo sostenendo con spavalderia, in pubblici dibattiti e in conversazioni private, le tesi di Copernico. Il 26 febbraio il Sant’Uffizio incaricò il cardinale Bellarmino di convocare Galileo e d’intimargli l’abbandono di quelle teorie. «Se non acconsente, sia imprigionato.»

Dal modo come sin lì si era comportato, sembrava che Galileo dovesse condurre la battaglia fino in fondo. Viceversa si arrese quasi senza resistenza, e firmò. Egli non era affatto il codardo mollaccione che Bertolt Brecht ha rappresentato in un suo dramma famoso (e tendenzioso); ma non era nemmeno l’eroe che in buona fede credeva di essere. In lui c’era più spavalderia che coraggio. Si cacciava impetuosamente nella lotta; ma quando si trovava a tu per tu col pericolo, si smarriva. Bisogna anche dire che aveva di fronte un avversario da far raggelare il sangue a chiunque. Bellarmino non era soltanto il più grande controversista della Chiesa di quei tempi, e forse di tutti i tempi, mente lucida e ordinata, argomentatore d’inesauribili risorse. Era l’incarnazione della Controriforma in tutto il suo rigore. Gli storici protestanti e laici ne hanno poi fatto un mostro della persecuzione poliziesca, una specie di Himmler dell’Inquisizione. Non è così, e anche il suo contegno con Galileo lo dimostra. Lo ammonì, cercò di persuaderlo; ma siamo sicuri che non rinunciò a nessuna minaccia pur di ridurlo alla ragione. E le minacce, nelle parole e nello sguardo di quell’uomo inflessibile, dovevano esser tali da spezzare qualsiasi resistenza. Se dopo lo fecero Santo, non fu certo per le sue doti di carità. Bellarmino somigliava più a Ignazio di Loyola, dal cui Ordine del resto veniva, che a Francesco d’Assisi.

Il 5 marzo (sempre del 1616) il Sant’Uffizio pubblicava il suo storico editto: «L’opinione che il Sole stia immobile al centro dell’Universo è assurda, falsa filosoficamente, e profondamente ereticale perché contraria alla Sacra Scrittura. L’opinione che la Terra non è il centro dell’Universo e anche che ha una rotazione quotidiana è filosoficamente falsa, e per lo meno una credenza erronea». La Chiesa credeva così di aver seppellito Galileo; e invece aveva solo dato un colpo di zappa a se stessa. Il mito della sua infallibilità non se n’è mai più riavuto.

Galileo era tornato a Firenze, nella sua villa di Bellosguardo. Vi conduceva vita ritiratissima, sembrava deciso a tenersi fuori dalla polemica, e forse lo era. Ma nel 1622 il suo allievo Guiducci mosse una confutazione a una teoria sulle comete formulata da un altro gesuita, Grassi. Incollerito, costui rispose dando di somaro e di eretico non solo a Guiducci, ma anche al suo maestro. Galileo, cui col tempo la paura era un po’ passata, mandò all’Accademia dei Lincei, perché lo pubblicasse, uno scritto di replica, Il Saggiatore. È forse il più bel componimento di prosa italiana del Seicento perché Galileo era anche un grande, un grandissimo scrittore. Ma negava ogni autorità, in fatto di scienza, che non fosse quella della ragione, dell’osservazione e dell’esperienza. Come dire che la verità non si confuta con gli editti, anche se vengono dalla Chiesa.

Più prudente dell’autore, l’Accademia attenuò questo ed altri passi pericolosi. E così purgata, Galileo poté dedicare l’opera a Urbano VIII che la lesse con compiacimento e l’approvò. Ma questo non fu di grande giovamento all’autore perché, lungi dal disamarli, irritò i gesuiti più che mai all’agguato di un’occasione per fargliela pagare. A fornirgliela provvide lo stesso Galileo. Fidando sulla simpatia del Papa, tornò a Roma per convincerlo delle verità di Copernico. Il Papa gli accordò sei lunghi colloqui e, pur non revocando il divieto dell’Inquisizione, lo rimandò a Firenze con una lettera al Granduca piena di elogi per «questo grande uomo, la cui fama brilla nel cielo e procede sulla terra».

Imbaldanzito da quell’accredito, Galileo si affrettò a completare la grande opera cui in tutti quegli anni di ritiro aveva atteso, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (i sistemi cui si riferiva erano, si capisce, quello tolemaico e quello copernicano), e lo portò a Roma per sottoporlo al Papa. Il Papa lesse anche quello e gli rilasciò l’imprimatur, cioè l’autorizzazione a pubblicare, ma alla solita condizione: che la teoria di Copernico fosse presentata come ipotesi. Galileo s’impegnò e tenne parola. Ma il livore verso i gesuiti e l’ùzzolo di rivincita che covavano in lui lo indussero a strafare. Premise al lavoro una prefazione in cui si faceva chiaramente capire al lettore ch’egli aveva scelto la forma del dialogo per sfuggire all’Inquisizione. E non basta. Il dialogo è fra due sostenitori del sistema copernicano e un paladino di quello tolemaico. Ma costui Galileo lo chiama Simplicio, ch’è sinonimo di sempliciotto o imbecillotto, e gli mette in bocca tutti gli argomenti che i suoi avversari gesuiti avevano svolto contro di lui, facendoli apparire come sofismi (quali del resto erano). Simplicio alla fine vince in forza di un assioma che taglia la testa al toro: la ragione di Dio, dice, ha delle ragioni che la ragione dell’uomo non può comprendere. Quindi è inutile cercar di capire che cosa ha fatto e come lo ha fatto: non resta che accettarlo nel suo imperscrutabile mistero. Ma questo era in realtà ciò che in precedenza aveva detto il Papa. E uno degli altri due interlocutori così lo commenta con evidente sarcasmo: «Mirabile e veramente angelica dottrina».

I gesuiti, che non aspettavano altro, mostrarono il passaggio a Urbano facendogli rilevare che Galileo aveva posto le sue parole in bocca a uno stolto. E il Papa, sentendosi (con qualche ragione) tradito e corbellato dal suo protetto, lo abbandonò alla furia del Sant’Uffizio.

Nell’agosto del 1632, il Dialogo fu messo all’Indice e il suo autore invitato a presentarsi a Roma. Aveva quasi settant’anni, e gli amici cercarono d’indurre il Granduca a prenderlo sotto la sua protezione. Ma il Granduca non osò: dietro l’Inquisizione non c’era soltanto la Chiesa, ma anche la Spagna, e nessuno Stato italiano era in condizione di sfidarne i fulmini. Galileo si presentò il 12 aprile 1633, e fu subito dichiarato in stato d’arresto. Solo quando cadde ammalato, gli consentirono di alloggiarsi in casa dell’ambasciatore fiorentino, ma sotto sorveglianza. Al primo interrogatorio gli chiesero se si riconosceva colpevole. Rispose di no. Ma alcuni giorni dopo ammise di aver esposto la dottrina copernicana con più vigore di quella tolemaica, e si offrì di purgare il testo e di fare penitenza. Negl’interrogatori successivi dichiarò che dall’editto del 1616 aveva smesso di dubitare della validità del sistema tolemaico, e ormai anche lui era arciconvinto ch’era il Sole a girare intorno alla Terra, non viceversa. Qualcuno dice che gli avevano strappato questa menzogna con la tortura. Con la tortura, no. Ma con la minaccia della tortura – ch’è già di per se stessa una tortura –, è probabile.

Il Papa aveva sempre voluto essere informato sugl’interrogatori, ma non ci aveva partecipato, e molti speravano che all’ultimo momento sarebbe intervenuto in favore dello scienziato. Non fu così. L’Inquisizione proclamò Galileo colpevole di eresia e gl’impose di rinnegare le sue teorie. Per quell’uomo orgoglioso dovett’essere terribile pronunciare, inginocchiato, l’atto di ritrattazione: «Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie… e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o per scritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione, ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia, lo denuntiarò a questo Santo Offizio…». Dopodiché il Tribunale gl’inflisse la prigione «per un periodo da determinarsi a nostro piacere», e come penitenza, per tre anni, la recitazione quotidiana dei sette salmi penitenziali. Il Papa non volle firmare la sentenza. Forse aveva tentato di addolcirla, ma i gesuiti gliel’avevano impedito.

La leggenda vuole che, nel lasciare il tribunale, Galileo mormorasse alludendo alla Terra: «Eppur si muove!». Ma non è che una leggenda. L’uomo era distrutto. Dopo pochi giorni gli permisero di tornare nella residenza dell’ambasciatore di Firenze, eppoi di trasferirsi a Siena, nel palazzo del vescovo Piccolomini, suo amico e allievo. Di lì rientrò alla sua villa di Arcetri, a Firenze. Non poteva uscirne, ma gli consentirono di ricevere qualche visitatore, fra cui ci fu il poeta inglese Milton. Una figlia suora era venuta a vivere con lui e si era accollata la penitenza dei salmi.

L’unico ritratto che possediamo di lui – ch’io sappia – è quello che gli fece Sustermans e che oggi si trova alla Galleria Pitti. Sebbene già vecchio, Galileo vi appare in tutta la sua imponenza e nobiltà. Non doveva essere stato un uomo facile, e qualche volta aveva deluso chi vedeva in lui un irriducibile gladiatore. La sua mente era certamente più alta del suo carattere: «la più grande mente di tutti i tempi», la definì il Grozio. Non ebbe il coraggio del martirio; ma ebbe la forza di continuare a essere se stesso anche dopo l’umiliazione. Non potendo più occuparsi di astronomia, tornò ai suoi studi di meccanica facendovi scoperte decisive e dandone notizia al mondo in altri Discorsi e Dialoghi. Siccome in Italia non poteva pubblicarli per via della condanna, li faceva stampare a Leida dalla casa olandese Elzevir. Il Dialogo, tradotto in tutte le lingue, correva il mondo, suscitava polemiche e ammirazione, spianava la strada a Newton. Ogni tanto il gran vecchio alzava lo sguardo al cielo, ma non lo vedeva più perché le cateratte erano calate sui suoi occhi condannandolo al buio; e diceva: «Questo Universo che io ho ingrandito mille volte si è ora ristretto al mio stesso cosmo. Così è piaciuto a Dio, così deve piacere a me». Soffriva d’insonnia, e riempiva le notti col liuto, sua unica consolazione fin quando non perse anche l’udito. Quando s’accorse di esser vicino alla fine, chiese e ottenne il permesso di visitare ancora una volta Firenze. Andò brancolando per le strade sorretto dalla figlia, e non vide nulla perché era completamente cieco. Pochi giorni dopo – aveva settantotto anni – morì fra le braccia dei suoi allievi.

A costoro lasciava una scuola e un esempio. La scuola produsse ancora dei grandi maestri: Torricelli, Redi, Morgagni, Malpighi, Cassini, Borelli, che permisero alla scienza italiana di primeggiare ancora per un pezzo in Europa. Ma l’esempio del maestro scoraggiò questi uomini dal tentare l’elaborazione di veri e propri sistemi e forse gl’impedì di raggiungere la statura del loro iniziatore. Nessuno voleva seguirne la sorte. E così, grazie all’Inquisizione, il pensiero scientifico trasmigrò dall’Italia, e in genere dai Paesi cattolici, per diventare appannaggio di quelli protestanti.

Un’altra cosa che di Galileo non riuscì a fare scuola è la sua prosa. Se i nostri letterati si fossero formati su quella sua, così asciutta e concreta, non avremmo allevato tante generazioni d’insopportabili retori, marci di convenzionalismo e d’accademia. Ma il fatto è che asciuttezza e concretezza sono lo stile della sincerità. E di sincerità, dopo la Controriforma, gl’Italiani non sono stati mai più capaci.