CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

LA REGINA CRISTINA

Nel 1668 venne ad accasarsi a Roma un singolare personaggio, destinato a svolgervi una parte di primo piano fra politica, mondanità e cultura: la regina Cristina di Svezia.

Era figlia di quel Gustavo Adolfo, l’invincibile condottiero protestante della Guerra dei Trent’anni, che abbiamo lasciato cadavere a Lützen nel 1632. Quando era venuta al mondo, la levatrice l’aveva presa per un maschio: un po’ perché così gli astrologi avevano predetto, un po’ perché questo sperava il Re, smanioso di un erede al trono, un po’ perché il corpicino era inguainato nella placenta che gli nascondeva il sesso e si dimenava con virile protervia. Gustavo accolse il disinganno con filosofia. Sollevando la creaturina fra le braccia, disse: «Dev’essere in gamba, visto che ci ha imbrogliato così bene». Cristina aveva sei anni, quando rimase orfana. Più che sua madre Eleonora – una Principessa Hohenzollern di Prussia, frivola e isterica –, alla sua educazione sovrintese il cancelliere Axel Oxenstierna, uno statista fra i più grandi del Seicento, imbevuto di Tacito e di Seneca. Era sempre stato l’uomo di fiducia di Gustavo che prima di morire lo aveva nominato reggente e tutore della figlia. La scelta non poteva rivelarsi più giudiziosa. Oxenstierna assunse il comando dell’esercito rimasto orfano del suo grande condottiero, lo guidò in altre vittoriose battaglie, e quando Cristina raggiunse la maggiore età, cioè i diciott’anni, le consegnò uno Stato potente e magnificamente organizzato.

Checché dicano certi memorialisti in vena di piaggeria, Cristina non era bella, né faceva nulla per sembrarlo. Aveva un corpo fragile, ma le giunture massicce, la fronte alta e prominente, naso imperioso, bocca larga. Si lavava poco, vestiva come un bùttero, cacciava con passione, e bestemmiava abbondantemente. Alcuni biografi dicono che si comportava così, da maschio, perché sua madre non faceva che rinfacciarle di essere nata femmina. Comunque dava proprio l’impressione di aver sbagliato sesso. Prediligeva infatti la compagnia degli uomini, e si dice che ne abbia amato uno: Magnus de la Gardie. Ma non sembra che la relazione sia uscita dal campo dei sentimenti. Il gesuita che dopo la conversione essa si prese come confessore riferì all’ambasciatore di Spagna che Cristina era allergica all’amplesso perché ci vedeva una forma di sottomissione che il suo carattere indipendente non poteva accettare. Detto in parole povere, era lesbica, e nemmeno la ragion di Stato che le imponeva di dare un erede al trono riuscì a farle superare la repulsione al matrimonio. Rimase ostinatamente zitella, e le uniche lettere d’amore le scrisse a una damigella di Corte, Ebba Sparre, che un giorno presentò all’ambasciatore inglese dicendogli con la sua abituale sfrontatezza: «Ecco la mia compagna di letto».

Anche perché dormiva poco, aveva studiato furiosamente, conosceva il latino, il greco e l’ebraico, oltre a quattro lingue moderne fra cui l’italiano, e teneva un’attiva corrispondenza con tutti i «notabili» della cultura europea. Ne attirò alcuni alla sua Corte, da Grozio a Cartesio, e a molti altri diede modo di proseguire i loro studi con generosi finanziamenti. La sua passione mecenatesca era di stampo rinascimentale. Vuotò le casse del Tesoro per fare di Uppsala la più grande Università del Nord, altre due ne creò a Turku in Finlandia e a Tartu in Estonia, che allora facevano parte dei suoi possedimenti, impiantò una casa editrice importando stampatori dall’Olanda, e ingaggiò Comenio come riformatore del sistema scolastico. Questo la mise spesso in urto con Oxenstierna, l’integro e fedele Cancelliere che aveva a cuore il bilancio. Ma non c’è dubbio che la Svezia fece con Cristina il salto che l’Inghilterra aveva fatto con Elisabetta.

Attività e successi non bastavano tuttavia a riempirle la vita. Cercò un compenso alla propria irrequietezza nella filosofia, e si mise in relazione con Pascal, che le mandò in dono, come abbiamo detto, una specie di computer avanti lettera di sua invenzione. Che fosse travagliata da un vero e proprio problema religioso, molti lo mettono in dubbio, e anche noi ci crediamo poco. I dignitari della Chiesa luterana cui la Svezia si era massicciamente convertita accusavano anzi Cristina di ateismo, e ne davano la colpa al suo medico francese Bourdelot, ch’era anche suo consulente spirituale. Secondo Voltaire, essa si era convinta, a furia di bazzicar filosofi, che la verità è per l’uomo un traguardo irraggiungibile, e che perciò meglio valeva contentarsi di quella rivelata dalla Chiesa cattolica, che almeno aveva dalla sua l’autorità dei secoli e di Roma.

Forse è così. Ma forse, sulla sua inclinazione, influirono anche altri motivi. I luterani, cui era stata affidata la sua educazione religiosa, avevano seguito il precetto dei gesuiti: «Impadronitevi di un’anima di sette anni, e sarà vostra per tutta la vita». Ma qualche volta succede il contrario. E questo crediamo che sia stato il caso di Cristina. Essa aveva detestato i minacciosi sermoni e il severo rituale di quei suoi precettori, che cercavano d’istillarle insieme l’amore della Bibbia e l’odio per la cultura umanistica e rinascimentale di cui il cattolicesimo è intriso. E forse era stato proprio per reazione a questa severa pedagogia che la giovanetta si era tuffata in quella cultura e se n’era imbevuta. Se vi cercasse una consolazione dell’anima, non sappiamo. Certamente vi trovò un appagamento dell’intelletto e dei sensi. Ciò che l’attirava delle cattedrali e basiliche romane non era Dio, ma Raffaello e Michelangelo. La Regina di Svezia non amava la Svezia, e cercava di trasformarla in un’altra Italia.

Contro la conversione militava la ragion di Stato. Come poteva la figlia del grande campione della causa protestante rinnegare la fede del padre e restare regina di un Paese luterano? Ma d’altra parte perché restarlo, visto che non poteva dare un erede al trono? Per anni essa covò la sua irresolutezza, ma senza del tutto riuscire a nasconderla. Nel Paese cominciarono a serpeggiare inquietudini e sospetti, di cui alcuni nobili si avvalsero per tentare una rivolta. Cristina la soffocò alla maniera del padre, cioè col sommario massacro dei responsabili. Ma era scontenta della Svezia, e la Svezia di lei. Con la sua prodigalità, aveva aperto grosse falle nel suo patrimonio privato, e il ferreo Oxenstierna, appoggiato dal parlamento, le impediva di stender la mano su quello dello Stato. Inoltre la salute aveva smesso di assisterla, il rigido clima le procurava continue bronchiti, e questo le impediva di trovare sfogo nelle cavalcate e cacciate di un tempo.

Nel 1651 (aveva venticinqu’anni), essa scoprì che un interprete dell’Ambasciata portoghese, un certo Macedo, era in realtà un gesuita addetto allo spionaggio. Invece di espellerlo, se lo prese come confidente, ebbe con lui varie discussioni sul problema religioso, e un giorno gli consegnò una lettera per il Generale dell’Ordine a Roma, in cui essa chiedeva di mandarle – travestiti, s’intende, e con falso nome – due teologi che la preparassero alla conversione. L’invito suscitò grande sensazione in Curia, dove lì per lì si pensò che l’abiura di Cristina, oltre a rappresentare un grosso colpo propagandistico per la Chiesa, le avrebbe permesso di recuperare l’intera Svezia, ormai tra le più forti potenze europee. Ma i due messi, inviati subito a Stoccolma, furono presto disingannati. Essi trovarono un’interlocutrice in preda più a preoccupazioni politiche che a crisi mistiche. Cristina non voleva discutere di teologia; voleva soltanto sapere quale rango le avrebbero riconosciuto a Roma se vi si fosse stabilita, e intanto preparava con Oxenstierna una successione al trono che garantisse alla Svezia la continuità dinastica e a lei personalmente una liquidazione di tutto favore. Malgrado le sue turbe spirituali, essa insomma restava una donna coi piedi ben piantati per terra, e lo dimostrò contrattando puntigliosamente titoli, appannaggio e prebende.

Come erede si era scelto il cugino Carlo Gustavo, che già le aveva inutilmente proposto di sposarla e che aveva dato buone prove di soldato e di statista. Il parlamento espresse il suo gradimento, e nel giugno del 1654 Cristina disse addio al suo trono e al suo popolo. La cerimonia fu solenne e commovente. Cristina depose su un cuscino la spada e lo scettro, svestì il rosso manto regale restando in un semplice abito di seta bianca, e pronunciò un breve discorso, patetico ma senza retorica, che inumidì gli occhi di tutti gli astanti. Quando curvò la testa perché le togliessero la corona, nessuno volle farlo, ed essa dovette ricorrere a un ordine. Fu l’ultimo che dette come regina, ma non come donna. Poi fece, da suddita a sovrano, una riverenza a Carlo Gustavo, che reciprocò la cortesia reggendo a Cristina le redini del cavallo. Era un gesto importante, nell’etichetta di allora: per secoli, Papi e Imperatori si erano furiosamente contesi il diritto di esigerlo gli uni dagli altri. Esso riassumeva i cavallereschi sentimenti del nuovo Re, coronato col nome di Carlo X, verso Cristina. Per la traversata del Baltico, egli le offrì una intera flotta, ch’essa declinò; eppoi la rincorse fino a Halmstad in Germania con un messaggio in cui ancora una volta le proponeva di sposarlo e di dividere il trono con lui. Ma Cristina, mettendo piede sul continente, aveva esclamato con tripudio: «Eccomi finalmente libera e lontana dalla Svezia, dove spero di non tornare mai più!».

Il seguito delle sue avventure dimostra quanto essa ne fosse avida. Vestita da uomo e con un falso nome, si divertì a beffare i Reali di Danimarca ch’erano venuti ad accoglierla alla frontiera e che videro arrivare soltanto il suo bagaglio. Scandalizzò la Germania razzista facendosi ospitare ad Amburgo dal suo banchiere ebreo. Attraversò in incognito la protestante Olanda. Ma in Belgio, Paese cattolico, si presentò da Regina, e come tale volle essere trattata. L’atto di abiura alla fede luterana non lo aveva ancora compiuto. Intendeva farlo a Roma, un po’ per dare al gesto la solennità di cui era sempre avida e che solo i drammatici scenari dell’Urbe potevano conferirgli, un po’ perché voleva risolvere le sue pendenze finanziarie con la Svezia prima d’inimicarsene con quel gesto la pubblica opinione. S’era infatti accorta che le vaste proprietà immobiliari lasciate lassù le rendevano poco, pretendeva rivenderle allo Stato, e siccome Carlo nicchiava, cominciò a spargere calunnie contro di lui. Arrivò perfino a dire che non riusciva a montare a cavallo tant’era grasso: il che, riferito a un condottiero che tra poco avrebbe offuscato perfino il ricordo del grande Gustavo Adolfo quanto a rapidità di manovre, diventava ridicolo.

Il Papa le fece però sapere che a Roma doveva presentarsi già convertita. E questo la costrinse ad anticipare la cerimonia a Innsbruck. L’Urbe tuttavia gliene preparò un’altra in cui rifulse tutto il suo genio teatrale e pubblicitario. Cristina fu accolta come se nelle sue valige portasse, per restituirle alla Chiesa, le province che Lutero le aveva tolto. Tutto il Clero in paramenti, capeggiato da una trentina di Cardinali, e tutto il popolo guidato dai suoi nobili in alta uniforme la scortarono fino a San Pietro, dove Alessandro VII l’attendeva. Ci furono parate, feste, luminarie a non finire.

L’illustre ospite si accasò dapprima in palazzo Farnese, ed ebbe Roma ai suoi piedi. Dopo aver tanto almanaccato per disfarsi del suo titolo di Regina, teneva moltissimo a essere considerata ancora tale, e i Romani la contentarono facendo di lei la loro first lady. Prima di fissarsi definitivamente fra loro, volle fare un viaggio in Francia per incontrare non tanto Luigi XIV, appena diciottenne, quanto gli scrittori e gli scienziati, di cui le era giunta la fama. Voltaire dice che volle vedere anche Ninon de Lenclos, temporaneamente rinchiusa in convento da tante ne aveva fatte, perché l’attiravano i suoi peccati, il suo spirito e la sua spregiudicatezza. Parigi fu piuttosto scandalizzata dai modi di quella strana donna che parlava e rideva a voce troppo alta e contravveniva continuamente all’etichetta, pur esigendone dagli altri il più scrupoloso rispetto. Ma fu addirittura orripilata quando Cristina, accortasi che un gentiluomo del suo seguito, Monaldeschi, faceva dello spionaggio contro di lei, lo condannò a morte e lo fece giustiziare negli appartamenti in cui il Re la teneva ospite. Tutti trassero un respiro di sollievo quando quell’ingombrante personaggio ripartì per l’Italia.

Rientrata a Roma, lasciò palazzo Farnese, troppo costoso per le sue malcerte finanze, e si trasferì in quello Corsini, che allora portava il nome dei Riario. Glielo aveva trovato il cardinale Decio Azzolino, diventato il suo uomo di fiducia e forse qualcosa di più. Qui siamo di fronte allo stesso mistero che seguita ad avvolgere i trascorsi con Magnus. Le inclinazioni di Cristina non erano certamente cambiate. Pur prediligendo la compagnia degli uomini, essa continuava a nutrire per il loro amplesso la più profonda avversione, e della perdita di Ebba si era consolata prendendo sotto la sua protezione una certa Angelica Giorgini, eccellente soprano e gran bella figliola. Per di più Azzolino non aveva niente di efebico. E nulla di lui, se non l’intelligenza, poteva attirare Cristina. Eppure, anche se non sappiamo fino a che punto, un idillio fra loro ci fu. «Voglio vivere e morire come vostra schiava» essa gli dice in una lettera. Tutta Roma parlava di quella relazione. E il Cardinale dovette giustificarsene di fronte al Papa, giurandogli che in essa non c’era nulla di peccaminoso.

Il Papa non era più Alessandro VII, ma Clemente IX, un Rospigliosi gran signore, che condivideva la passione festaiola di Cristina. Insieme essi organizzarono nel 1669 il più bel Carnevale di tutti i tempi, con accecanti luminarie e chilometriche sfilate di carri. Su uno di essi troneggiava, in vesti di Armida, Maria Mancini Colonna, la nuova bellissima «stella» del gran mondo romano. Sembra che fra le due donne covasse una sotterranea rivalità. Ma Cristina ebbe l’avvertenza di nasconderla, e dal suo palco regale ricambiò la riverenza della bellissima trionfatrice col gesto con cui i sovrani in carica designano l’erede al trono. Essa si prese comunque una specie di rivincita intellettuale finanziando uno spettacolo teatrale per intenditori, L’empio punito di Filippo Acciajoli, affidato all’interpretazione del più grande attore dell’epoca: Tiberio Fiorilli, detto Scaramuccia. Con tutti gli esponenti dell’aristocrazia e della cultura, presenziavano ventisei Cardinali e, nascosta in un palco perché non invitata, Maria Mancini.

Cristina era ormai la grande patronessa della vita romana, che gravitava quasi esclusivamente su palazzo Riario. Qui essa aveva fondato una Accademia reale, che fu il nucleo originario della famosa Arcadia, e di cui essa stessa aveva redatto statuto e regole. I suoi interessi erano leonardeschi. Come archeologa, intraprese degli scavi e ne fu compensata dal rinvenimento di una stupenda Venere del primo secolo avanti Cristo. Come collezionista, riuscì a incettare tele di Tiziano, Rubens e Raffaello. Adorava Bernini, andava sovente nel suo studio a guardarlo scolpire, gli commissionò uno specchio, e quando il maestro morì lasciando una modesta fortuna di quarantamila scudi, Cristina esclamò: «Se fosse stato al mio servizio, sarebbe stato molto più ricco».

La sua passione fondamentale però restava il teatro. Avrebbe voluto averne uno per conto suo come i Colonna e i Barberini, ma non avendo abbastanza soldi per mantenerlo, si contentò di aiutare l’Acciajoli a fondare quello di Tor di Nona, che fu inaugurato nel 1671 con un’opera lirica, Scipione Africano, dedicata a lei, e fu un grande successo. Da allora essa lo diresse quasi da impresaria scritturando di persona i cantanti. Ne ebbe alle sue dipendenze di famosi, e ne era così gelosa che quando il Duca di Savoia le portò via il castrato Antonio Rivani detto Cicciolino, il Caruso del tempo, essa scrisse a un suo agente: «Fate sapere a tutti che Cicciolino è roba mia, e se non canta per me non canterà per nessun altro. Se ha perso la voce, come vogliono farmi credere, non importa: lo rivoglio com’è, e guai a lui se non torna al mio servizio». Cicciolino, che conosceva la storia del Monaldeschi, si affrettò a obbedire.

Un’altra passione di Cristina, condivisa da Azzolino, era l’alchimia. Aveva istallato a palazzo Riario una «distilleria» cui aveva preposto il più accreditato «mago» del tempo, il Bandera, di cui seguiva con trepidazione gli esperimenti. Diceva di farlo per amore della scienza, di cui pure si considerava patronessa, fino a mettere a disposizione i suoi saloni all’Accademia di Esperienza fondata in quegli anni dal Campini. In realtà – ed era questo uno dei suoi pochi caratteri femminili –, era il lato stregonesco e fattucchiero di quegli almanaccamenti fra storte e alambicchi, che sollecitava la sua fantasia.

Perché di fantasia ne aveva molta, e la sfogava in ogni sorta di tresche, anche politiche. Dopo aver rinunziato a un trono, non aveva mai smesso di brigare per procurarsene un altro: ora quello di Polonia, ora quello di Fiandre, ora quello di Napoli. Ogni tanto studiava progetti e avanzava proposte fantapolitiche, come quella che Cromwell, il dittatore puritano d’Inghilterra, abbracciasse la fede cattolica rinnegando quella calvinista, e ottenesse dalla Chiesa l’investitura a Re. Non rinunziò mai al sogno di combinare un’alleanza fra i sovrani d’Europa per una Crociata contro i Turchi, di cui sperava che le affidassero il supremo comando: e qui era il sangue paterno che le ricicciava nelle vene.

Ma era soprattutto nei Conclavi che si sbrigliavano le sue risorse d’intrigo, perché questa devota figlia della Chiesa si comportava come se ne fosse stata la madre. Naturalmente essa avrebbe voluto vedere sul Soglio il prediletto Azzolino. Ma siccome costui non era «papabile», entrambi si battevano per il successo di qualcuno della loro clientela. E per tenere Cristina al corrente di come andavano le cose, Azzolino violava anche il segreto del Conclave, inviandole di nascosto delle lettere in cui alle previsioni sulle scelte dello Spirito Santo si mescolavano spunti di galanteria. Ma il giuoco era più grosso di loro, e quasi sempre li deluse. Lo smacco più cocente l’ebbero alla morte di Clemente X, quando al Soglio salì, come Innocenzo XI, l’austero Odescalchi, che i Romani ribattezzarono subito «Papa minga» per la sua propensione a rispondere a tutto e a tutti di no nel suo dialetto milanese. Lo disse subito anche al teatro di Tor di Nona ordinandone la conversione in un granaio. Cristina reagì con tali bestemmie, che perfino i suoi stallieri ne furono scandalizzati.

Per un pezzo essa covò addirittura il proposito di lasciare Roma, ora che quel Pontefice puritano la stava trasformando in una quaresima da farle rimpiangere la Stoccolma luterana, e scrisse a suo cugino Carlo chiedendogli l’investitura al Ducato di Brema. Ma anche quella manovra andò a monte, e l’inacidita Cristina si sfogò in calunnie e provocazioni contro Innocenzo. Un giorno un servo dell’Ambasciata di Francia fu arrestato per furto, ma riuscì a scappare e si rifugiò in palazzo Riario. Le guardie papaline cercarono di riacciuffarlo, ma Cristina le fece scacciare, e quando seppe che il tribunale aveva condannato in contumacia il transfuga alla pena capitale, scrisse al magistrato: «Avete disonorato voi stesso e il vostro padrone. Ma io vi giuro che i vostri condannati a morte vivranno. E se dovessero morire di morte violenta, altri farà la stessa fine». Quando glielo riferirono, il Papa commentò con un sospiro: «Eh, le donne!».

Con gli anni, la sua protervia un po’ si addolcì. Aveva cominciato a scrivere la propria biografia. Ma, essendo buon giudice di prosa, capì che la sua non valeva granché, e ripiegò sulla confezione di certi aforismi in cui c’è un po’ di La Rochefoucauld, un po’ di Molière, ma parecchio anche di Cristina. Un turista francese che venne a visitarla nel 1688 così la descrive: «A sessant’anni suonati, è quasi più larga che lunga, vestita come una contadina, con un gran naso, grandi occhi blu e un doppio mento da cui spruzzano isolati peli di barba». Seguitava a interessarsi di tutto, ma cominciava ad accorgersi che viveva in un Paese in piena decadenza. Scriveva al suo vecchio amico Bourdelot: «Qui, di vivo, ci sono soltanto i morti, e solo con loro si può parlare…».

Un giorno, alla fine di quello stesso anno, stava provando un abito da cerimonia, quando entrò una cartomante che aveva libero accesso alle sue stanze. Cristina le disse: «Sento che questo abito lo indosserò per una cerimonia molto importante. Riesci, sibilla, a vedere quale?». «Sì,» rispose la donna «il vostro funerale, che non è molto lontano.» «Hai detto il vero, ma lo sapevo digià» commentò Cristina, imperturbabile.

Si ammalò poco dopo, durante un viaggio nel Mezzogiorno. Non era una novità: per tutta la vita aveva sofferto, a periodi, di febbri e svenimenti, di cui nessun medico era riuscito a capire l’origine. Molto probabilmente si trattava di manifestazioni psicosomatiche perché si accompagnavano a coliti, depressioni e insonnie. Ma stavolta la crisi fu più grave e seguita da una tale prostrazione che disperarono di salvarla. Invece poi migliorò. E forse si sarebbe del tutto rimessa, se non le fosse occorso un incidente che agì su di lei come un trauma.

La sua diletta Angelica viveva confinata nel palazzo da quando il Papa, che nel suo odio per ogni mondanità e specialmente per il teatro considerava le cantanti come donne perdute, aveva ordinato di rinchiuderla in convento. Cristina naturalmente se la teneva in casa non solo per amore di lei, ma anche per dispetto al Pontefice. Bella com’era, la ragazza faceva gola a molti uomini. E fra questi c’era un abate Vanini, noto libertino, che con una mancia di mille scudi riuscì a corrompere la madre di Angelica e si fece introdurre nel suo appartamento. Ma la ragazza oppose resistenza e lanciò tali urla che i servi accorsero e costrinsero il ribaldo alla fuga.

Quando Cristina, tuttora a letto convalescente, lo seppe, in un accesso di furore ordinò al capitano delle sue guardie di acciuffare l’abate e di portarglielo vivo o morto, eppoi svenne. Non si riprese più. Per alcuni giorni rimase senza coscienza, costantemente vegliata dal fedele Azzolino e dalle preghiere del Papa che, dimentico dei vecchi dissapori, le mandò la sua speciale benedizione. E all’alba del 19 aprile (1689) spirò. Nel testamento nominava Azzolino suo erede universale ed esprimeva il desiderio di essere sepolta senza alcuna pompa nel Pantheon, accanto al suo prediletto Raffaello. Sebbene Azzolino lottasse fino all’ultimo per far rispettare le sue volontà, esse furono sacrificate alle convenienze pubblicitarie. Per quattro giorni tennero esposto il cadavere in una sontuosa cappella ardente, eppoi lo condussero in solenne processione fino a San Pietro, dove lo sotterrarono. Ma – fosse per sbaglio o con malizia – la corona che le avevano deposto sulla bara non era quella vera di Regina, ma quella ch’essa aveva portato nel suo primo Carnevale romano del 1669. Azzolino pensò di elevarle un monumento, ma non fece in tempo perché anche lui morì poco dopo. Solo alla fine del secolo papa Clemente XI, uno dei pochi sopravvissuti frequentatori di palazzo Riario, ne affidò l’incarico allo scultore Fontana.

L’opera è pregevole. Ma il suo stile agiografico e declamatorio, lungi dal rivelarlo, tradisce in pieno il carattere di Cristina: questa figlia del reggimento dal sesso sbagliato, popolana, selvatica e autoritaria, che anche senza trono era riuscita a restare Regina, ma mai a diventare quello che più di ogni altra cosa avrebbe voluto essere: una donna.