CAPITOLO VENTISETTESIMO

IL PIEMONTE

Anche nella seconda metà del Seicento l’unico Stato italiano politicamente vivo rimase il Piemonte. La riconciliazione fra madamisti e principisti, suggellata dall’accordo di Torino del 1642, aveva composto, almeno in apparenza, le beghe interne, ma non aveva eliminato lo zampino francese a Corte, dove gran parte della nobiltà seguitava a nutrire sentimenti gallicani e ad adottare fogge e pose parigine. Le donne – scrive un cronista dell’epoca – si vestono «alla franzesa», mostrano sfacciatamente il seno, baciano gli uomini in pubblico. Quanto a Madama Reale, nelle cui vene scorre il sangue dei Borboni, il suo cuore batte più di là che di qua delle Alpi. I Francesi mantengono a Torino un presidio con tre reggimenti al cui sostentamento devono provvedere i suoi abitanti. Nel 1645 la guarnigione si restringe nella cittadella, ma solo dodici anni dopo si decide a sloggiare.

Nel novembre 1659 la pace dei Pirenei pose ufficialmente fine alla guerra franco-spagnola, di cui il Piemonte era stato uno dei principali teatri, reintegrò il Duca di Savoia nelle terre che il trattato di Cherasco gli aveva assegnato, ma ribadì la presenza francese a Pinerolo. Quattro anni dopo, Madama Reale calò nella tomba. Furono in molti a trarre un sospiro di sollievo, ma il più profondo lo tirò senza dubbio il figlio Carlo Emanuele II.

Nel 1663 il Duca aveva ventinove anni, da quindici era maggiorenne, cioè legittimo sovrano, ma di fatto le redini del potere le aveva sempre tenute la madre. Essa lo aveva circondato d’allegre compagnie e di belle donne nella speranza, forse, di svogliarlo per sempre dalle cure dello Stato. Tuttavia, per assicurare un erede alla dinastia, decise d’ammogliarlo a una lontana nipote, Giovanna Battista di Savoia Nemours, donna di grande bellezza e di rara intelligenza. Appena il Duca la vide, se ne innamorò contravvenendo ai patti, o almeno ai calcoli della madre. La quale, temendo che il figlio diventasse succubo della moglie, mandò a monte il matrimonio. Poco dopo capitò a Torino una nobile francese, Giovanna Maria di Trécesson. Il Duca, che aveva evidentemente la cotta facile, dimenticò la cugina e s’invaghì della nuova venuta, che non impalmò, ma dalla quale ebbe tre figli. Nel 1663, finalmente, condusse all’altare la nipote del Re di Francia, Francesca d’Orléans, passata alla storia col vezzeggiativo di «Colombina d’amore». Ma l’unione durò solo un anno, perché nel gennaio 1664 Francesca morì.

Rimasto nello spazio di pochi mesi orfano e vedovo, Carlo accantonò per il momento l’idea di nuove nozze e si diede anima e corpo al mestiere di sovrano. Dalla madre e dagli antenati aveva ereditato la mania di grandezza e il mal della pietra. Voleva fare del Piemonte un grande Stato e di Torino una metropoli di rango europeo. Quand’era ancora in vita Madama Reale aveva speso somme favolose per abbellire la capitale, disseminandola di ville e palazzi e chiamandovi artisti di grido da ogni parte della Penisola, di cui il più illustre fu il teatino Guarino Guarini, che Carlo nominò ingegnere ducale e che progettò la cappella della Sindone, la chiesa di San Lorenzo e quella dell’Immacolata. Grazie a lui, Torino diventò un immenso cantiere, brulicante di muratori, sterratori, capimastri, decoratori, pittori, stuccatori. La città, che la peste del 1630 aveva spopolato, riprese nuovo slancio demografico. E fu il boom, dopo i lunghi e sanguinosi anni di guerra.

Vi contribuirono molte cose, ma soprattutto il fatto che il Piemonte aveva ormai uno Stato, cioè qualcosa che si sovrapponeva agl’interessi particolari, e riusciva a tenerli in freno. I nobili ne formavano il nerbo. Essi vi godevano molti privilegi, ma li ripagavano col «pubblico servizio». L’aristocrazia sabauda si sentiva moralmente impegnata a mantenere le cariche di «vertice» anche perché non era abbastanza ricca per potersene esentare. I patrimoni erano soltanto terrieri e non molto vasti. I poderi non rendevano abbastanza per mantenere il castello che s’ergeva sul cucuzzolo della collina o il palazzotto in città. Quindi ci voleva l’impiego che obbligava il nobile piemontese a indossare la divisa d’ufficiale o la feluca di diplomatico. A questa nobiltà, d’origine guerriera e feudale, se n’andava giustapponendo una nuova d’estrazione borghese. Erano stati i Duchi stessi a crearla per bilanciare e tenere in rispetto quella di sangue. Nelle sue file militavano avvocati, magistrati, notai, medici. La borghesia vera e propria, priva di blasone, ma laboriosa, agiata e socialmente evoluta, era un altro solido puntello dello Stato sabaudo. Quanto al popolo, godeva d’un benessere superiore a quello del resto della Penisola, fatta eccezione forse per Venezia.

Anche nelle campagne, che più avevano subìto gli orrori della guerra e le devastazioni delle soldatesche, la vita aveva ripreso il suo ritmo normale. Il Duca non aveva lesinato in provvidenze, sovvenzioni e mutui ai contadini più bisognosi. Sotto di lui anche il commercio era rifiorito e gli scambi con gli altri Stati italiani e stranieri s’erano infittiti. La morte improvvisa a soli quarantun anni gl’impedì di portare a termine quest’opera di ricostruzione. Fu stroncato nel 1675 da una febbre violenta, dovuta probabilmente alla malaria e non – come hanno insinuato alcuni storici – agli strapazzi sessuali. Presagendo la fine convocò al capezzale la moglie, quella Giovanna Battista ch’era stato il suo primo amore e che poi aveva finito per sposare, e il figlioletto Vittorio Amedeo. Quindi chiese il viatico. Mentre il prete glielo porgeva, udì un vocìo di folla levarsi da dietro la porta della sua camera. «Fatela entrare» disse «perché veda che anche i Principi muoiono.»

Vittorio Amedeo aveva nove anni e doveva aspettarne altri cinque per diventare maggiorenne e assumere personalmente il potere, ma a Corte molti scommettevano che sarebbe morto prima. Pallido, fragile, mingherlino, non poteva sottoporsi ad alcuno sforzo, passava lunghi periodi a letto, circondato da medici, infermieri, stregoni. Quale male l’affliggesse con precisione nessuno lo sapeva. Le diagnosi erano contraddittorie, le terapie generiche e bislacche. Per anni gli furono propinati gl’intrugli più strani, finché un giorno un medico di nome Petecchia consigliò la Duchessa di dargli da mangiare certi bastoncini di farina chiamati grissini. Abbiamo qualche dubbio sulle qualità terapeutiche dei grissini. Ma i memorialisti assicurano che in poche settimane il piccolo Vittorio rifiorì.

Giovanna Battista ne fu felice come madre, ma non come reggente. L’idea che il figlio, raggiunta la maggiore età, rivendicasse i propri diritti, sottraendoli a lei, poco le garbava. Per scongiurare questo pericolo fece con Vittorio quello che la suocera aveva fatto col marito. L’allevò nella bambagia, l’affidò a governanti smidollati, a precettori ignoranti e a dame di facili costumi. Ma l’influsso che costoro esercitarono sul giovane Duca deluse le sue aspettative. Dapprincipio Vittorio s’abbandonò ai piaceri della caccia, della mensa e dell’alcova, e frequentò compagnie scioperate e dissolute, ma poi finì per mettere la testa a partito. E la Duchessa allora decise di farlo sposare all’Infanta del Portogallo, unica erede al trono del suo Paese. Era un modo come un altro per allontanarlo dal Piemonte, nell’illusione di restarne l’incontrastata padrona. Ma la Corte insorse inviperita contro questo progetto, che avrebbe messo lo Stato sabaudo alla mercé della corona lusitana, e Giovanna Battista dovette cercare al figlio un’altra moglie. La trovò nella nipote di Luigi XIV, Anna d’Orléans. Nel 1684 venne stipulato a Versailles il contratto di matrimonio, che si celebrò in quello stesso anno. Alla vigilia (nel febbraio), come un fulmine a ciel sereno, il Duca diede l’annuncio che avrebbe assunto i pieni poteri, detenuti fin allora dalla madre. Costei fece buon viso a cattiva sorte e uscì di scena senza colpi di scena.

La reggenza era durata anche troppo e i suoi effetti erano stati deleteri. Giovanna Battista aveva fatto dello Stato sabaudo un satellite di Parigi, per oltre dieci anni gli ambasciatori del Re Sole avevano intrigato a Corte e gli eserciti francesi avevano trattato il suolo piemontese come terra di conquista. Le decisioni prese a Versailles s’erano puntualmente ripercosse al di qua delle Alpi. La revoca, ad esempio, dell’editto di Nantes, contro gli ugonotti, scatenò un terribile pogrom delle popolazioni valdesi, che abitavano il versante orientale delle Alpi Cozie e le sue scoscese e inaccessibili valli.

Abbiamo fatto la conoscenza di questa setta nell’Italia dei Comuni, rievocandone sommariamente la figura del fondatore. Vediamola ora più da vicino. Capiremo meglio la politica dei Savoia in questo periodo.

Si chiamavano valdesi dal nome del loro capostipite Pietro Valdo, un ricco mercante di Lione che nel dodicesimo secolo, in seguito a una crisi religiosa, s’era spogliato di tutti i suoi beni, li aveva donati ai poveri, s’era messo a leggere, anzi a farsi tradurre dal latino la Bibbia e a spiegarla in pubblico. Il gesto gli aveva attirato l’ostilità del Clero ufficiale, che delle Sacre Scritture si riteneva l’esclusivo depositario e l’infallibile interprete. Ma Valdo non s’era limitato a questo. Era andato più in là. Aveva denunciato gli abusi e la corruzione dei preti e proclamato che solo il ritorno alle fonti evangeliche poteva redimere la Chiesa e salvare la fede. Valdo aveva messo il dito sulla piaga e molti concittadini erano diventati suoi seguaci, si facevano chiamare «Poverelli di Lione», s’erano sbarazzati di tutti i loro averi, avevano adottato la regola essenica degli antichi apostoli e messo tutto in comune tra loro.

Il movimento s’ingrossò rapidamente, i suoi adepti si moltiplicarono al punto che le autorità s’allarmarono e presero a perseguitarli. Valdo s’appellò direttamente al Papa, che non solo lo difese, ma ne benedisse i propositi. L’avallo pontificio non intimidì il Clero francese, tollerante in fatto di dottrina, ma intransigente nella difesa dei propri interessi temporali. Valdo fu messo al bando. Non passò molto tempo che anche Roma, di fronte ai progressi dei Poverelli di Lione, prese posizione contro il loro capo, e nel 1183 lo scomunicò. La data è importante perché segna il distacco definitivo di questi dissidenti dalla Chiesa cattolica e l’inizio della loro tribolata diaspora.

I valdesi sciamarono in Boemia, dove il fondatore morì, in Austria, in Germania, in Francia, ma soprattutto in Italia. Qui si sparsero un po’ dovunque: in Lombardia, nel Veneto, in Toscana, in Umbria, in Calabria. Ma la schiera più nutrita e compatta approdò, come abbiamo visto, sul versante orientale delle Alpi Cozie. Si riconoscevano perché vestivano con semplicità, erano schivi, modesti, frugali. Non praticavano il commercio, si rifiutavano di prestar giuramento, non accumulavano ricchezze, non frequentavano locali pubblici, disdegnavano i clamori, lavoravano, pregavano e si riunivano solo tra loro. Qualcuno li accusò per questo di deviazioni sessuali, ma non si trattava che d’infami calunnie. Sul piano dottrinale negavano al sacerdote la funzione di mediatore tra l’uomo e Dio, condannavano le indulgenze e rifiutavano l’idea del purgatorio come anticamera del paradiso. Erano, per quei tempi, dei veri e propri rivoluzionari. Molte loro idee saranno riprese più tardi dai grandi riformatori protestanti.

Fin dapprincipio la vita dei valdesi riparati nelle valli del Piemonte fu grama. Nel 1210, l’imperatore Ottone IV ordinò al vescovo di Torino d’espellerli dalla città. Dieci anni dopo, a Pinerolo, un bando comminava una multa di dieci soldi a chi dava loro ospitalità. Nel 1297 Filippo di Savoia, principe di Acaja, incaricò un inquisitore di cacciarli dalle sue terre. Ma rinunziamo a elencare le persecuzioni subite dai valdesi nei secoli. Sono troppe. Ci limiteremo a quelle più mostruose. Nel 1560 Emanuele Filiberto, d’accordo coi Re di Francia e di Spagna, s’impegnò a estirpare dal suolo sabaudo l’eresia: decine di valdesi finirono sul rogo, molti fuggirono in Svizzera, tutti ebbero i beni confiscati. Quelli che rimasero in Piemonte si disposero a una resistenza disperata, e nel giugno dell’anno successivo riuscirono a ottenere una limitata libertà di culto.

Nello stesso 1561 un massacro di proporzioni ben più spaventose fu perpetrato in Calabria, dove viveva una colonia valdese d’alcune migliaia d’anime, aggrumate nei villaggi di La Guardia e San Sisto. L’ordine di sterminio partito da Madrid fu eseguito dal governatore spagnolo con implacabile zelo. Le testimonianze che i contemporanei ci hanno lasciato di questo genocidio sono agghiaccianti. Eccone una di fonte cattolica: «Oggi di buon’ora s’è ricominciato a fare l’orrenda giustizia di questi luterani (così si chiamavano a quei tempi tutti i ribelli della Chiesa), che solo il pensarvi è spaventevole. Erano tutti serrati in una casa, e veniva il boia e li pigliava a uno a uno e gli legava una benda davanti agli occhi, e poi lo menava in un luogo spazioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare, e con un coltello gli tagliava la gola e lo lasciava così; di poi pigliava quella benda così insanguinata e col coltello fumante ritornava a pigliar l’altro e faceva il simile… Ha seguito quest’ordine fino al numero 88… S’è dato ordine, e già son qua le carra, e tutti si squarteranno e si metteranno di mano in mano per tutta la strada che fa il procaccio fino ai confini della Calabria… S’è dato ordine di far venire oggi cento donne delle più vecchie, e quelle far tormentare e poi farle giustiziare ancor loro, per avere la mistura perfetta… In undici giorni s’è fatta esecuzione di duemila anime; e ve ne sono prigioni mille e sei cento condannati, ed è seguita giustizia di cento e più ammazzati in campagna». I pochi che scamparono alla carneficina furono venduti come schiavi.

I protestanti europei inorridirono. I valdesi erano dei loro. Trent’anni prima, infatti, avevano aderito alla Riforma e Calvino gli aveva spalancato le porte di Ginevra e fornito assistenza materiale e spirituale. Ma questo non trattenne Carlo Emanuele II dallo scatenare contro di loro una persecuzione in grande stile, passata alla storia sotto il nome di «Pasque piemontesi».

Ricorreva il primo centenario di quell’istituzione del culto pubblico, che avrebbe dovuto assicurare a tutti piena libertà di professione religiosa. Nella realtà i valdesi erano sempre stati guardati con sospetto e trattati con disprezzo dalle autorità locali e dalla popolazione cattolica anche quando non erano in atto massacri e stermini. Gli appelli rivolti al Duca perché facesse rispettare il trattato di tolleranza cadevano nel vuoto. Il 17 aprile una delegazione valdese si recò a Torino per essere ricevuta dal Ministro di Carlo Emanuele, il Marchese di Pianezza. Il giorno stesso un esercito di quindicimila uomini invase la valle di Luserna al grido di «Viva la Santa Chiesa Romana! Guai ai Barbetti!». I valdesi, colti di sorpresa, vennero in gran parte trucidati nel sonno. I superstiti s’armarono in fretta e furia e s’accinsero alla difesa. Ma le forze erano impari, la superiorità del Pianezza, che aveva assunto il comando della spedizione, schiacciante. I valdesi caddero come mosche sotto le baionette sabaude.

Si ripeterono le scene di terrore, le stragi feroci e indiscriminate di San Sisto e La Guardia. Le vittime non si contarono, e lo sterminio sarebbe stato totale come in Calabria se anche in quest’occasione, da tutta l’Europa protestante, non si fossero levate grida di sdegno e minacce di rappresaglie. In Inghilterra Oliviero Cromwell bandì un digiuno nazionale e incitò i Paesi riformati a scendere in campo a fianco dei valdesi. Anche la Svizzera, i Paesi Bassi, la Germania protestarono. La stessa Francia, dove regnava il cattolicissimo Luigi XIV, auspicò la cessazione delle ostilità e l’apertura di negoziati di pace. Questi si svolsero a Pinerolo, durarono una quindicina di giorni e portarono a un’amnistia generale dei valdesi.

Per una trentina d’anni costoro vissero abbastanza tranquilli. Ma la revoca, nel 1685, dell’editto di Nantes li rimise al bando. Vittorio Amedeo II, aizzato dal Re Sole, abolì tutti i diritti che aveva loro riconosciuto in passato, gli vietò di riunirsi, gli ordinò di distruggere i templi e d’abiurare alla fede dei padri. Vani furono i tentativi dei governi stranieri d’indurre il Duca a più clementi propositi. Agli «eretici» non rimase che scegliere fra l’esilio e la guerra. Scelsero la guerra, ma dopo nemmeno tre mesi dovettero arrendersi e consegnarsi al nemico. Dodicimila furono fatti prigionieri. Poco più d’un centinaio, sfuggiti alle soldatesche savoiarde, s’imboscarono e diedero vita a una micidiale guerriglia. Non riuscendo a venirne a capo, il Duca scese a patti coi «ribelli». Acconsentì a liberare i prigionieri ma in cambio pretese che tutti lasciassero il Piemonte. I valdesi presero mestamente la via della Svizzera, dove i calvinisti li accolsero come fratelli.

Nel 1689, dopo due anni e mezzo d’esilio, un migliaio vollero tornare alle loro valli. La notte tra il 15 e il 16 agosto si diedero convegno sulle sponde del lago Lemano, dove quindici battelli li traghettarono in territorio savoiardo. Quindi s’incamminarono verso il Moncenisio, flagellato dal vento e dalla pioggia. Fu una marcia memorabile, che si concluse, dopo inenarrabili traversie, sul contrafforte dei Quattro Denti, in Val San Martino. Qui i circa seicento superstiti s’attestarono in ottanta baracche fortificate, da essi stessi costruite e passarono indisturbati l’inverno. Ma alle prime avvisaglie di primavera truppe francesi, al comando del generale Catinat, circondarono il contrafforte e lo sottoposero a un nutrito fuoco d’artiglieria. Gli assediati abbandonarono allora le posizioni, invano inseguiti dai Francesi, i quali si muovevano male fra sentieri, rocce e boscaglie che non conoscevano.

Nel giugno 1690, inopinatamente, giunse ai fuggiaschi la notizia che il Duca di Savoia aveva aderito alla Lega d’Augusta contro Luigi XIV ed era pronto a riconciliarsi con loro. La reintegrazione dei valdesi nelle valli avite mandò in bestia il Papa, che invano cercò di far tornare sui suoi passi il Duca. Costui, da buon Savoia, era sempre pronto a sacrificare agl’interessi dello Stato quelli della fede (che non aveva) soprattutto ora ch’era sceso in guerra con la Francia.

Negli ultimi tempi i rapporti fra Torino e Parigi s’erano andati deteriorando. Il Re Sole era diventato il flagello dell’Europa, che si era coalizzata contro di lui. Il Piemonte era entrato in questa «grande alleanza», e Luigi lo fece invadere dal Catinat. Le truppe sabaude ingaggiarono a Staffarda una furiosa battaglia, e la persero. Vittorio Amedeo corse ai ripari arruolando in fretta e furia ventimila uomini. Si rituffò nella mischia, ma nulla poté di fronte alle schiaccianti forze nemiche. I Piemontesi subirono una serie impressionante di rovesci, finché il Duca, di nascosto agli alleati, avviò con Parigi trattative segrete, che portarono ai trattati di Torino e di Vigevano. Luigi XIV s’impegnò, sebbene vincitore, a sgomberare Casale e Pinerolo. In cambio Vittorio Amedeo diede la propria figlia Maria Adelaide in sposa al nipote del Re Sole.

Così il Piemonte fu finalmente libero da presidi stranieri.