Quando, nel 1670, Ferdinando II morì stroncato da un colpo apoplettico, il figlio Cosimo aveva ventotto anni. Aveva ricevuto dai gesuiti un’educazione bigotta, amava lo studio e aveva un debole per la teologia. Fino a diciassette anni aveva fatto molto sport, specialmente equitazione. Dicono che fu una caduta da cavallo a deteriorare il suo carattere. Ne dubitiamo. Ma fatto sta che da quel giorno nessuno ricorda d’averlo più visto sorridere. I suoi modi erano garbati, ma alteri e distaccati, soprattutto con le signore, che stentavano a riconoscere in lui il figlio del galante e gaudente Ferdinando. Partecipava alle feste di Corte perché il rango ve lo impegnava, ma si vedeva che n’avrebbe fatto volentieri a meno. Detestava il ballo e la musica profana lo scandalizzava. Spasimava invece per i canti gregoriani, le messe del Palestrina, i madrigali del Monteverdi. Aveva pochi amici, e solo preti, coi quali faceva lunghi pellegrinaggi ai santuari di La Verna, Camaldoli e Vallombrosa, dove ogni volta lasciava il suo bravo obolo. Ascoltava almeno due messe al giorno, cantava con grazia gl’inni sacri e, all’occorrenza, sapeva anche commentare un passo della Bibbia o del Vangelo. La sua biblioteca traboccava di vite di Santi, breviari, edizioni rare del Vecchio e Nuovo Testamento. Il suo scrittoio e il suo comodino straripavano di rosari, crocifissi, icone, reliquie. Dalle pareti pendevano ritratti della Vergine, di Gesù, di Santi e di martiri. Sembrava, varcando le soglie delle sue stanze, d’entrare in una cappella. Le poche volte che il padre vi faceva capolino, atroci dubbi sulla salute mentale di Cosimo l’assalivano. Perché il figlio era così bacchettone? Perché quando incrociava una donna abbassava gli occhi e affrettava il passo? Era repulsione o timidezza? Forse gli ci voleva una moglie.
Non era facile trovare una donna di lombi adeguati e insieme capace di risvegliare i sensi torpidi di Cosimo e distrarlo dagli eccessi di devozione. Decine di ambasciatori, corrieri, nunzi, corrispondenti commerciali, spie furono sguinzagliati in tutt’Europa alla caccia d’un partito degno del futuro Granduca. Dopo lungo vaglio, fu prescelta la nipote di Luigi XIV, Margherita Luisa d’Orléans. Ecco il ritratto che ne fa a Ferdinando un certo don Bonsi, toscano trapiantato a Parigi: «Mademoiselle ha tredici anni. È bella di lineamenti, ha i capelli castani, gli occhi color turchese, e sembra estremamente dolce e gentile».
Quando il cardinale Mazarino fu messo al corrente di questi maneggi, non nascose il suo compiacimento. Se, lui pronubo, la figlia di Gastone d’Orléans fosse andata sposa a Cosimo, il suo sogno di diventare Papa coi voti dei Cardinali toscani, che tante volte avevano deciso le sorti dei Conclavi, si sarebbe forse realizzato. L’onnipotente Ministro chiese al Granduca un ritratto del figlio. Ferdinando gli spedì il più bello, accompagnandolo con alcuni barili d’un vino, di cui sapeva che il Cardinale era ghiottissimo. Mazarino si sdebitò mandando al Granduca, a nome del Re, una coppia di palafreni. Ferdinando replicò con una cassetta di centoventiquattro limoni.
Sul tavolo del Granduca intanto seguitavano a fioccare rapporti confidenziali su Margherita. «Parla bene» scriveva Madame de Gobelin, «ha un tono di voce piacevole, canta gradevolmente, suona con grazia la spinetta, e balla alla perfezione. È alta e ha i seni più belli e formosi che ci siano. Ha la pelle bianca, gli occhi scintillanti, i capelli castani e folti. È molto affezionata alle sorelle. È stata allattata da un’ottima balia, e fino a oggi non è mai stata gravemente malata. Molto tempo fa ebbe il vaiolo, ma in forma così leggera che quasi non si vede. Non ha mai preso medicine per conservarsi la salute, ch’è buona di natura. Durante il giorno a volte ricama un po’, e quando giuoca a carte, a tric-trac o a scacchi, lo fa con grande abilità.» Il Bonsi rincarò la dose: «Margherita odia il Louvre perché c’è tanta gente: è nata proprio per vivere in Toscana, dove l’esistenza è regolata in modo così metodico».
Le missive furono mostrate anche a Cosimo, che un bel giorno s’accorse d’essere innamorato di Margherita. Gli venne improvvisamente una gran voglia di sposarsi e d’assaporare le gioie, a lui fin allora sconosciute, dell’alcova. Cominciò a diradare i pellegrinaggi, ad ascoltare meno messe, a farsi vedere meno in giro con monaci e preti, e a prendere più cura della propria persona. Rinnovò il guardaroba raccomandando al sarto di confezionargli abiti all’ultimo grido e si fece spedire da Parigi e da Londra tutti quei piccoli accessori che «danno il cachet a un gentiluomo». Era fermamente deciso a conquistare la principessa, la quale, sebbene non smaniasse come Cosimo, non sembrava affatto scontenta di convolare a nozze col figlio del Granduca che, stando al ritratto, doveva essere piuttosto un bell’uomo.
Fino a questo momento l’argomento dote non era stato neppure sfiorato. Ma ora bisognava affrontarlo. Cosa offriva Margherita in cambio della corona di Granduchessa? Poco – confidò il Mazarino al Bonsi – quanto a soldi, molto quanto a virtù, di cui la più rara e preziosa era una straordinaria prolificità. Margherita era «adatta a fare molti figli». Non sappiamo come il Cardinale potesse fornire questa garanzia. Sappiamo solo che dopo queste assicurazioni la questione dote venne accantonata.
Il 24 gennaio 1661 fu firmato il contratto. A questo punto avvenne un fatto che né il Mazarino, né Luigi XIV, né Ferdinando, né l’interessata avevano previsto: Margherita s’invaghì del cugino Carlo di Lorena, e lui di lei. La povera Principessa cominciò a piangere, a disperarsi, a protestare che non voleva lasciare Parigi e sposare un uomo che non aveva mai visto. Mandò la madre dal Re per scongiurarlo di sciogliere il contratto e impedire il matrimonio. Ma Luigi XIV fu irremovibile. E infatti le nozze furono puntualmente celebrate (per procura), nella cappella del Louvre, il 17 aprile dello stesso 1661. Mentre Margherita pronunciava il fatidico sì, lo sposo se ne stava a Firenze a letto col morbillo, allietato dai rintocchi delle campane che suonavano a festa.
Ai primi di maggio la principessa partì per l’Italia. Il 12 giugno sbarcò a Livorno, il 15 giunse a Empoli, dove Cosimo, sopraffatto forse dall’emozione, l’accolse con molta freddezza e si dimenticò persino di darle il bacio coniugale, fra lo stupore e la desolazione degli astanti. La tensione e lo sgomento aumentarono quando si trattò di mandare a letto gli sposi. Cosimo era ancora convalescente e il medico di Margherita temeva che un contatto troppo intimo la contagiasse. Dopo lunghe confabulazioni fu deciso che gli sposi avrebbero passato la notte in letti separati. Margherita tirò un sospiro di sollievo, e forse anche Cosimo, sia pure per ragioni diverse, fu felice di quel rinvio. Ma si trattava solo d’un rinvio. Il 22 giugno il rito finalmente si compì. Fu meno lungo del previsto, forse perché Cosimo era ancora convalescente. Margherita non nascose la propria delusione, né il marito tentò di riabilitarsi le notti successive. Il 18 luglio il Bonsi scrisse a Fouquet: «Il Principe è andato a letto con la moglie tre volte sole e, ogni volta che non ci va, manda un valletto a dire a Madama di non aspettarlo. Le dame francesi e le ancelle sono molto sorprese che il Principe faccia così pochi complimenti». La vita coniugale di Cosimo e Margherita non poteva cominciare sotto auspici peggiori.
Cosimo ripiombò nel suo vecchio spleen, riprese a frequentare preti e teologi e ridusse al minimo le sue già scarse prestazioni maritali. Margherita passava le giornate a piangere e a lamentarsi del marito, che trovava sempre più odioso e ripugnante. Il Cosimo che aveva ammirato in effigie era un altro uomo. Quello che aveva ora di fronte era un mostriciattolo pesante, goffo, con una pancetta da commendatore, le labbra molli, gli occhi bovini, le gote cascanti, il naso troppo grosso, i capelli troppo ricci. Anche dal punto di vista umano era pieno di difetti. Non aveva comunicativa, era incapace di slanci, d’entusiasmi, d’effusioni.
Se così Margherita vedeva Cosimo, Cosimo vedeva Margherita come una ragazza testarda, capricciosa, impertinente, con le mani bucate, che rinnovava continuamente il guardaroba, ordinava sete e broccati in Francia, pizzi e merletti nelle Fiandre. E anche in questo c’era del vero. Gli scrigni di Margherita straripavano di gioielli, il suo boudoir di profumi, cosmetici e unguenti rari. Dalla Francia s’era portata il cuoco personale che consumava da solo più carne e spezie di tutti i colleghi di Corte messi assieme. Il Granduca chiudeva un occhio per non inasprire la nuora, di cui disapprovava la condotta, ma per la quale provava una certa simpatia abbastanza ricambiata.
Alla fine del 1662 si sparse la notizia che la moglie di Cosimo aspettava un figlio. La Corte esultò, e Margherita ne fu talmente indispettita che fece di tutto per mandarlo a monte, cavalcando dalla mattina alla sera e inerpicandosi per sentieri scoscesi. Ciononostante, dopo nove mesi, scodellò un maschio, che fu chiamato Ferdinando come il nonno. Il parto lasciò la puerpera debole e di pessimo umore. Essa si chiuse nelle proprie stanze e per alcuni giorni non volle vedere nessuno. Quando le forze le tornarono, abbandonò il talamo nuziale, e andò a dormire con la nutrice. Il Granduca non nascose il proprio disappunto e cercò in tutti i modi di ricondurre la nuora ai suoi doveri di moglie e di madre. Ma Margherita seguitava a ripetere che odiava il marito, Firenze e i Fiorentini, e voleva tornarsene a Parigi. A questo punto Ferdinando si rivolse direttamente al Re di Francia perché la rabbonisse e mettesse un freno alle sue bizze e ai suoi isterismi. Luigi le fece una bella e vana romanzina. Anche la minaccia di Ferdinando di rinchiuderla in convento non scompose Margherita, che diventava ogni giorno più bizzarra e intrattabile. Si mise in testa – o forse finse di credere – che i Medici volessero avvelenarla, per cui impedì ai cuochi e ai camerieri del Granduca di varcare la soglia della sua cucina. A tavola faceva preventivamente assaggiare i cibi al proprio maggiordomo.
Ferdinando, non sapendo più come mettere pace fra i due, spedì Cosimo a Venezia. Durante la assenza del marito Margherita sembrò ritrovare il suo equilibrio, e i rapporti coi suoceri si fecero più cordiali. Quando il Granduca giudicò i tempi maturi per una riconciliazione, richiamò a Firenze il figlio. Appena lo rivide, la moglie l’aggredì e gli rispiattellò tutto il suo disprezzo. Cosimo stavolta perse le staffe, allontanò Margherita da Firenze e la relegò nella villa di Lappeggi di dove in un secondo tempo la trasferì in quella di Poggio a Caiano.
Questa specie d’isolamento, che la principessa francese dichiarava di preferire alla vita di Corte, non le impedì, attraverso i suoi agenti, di restare in contatto col Re. Non cessava di supplicarlo di richiamarla in patria, di seppellirla in un monastero, di fare di lei quel che voleva ma di non obbligarla a vivere con un uomo che le ripugnava e del quale si riteneva moglie illegittima poiché contro la sua volontà l’aveva sposato. L’idea del concubinaggio atterrì Cosimo, che Luigi teneva scrupolosamente al corrente del carteggio con la moglie: se le nozze davvero non erano valide, il figlio Ferdinando era un bastardo. Cosimo consultò i più dotti teologi, ma nessuno osò pronunciarsi in modo netto sulla questione. Il povero Principe, roso dai rimorsi, piombò in uno stato d’indicibile prostrazione morale. Il Re di Francia, che dell’infelice matrimonio era uno dei responsabili, pensò di mandare il confessore Cosme Feillet a fare una bella predica all’irriducibile Principessa. Ma anche questa missione fallì.
Nell’ottobre 1665 Margherita si presentò inaspettatamente a Corte e supplicò il Granduca di farla tornare dal marito e dal figlio. Ferdinando l’accolse a braccia aperte non solo perché anelava alla riconciliazione ma anche perché mantenere due famiglie gli costava troppo. La rappacificazione liberò Cosimo dall’incubo di finire all’inferno e gli risvegliò i sensi, che la lunga astinenza sembrava aver sopito. I frutti non si fecero attendere. Dopo pochi mesi Margherita era di nuovo incinta. La gravidanza ne ridestò lo spirito di ribellione. Anche stavolta partorì maledicendo il marito. Il Granduca decise allora di separare nuovamente gli sposi e rispedì il figlio in giro per l’Europa.
Cosimo tornò a Firenze dopo sei mesi per subito ripartire. Fu durante questo secondo tour che visitò Parigi, dove fu ricevuto dal Re con molti onori e dalla suocera con dissimulata freddezza. Partecipò a feste, balli, banchetti, commedie e quando lasciò la capitale francese la sorella della moglie scrisse di lui: «Parlava molto bene di qualunque argomento ed era pratico del modo di vivere d’ogni Corte d’Europa: in quella di Francia non ha mai fatto neanche un errore… L’averlo visto m’ha persuaso che ha torto Margherita, che non è mai andata d’accordo con lui». Tornò a Firenze nel novembre 1669 per assistere agli ultimi mesi di vita del padre, che il maggio successivo calò nella tomba, dopo averlo nominato erede.
I primi tempi governò con sagacia e avvedutezza, poi il baciapile prese il sopravvento sullo statista e lo fuorviò. Delegò gran parte dei poteri alla madre e ai Ministri, e si dedicò con più assiduità alle pratiche religiose. I rapporti con la moglie si fecero ancora più tesi. Mentre infatti il padre aveva sempre cercato d’appianare i contrasti fra Cosimo e Margherita, la madre non perdeva occasione per esasperarli. La vita a Corte diventò un inferno. La giovane Granduchessa aveva perduto ogni ritegno, diceva peste e corna di tutti, trascurava i figli che nel 1671, con la nascita di Gian Gastone, erano saliti a tre. Cosimo non ne poteva più e quando Margherita si ritrasferì nella villa di Poggio a Caiano, trasse un sospiro di sollievo. Qui la moglie continuò a lanciare appelli a Luigi perché la facesse tornare in patria. Ma il Re Sole seguitava a fare orecchio da mercante.
Era lui solo ormai a non volere che Margherita lasciasse la Toscana e il marito, il quale scriveva a Madame du Deffand: «Se ritornasse da me, quali sentimenti, quale unione potrebbe esserci fra noi, e quale non sarebbe il tormento della mia coscienza? Sarei ancora infelice sulla validità di questo matrimonio. Da qualunque parte mi volga, per il futuro vedo solo angosce». Finalmente anche Luigi capitolò e la Granduchessa poté coronare il suo sogno. Il 10 giugno 1675 lasciò Poggio a Caiano, diretta al convento di Montmartre, vicino a Parigi, dove ne combinerà di tutti i colori, scandalizzando persino i suoi compatrioti. I Fiorentini ne furono molto addolorati, non perché amassero Margherita, ma perché odiavano Cosimo.
Nessuno dei suoi predecessori era riuscito a rendersi tanto impopolare. L’indomani della partenza della moglie egli stupì i sudditi, che l’avevano sempre tacciato d’avarizia, abbandonandosi a folli spese gastronomiche. Faceva affluire alla sua mensa dai Paesi più strani salse e spezie esotiche, ordinava uva a dicembre e mandarini a luglio, dalle sue cucine uscivano le pietanze più raffinate, gl’intrugli più complicati, serviti da camerieri indiani, calmucchi, groenlandesi. Ecco la deliziosa descrizione che Harold Acton, nella eccellente storia dedicata agli ultimi Medici, ci fa di Cosimo, della sua smodata ingordigia e delle conseguenze della medesima: «Voleva che i suoi capponi ingrassati venissero pesati a tavola e, se un paio di questi non arrivava alle venti libbre regolamentari, li faceva portar via, come se gli avessero fatto un affronto personale. I suoi dolci esotici venivano innaffiati di liquori ghiacciati nella neve. Con questo regime, divenne presto sproporzionatamente grosso e di conseguenza cominciò a soffrirne. Per diminuire di peso, gli vennero consigliate medicine che lo misero in uno stato peggiore, perché le gambe cominciarono a cedere sotto la sua mole».
La gola era l’unico peccato cui Cosimo indulgesse, e l’unico che tollerasse nei propri sudditi. Inesorabile si mostrava invece verso quelle tentazioni della carne, ch’egli non era mai riuscito né a provare né a suscitare. Bandì numerose crociate contro la prostituzione e la pederastia, istituì un Ufficio del decoro pubblico, da cui dipendeva un corpo di guardie che s’appostavano la notte agli angoli delle strade per cogliere in flagrante le meretrici e mandarle in prigione.
L’età accentuò in Cosimo la misoginia e il bigottismo. Stava bene solo in mezzo ai preti a discutere di teologia, a recitare i salmi, a leggere la Bibbia. Secondo un cronista dell’epoca, alla fine del Seicento, Firenze aveva circa cinquantamila abitanti, di cui un quinto erano ecclesiastici che godevano d’infiniti privilegi, benefici, immunità. Il Granduca ne era completamente succubo. Il suo zelo religioso non conosceva limiti. Il suo attaccamento alla Chiesa s’accompagnava a un odio cieco per gli Ebrei, che perseguitò senza tregua e con stolto fanatismo. Vietò ai Cristiani di mettersi al loro servizio e frequentarne le case, pena un’ammenda di cinquanta scudi. Multò con trecento gli Ebrei colti in compagnia di prostitute cristiane, che per punizione venivano denudate fino alla cintola e frustate a sangue.
Se tanto ci siamo dilungati sulle vicende personali e coniugali di Cosimo, è perché esse costituiscono gli unici avvenimenti di rilievo in quella Firenze che fino a tutto il Rinascimento era stato l’epicentro della vita economica e culturale italiana. Mai decadenza fu altrettanto rapida e altrettanto dovuta al malgoverno di un uomo. Per costruire nuove chiese e conventi, per acquistare reliquie di Santi e di martiri, per finanziare processioni e pellegrinaggi, Cosimo appesantì il fisco. Il fisco distrusse quanto restava della banca, dell’industria, dell’artigianato, del commercio, cioè distrusse quanto restava dei ceti medi, che coi loro capitali e le loro iniziative avevano costituito la forza e lo splendore di Firenze. Lo dimostra, nonostante le sue origini urbane e mercantili, la conversione in massa del patriziato fiorentino alla terra. Anche in Toscana, perfino in Toscana, l’agricoltura diventa l’unica fonte di ricchezza. E i paesi unicamente agricoli sprofondano nella miseria non soltanto materiale, ma anche spirituale.
Quanto gli ultimi Medici abbiano influito su questa degradazione, lo dimostra la prontezza con cui la Toscana si riprenderà dopo la fine del loro malgoverno e il passaggio del Granducato agli Asburgo-Lorena austriaci.
Purtroppo il Seicento è un secolo in cui la personalità di un sovrano (e i sovrani del Seicento sono quasi tutti di stoffa deteriore) determina la sorte del popolo.