Lo Stato italiano in cui meglio si coglievano gli effetti devastatori del neofeudalesimo spagnolesco e controriformista era il Viceregno di Napoli. Qui i contrasti sociali erano addirittura drammatici. Sui duecentomila abitanti, che facevano della capitale la più popolosa città italiana, e una delle più popolose d’Europa, i nove decimi erano plebei, o «lazzari», affamati e cenciosi, che campavano d’elemosine e d’espedienti, facile esca di mire demagogiche ed eversive. La borghesia era composta d’avvocati, magistrati, appaltatori d’imposte che servivano la Corte, godevano d’un reddito decente e di qualche privilegio. La nobiltà, verso la metà del secolo, contava centodiciannove Principi, centocinquanta Duchi, centosessantatré Marchesi, alcune centinaia di Conti e un numero incalcolabile di Baroni. Ostentava titoli altisonanti, cui non sempre facevano riscontro rendite adeguate, trattava dall’alto in basso le altre classi e dava, con la sua riottosità, parecchio filo da torcere ai Viceré.
Da costoro Madrid esigeva fedeltà assoluta, pugno di ferro e soprattutto abbondanti rimesse d’oro e di denaro, che costringevano a moltiplicare e inasprire all’infinito i balzelli, suscitando fra la popolazione scoppi di collera violenti e passeggeri come tornados. Essi lasciavano qualche cadavere per le strade e le cose come prima.
Anche quello scoppiato nel 1647 sembrò avviato alla stessa sorte. Nessuno lì per lì ne colse le implicazioni e ne immaginò gli sviluppi. A farne scoccare la scintilla fu il ripristino della gabella sulla frutta, imposto dal Viceré, Duca d’Arcos. Il provvedimento colpiva soprattutto i lazzari, ch’erano i maggiori consumatori d’agrumi. Le reazioni non si fecero attendere. Il 6 giugno fu dato alle fiamme il casotto del nuovo dazio. Il Duca d’Arcos ordinò un’inchiesta, ma prima che questa facesse luce, il colpevole si costituì.
Era un povero pescivendolo e si chiamava Tommaso Aniello, o Masaniello. Aveva ventisei anni, la madre era rimasta vedova prima di partorirlo, non aveva ricevuto alcuna istruzione, aveva trascorso l’infanzia nei bassi, vivendo di patacche e furtarelli. Era il prototipo dello sciuscià: piccolo, tarchiato, pelle bruna, capelli neri e ricci, sguardo vivo, mano lesta, spaccone, rissoso, insolente. Faceva il pescivendolo ai mercati generali, ma gli affari dovevano andargli maluccio se spesso, non avendo denaro per acquistare sardelle e merluzzi, s’accontentava di vendere cartocci. Più d’una volta aveva avuto a che fare con la polizia, ed era anche stato in carcere. Quando la plebe insorse contro il balzello sulla frutta egli si tuffò nella mischia al grido di «Niente gabella! Viva il Re di Spagna e mora il malgoverno», seguito da alcune centinaia di monelli, che il popolo chiamava «alarbi». Dal violento tafferuglio che seguì, sbirri ed esattori uscirono assai malconci.
Masaniello, imbaldanzito, s’improvvisò capopopolo, promise ai Napoletani la libertà, reclutò altri alarbi e, impugnando una frasca, si diresse verso il palazzo vicereale. Le guardie che lo presidiavano si diedero alla fuga e i dimostranti penetrarono disordinatamente all’interno brandendo coltelli, lance, bottiglie, bastoni con cui fecero poltiglia di tutto ciò che gli capitò a tiro: mobili, quadri, arazzi, specchi. Il Viceré, in preda al panico, cercò scampo nei propri appartamenti, dove fu raggiunto da uno dei caporioni che l’obbligò a revocare la gabella sulla frutta.
Il primo obiettivo della sommossa era stato raggiunto. Ora bisognava ottenere dal Duca d’Arcos l’abolizione di tutti gli altri balzelli. Il ferro andava battuto finché era caldo. A questo punto entrò in scena un uomo che a Napoli tutti conoscevano e che godeva fama di scaltro demagogo e astuto politico: Giulio Genoino. Avvocato e sacerdote, era stato l’eminenza grigia del Viceré d’Ossuna, sotto il quale aveva ricoperto importanti cariche pubbliche. Quando il suo protettore era stato richiamato in patria, il Genoino lo aveva seguito, ma a Madrid era stato condannato a molti anni di carcere e solo nel 1638 aveva potuto far ritorno a Napoli. Qui, in attesa di tempi migliori, s’era sprofondato negli studi. A ristanarlo fu proprio Masaniello, che ne fece il profeta e l’ideologo della rivoluzione. Sebbene avesse già compiuto gli ottant’anni, il vecchio maneggione stilò una specie di Magna Charta, in cui espose le rivendicazioni della plebe napoletana: piena parità coi nobili nel governo della città, equa ripartizione dei debiti, abolizione delle gabelle.
Su quest’ultimo punto Masaniello si mostrò particolarmente intransigente. Disse chiaro e tondo che non s’accontentava delle promesse del Viceré, il quale poteva sempre rimangiarsele, ma che esigeva la consegna d’un antico papiro con cui Carlo V esentava i Napoletani da ogni sorta di balzelli. Il D’Arcos, colto di contropiede, tergiversò anche perché del documento negli archivi cittadini non c’era nemmeno l’ombra. Gli insorti pensarono ch’egli volesse guadagnar tempo e con rinnovata foga ripresero le armi, aizzati da Masaniello, che fece mettere a ferro e fuoco la città.
Tutti i popolani riconoscevano in lui il duce della rivolta, tutti gli obbedivano, tutti gli rendevano omaggio. Alcuni dicendo ch’era un santo; altri ch’era un eroe; altri ancora ch’era questo e quello. Scalzo, sbracato, in preda a frenesia tribunizia, l’ex pescivendolo arringava la folla, distribuiva ordini a destra e a manca, sbraitava, minacciava, accusava il Viceré d’aver tentato di corromperlo e i nobili di campare a sbafo della plebe.
Tanta veemente e scomposta demagogia finì per spargere il terrore nella città, ormai completamente nelle mani dei rivoltosi. I più sgomenti erano i ricchi borghesi e i patrizi che un bel giorno, d’accordo pare col Viceré, decisero d’assassinare Masaniello. Il complotto fallì perché i proiettili sbagliarono traiettoria. Qualcuno gridò al miracolo, e in molti quartieri della città si diffuse la voce che il bersaglio era invulnerabile.
Masaniello festeggiò lo scampato pericolo con una feroce repressione. Ordinò ai suoi di dare la caccia a coloro che direttamente o indirettamente avevano partecipato alla congiura e di condurli tutti al suo cospetto: egli stesso li avrebbe giudicati. Quando i colpevoli, o presunti tali, gli furono davanti, ne pronunciò la sentenza con un semplice movimento verticale della mano che alludeva alla scure del boia. Il sangue scorse a fiumi e i morti non si contarono anche perché Masaniello lasciò libero sfogo alle vendette personali.
Come già era accaduto a Cola di Rienzo, i fumi della popolarità gli diedero alla testa. Non s’accontentò più d’essere semplicemente il capo della rivolta. Ne volle anche i galloni e il protocollo. Si autonominò «Generalissimo del popolo napoletano» e prese ad emanare editti con i due stemmi del Re di Spagna e di Napoli. Proibì l’uso di vesti troppo lunghe, mantelli, tonache e guardinfanti per paura che celassero armi e munizioni, e intimò ai nobili la consegna immediata di pistole, fucili, polvere da sparo. Sebbene non capisse niente d’economia e di finanze, avocò a sé tutti i problemi amministrativi della città. Meditava a lungo le soluzioni, la testa appoggiata alla mano e il gomito puntato sul ginocchio. I suoi fanatici dicevano che aspettava l’ispirazione dello Spirito Santo. I maligni insinuavano che aspettava i suggerimenti del Genoino, sempre appiccicato a lui. L’ex pescivendolo esercitava comunque tale suggestione che il Viceré, per tenerlo buono, lo trattava come un sovrano, lo invitava a palazzo con la moglie, lo colmava di complimenti e di doni.
L’11 luglio le richieste avanzate dal Genoino, dopo essere state approvate dai Napoletani, furono presentate al Duca d’Arcos dallo stesso Masaniello, che indossò per l’occasione una sontuosa veste argentata, dono del Viceré in persona. L’incontro fu, almeno in apparenza, cordiale e amichevole. Appena giunse al cospetto del Duca, il Generalissimo gli si gettò ai piedi. Il Viceré lo fece rialzare, l’abbracciò con effusione e lo condusse all’interno del palazzo, dove si svolse un lungo colloquio, e prima di congedarlo gli regalò una collana del valore di tremila scudi. Masaniello l’accettò solo dopo molte insistenze, e fu l’ultima volta che si mostrò nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Uscito da palazzo, si strappò l’abito argentato, si tolse le scarpe, tornò a indossare la blusa e le brache di pescivendolo, e da allora in poi le sue stranezze non si contarono. In un improvviso accesso d’ira prese a calci nel sedere un cavaliere che era venuto a fargli visita, diede un ceffone a un collaboratore, ferì con un colpo di bastone il vecchio Genoino, e il 13 luglio fece improvvisamente arrestare un solenne corteo al quale partecipava anche il Viceré e, dopo essersi abbandonato a un lungo sproloquio, estrasse di tasca una moneta con l’effigie dell’imperatore Carlo V, la baciò, poi se la mise in testa, quindi la porse al Duca d’Arcos perché facesse altrettanto. Giunto all’altezza del Duomo, avendo scorto una fontana, scese da cavallo, andò a dissetarsi, si sbottonò i calzoni e orinò davanti a tutti. Dopodiché corse ad aprire la portiera della carrozza del Duca, ma nella foga perse l’equilibrio e ruzzolò per terra. Poco dopo, in Duomo andò a sedersi ai piedi del Viceré, per poterglieli meglio baciare, scoppiò in un pianto dirotto, si alzò, si stracciò il vestito, e gettò le braccia al collo del Viceré. Al termine del rito si accampò sul pergamo e si mise ad arringare la folla: «Popolo mio, io sono nato povero marinaio e marinaio voglio morire. Non avete a far cosa alcuna con me: ecco qua il vostro padrone [additò il Viceré] e siate fedeli al Re». Genoino e compagni tentarono di ricondurlo alla ragione, ma invano. Alcuni dicevano ch’era stato affatturato per ordine del Viceré, altri che aveva preso un colpo di sole, altri ancora che il potere gli aveva dato alla testa. Chissà. Quel ch’è certo è che anche i suoi più tenaci ammiratori si accorsero ch’era uscito di senno, e lo abbandonarono al suo destino, ormai maturo. Il 16 luglio, dopo un’ennesima di queste esibizioni, fu avvicinato nella chiesa del Carmine da un gruppo di cavalieri e popolani. «Andate cercando me?» chiese Masaniello riconoscendoli. Quattro colpi d’archibugio furono la risposta. Il Generalissimo cadde al suolo stecchito, ma gli assassini, temendo che fosse ancora in vita, chiamarono un macellaio e gli fecero tagliare la testa.
Napoli sembrò uscire da un incubo e i suoi abitanti sciamarono nelle strade e nelle piazze cantando, ballando, sventolando bandiere. I lazzari, ch’erano stati i più scalmanati fan del pescivendolo, s’impadronirono del cadavere, lo squartarono e l’abbandonarono in una chiavica. I fornai profittarono della generale kermesse per aumentare il prezzo del pane. I nobili e il Viceré esultarono, ma colui che più gongolò fu il Genoino, uno degli autori del complotto, di cui il Viceré lo compensò con la nomina a presidente della Corte della Sommaria.
Ma non passarono ventiquattr’ore che i volubili Napoletani cominciarono a rimpiangere la loro vittima. Gli stessi carnefici, pentiti e in preda ai rimorsi, ne riesumarono il cadavere e, dopo avergli ricucito alla meglio la testa sul busto, lo lavarono, lo vestirono, gli misero al fianco la spada e il bastone di comando, tributandogli solenni esequie, cui parteciparono quarantamila persone.
L’assassinio, se aveva liberato la città da un pazzo, non aveva certamente risolto i suoi problemi. La rivolta infatti seguitò a divampare. Continuarono anche le trattative col Viceré al quale i rappresentanti del popolo avanzarono una serie di richieste, fra cui la destituzione del Genoino. Ad alcune il Duca disse sì, ad altre no. Sì, disse al siluramento del Genoino, che fu esiliato, sì all’amnistia dei reati commessi durante i tumulti, no alla consegna d’un’importante piazzaforte e al presidio del palazzo reale con milizie popolari.
Un nuovo leader intanto era venuto alla ribalta. Si chiamava Gennaro Annese, faceva il fabbro ed era stato a lungo in galera per falsificazione di monete. La sua comparsa sulla scena coincise con l’arrivo, il 1° ottobre 1647, della flotta spagnola, comandata dal figlio naturale del Re cattolico, Giovanni d’Austria, nella baia di Napoli. Vi era stata spedita per domare la sommossa e riportare la pace nel Viceregno. Ai suoi cannoni la città oppose un’eroica resistenza. L’Annese, ch’era riuscito a farsi nominare Generalissimo, ne assunse la guida e annunciò l’istaurazione della Repubblica. Fu convocata l’assemblea plenaria del popolo che votò all’unanimità la nuova costituzione. Bisognava ora darle un protettore. L’Annese si rivolse a Enrico II di Lorena, Duca di Guisa, un giovane ambizioso, corrotto e senza scrupoli, che sbarcò con la sua flotta a Napoli, salutato dalla folla come un salvatore. Gli fu immediatamente conferito il titolo di «Doge della Serenissima Repubblica di Napoli», e durante una cerimonia in Duomo il Vescovo gli benedì la spada.
Tutto sembrava andare a gonfie vele quando, come un fulmine a ciel sereno, gettò le ancore nel golfo di Napoli una squadra navale francese, spedita dal Re per seguire gli avvenimenti e sfruttarli a favore della Corona. Il Duca di Guisa, vedendo minacciati i propri piani e la propria personale egemonia, licenziò l’Annese che, allarmato dalle mire tiranniche del «Doge», aveva plaudito all’arrivo dei Francesi. I Napoletani ne furono indignati e la popolarità del Guisa cominciò a vacillare. Molti suoi sostenitori, bramosi di pace, disertarono e diedero vita a una coalizione contro di lui, cui aderirono i partigiani della Spagna, della Francia e dell’Annese. Solo e abbandonato, Enrico di Lorena dovette rinunziare a tutti i suoi sogni e lasciare la Capitale. I Napoletani, che non l’avevano mai amato, spalancarono le porte della città agli Spagnoli al grido di «Venite, venite, pace, pace». Era la restaurazione.
All’inizio essa fu liberale e tollerante. Poi si tolse la maschera e mostrò il suo solito volto aggressivo, reazionario, fiscale.