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I Pooh

Anche oggi litigano. Perché lo fanno? Solo perché hanno caratteri diversi? Il babbo è un casinista, ride, racconta barzellette, scherza con tutte le donne che incontra, è un cazzaro professionista, già social prima che nascesse Internet. La mamma è timida, riflessiva, malinconica, e di sicuro, anche se ci accompagna nei fine settimana, non ama le corse di moto e mai le amerà. Le mie non le guarderà mai, e anche quando verrà nei circuiti si chiuderà nel motorhome ad aspettare che finiscano. Fa la sarta, ha incontrato il babbo da ragazza e fino a oggi mi sa che non ha conosciuto nessun altro uomo all’infuori di lui. Perché lei è fedele, lui invece proprio no. Ma è sufficiente questo per litigare? E tutto il resto che possediamo non conta? La casa, il capannone, la pista, i weekend alle corse. La felicità. Ma sarà poi la felicità di tutta la famiglia? Oggi non ne sono capace, ma un giorno saprò interpretare certe nostre foto di questi giorni: l’unico che sorride sempre in posa è il babbo, la mamma, invece, sembra triste e io sto nel mezzo, come indeciso su che partito prendere. Perché se il babbo è il mio idolo, la mamma è la mamma, e infatti alla lunga penso che diventerò più come lei che come lui.

Comunque, litigano. Alzano la voce. Muso a muso. Mi pare di capire che il babbo reclami certe libertà tipo potersene stare al bar oppure andare a ballare una sera la settimana, da solo. Forse è lì che fa le corna alla mamma, anche se racconta che lui delle donne è soltanto amico.

“Che ci posso fare se sono simpatico?”

A me sembra uno strano modo di essere amico, e penso lo creda anche la mamma: lei è la classica moglie di una volta che fa tutto ciò che dice il marito, però adesso le stanno girando le scatole per davvero.

Da un po’ di tempo, poi, a casa arrivano anche telefonate anonime. Dicono che il babbo è andato con quella e con quell’altra e con quell’altra ancora. Una volta abbiamo trovato addirittura dei manifesti attaccati al cancello di casa. Non so se raccontano cose vere o no, ma provocano un gran casino. La teoria della mamma è che è tutta opera di una donna gelosa, ma non si è mai capito chi sia. La teoria del babbo è che sono solo dei ragazzi che si divertono a romperci i maroni. Chissà perché poi. Fatto sta che la tensione cresce di brutto ogni giorno di più. A volte mi devo mettere in mezzo io: li divido, cerco di farli smettere. E sto male. Non dormo. Mi sveglio la notte.

L’altro giorno a scuola stavamo facendo un gioco in palestra. Era semplice: bisognava stare a occhi chiusi il più a lungo possibile. Io non ci sono riuscito neanche un secondo. Li tenevo sbarrati. Ci provavo, ma niente. La maestra mi ha chiesto perché. Non ho risposto. Penso sia la tensione che mi mangia dentro, lo sforzo di far passare in fretta la notte mentre li sento gridare.

Un giorno, improvviso, arriva il disastro. L’azienda del babbo fallisce. Dalla mattina alla sera i due poltronifici che ci davano lavoro saltano e l’effetto cascata sui fornitori è immediato. Il Venerdì Nero di Dovi Street. Ci ritroviamo con un debito di 160 milioni di lire, i dipendenti restano a casa, noi entriamo in un’altra vita.

La prima conseguenza è che la crisi fra i miei esplode definitivamente. L’ennesima telefonata anonima provoca l’ultimo tsunami. Il babbo dice: «Allora me ne vado». Io sono lì davanti alla porta di casa che li guardo litigare, ho un pallone in mano. La mamma va nell’altra stanza, il babbo resta immobile, per una volta indifeso. Stringo il mio pallone, lo guardo negli occhi e gli dico: «Dimmi che non è vero». Lui si volta e mi dà le spalle: non ci giurerei ma sta versando una lacrima sui suoi baffi a manubrio, lo capisco perché poi fa il gesto di asciugarsi gli occhi con la manica della felpa. Dopo si volta di nuovo verso di me, chiama anche Valentina e ci abbracciamo, adesso sì piangendo tutti assieme. Non ci credo che se ne andrà, invece è così.

«Non vado via per lasciare voi, ma perché non riesco più a vivere con la mamma. Ma io per voi ci sarò sempre.»

Così esce di scena, ma soltanto quella sera. Perché se c’è una cosa che il babbo sa fare, pur nella sua vita incasinata, è mantenere le promesse. E infatti lui dalla nostra vita non scomparirà mai.

Senza soldi, diventa tutto un macello. Io resto con mamma e Valentina, e insieme iniziamo a girovagare per un sacco di case cercando di barcamenarci come possiamo. Il babbo, invece, prima chiede asilo a sua mamma, che però appena viene a sapere quello che è successo lo caccia di casa: è solidale con la nuora, e questo la dice lunga sulla reputazione del babbo nel Forlivese. Allora si trasferisce dal fratello a Predappio, una ventina di chilometri da Forlì, e ci resterà tre anni. Quando a catechismo imparo la parola calvario, mentalmente la applico subito alla nostra situazione: un’altra migliore non la trovo, né l’avrei mai più trovata.

A proposito di promesse, il babbo non scompare dalla mia vita. Ci sono ancora le gare nei weekend e lui, in qualche modo, si presenta quasi sempre per accompagnarmi. I soldi ci sono a malapena per la benzina, spesso solo per quella dell’andata, e il nostro piano d’azione non è mai troppo elaborato: partiamo, poi si vedrà. Adesso siamo solo io e lui. La mamma mi prepara qualche panino che però non basta mai: ci pensa il babbo con la sua parlantina a farmi ospitare nei camper degli altri piloti, figli di famiglie di amici che hanno una vita normale. Lui per sé non si preoccupa. Non chiede niente. Sopravvive a caffè e sigarette, come farà per tutta la vita.

Agli stracci come siamo, l’attrezzatura per correre è quella che è, e delle volte, quando ci troviamo a gareggiare entrambi, capita che papà interrompa addirittura la sua corsa per venire a prestarmi il materiale per la mia che viene immediatamente dopo. Non so quante volte corro con la sua maschera grande il doppio e appannata come il parabrezza dell’auto in pieno inverno: non vedo un tubo, e devo anche sperare che non mi voli via. Forse è lì che nasce la mia abilità sul bagnato. Tute decenti, poi, neanche a parlarne: stiamo lanciando il vintage e il riciclato con decenni di anticipo; siamo di moda e non lo sappiamo. E anche le moto fanno paura: stravecchie, di quattro-cinque anni prima, con le forcelle scoppiate, l’olio che entra nei freni, zero manutenzione.

Ma è la mia normalità, e mi ci adeguo senza storie. Non me ne frega niente delle cose che non ho e mi faccio piacere quelle che ho. Col tempo imparerò che questo è un vantaggio della madonna, il vero valore aggiunto: se fai buoni risultati in questo stato, poi quando arrivi ad avere mezzi decenti fai dei capolavori. In futuro, vedrò tanti genitori sbagliare completamente prospettiva, cercare di dare tutto ai figli, non predisporli a farsi le ossa. La teoria del babbo invece è: mai dare tutto al figlio, mai dargli più degli altri, mai dargli il superfluo. Certo, a lui viene facile, perché non ha niente. Però, concettualmente, è un’idea vincente.

“I problemi sono stati la nostra fortuna” andrà in giro a dire tanti anni dopo nelle interviste, quando gli chiederanno di questa epoca. È la teoria della vita antifighetta, dei calli sulle mani, della cena con gli avanzi che è più buona del pranzo fresco. Magari non vale per tutti, ma con me funziona. E chissà se un giorno riuscirò a farlo io quando sarò padre, io che invece avrò soldi e opportunità, e i miei figli potranno avere tutto quello che vorranno. Sarà una bella sfida. Ma a 7 anni che cosa ne so io? È una domanda che non mi pongo neanche.

Siamo on the road nel vero senso della parola. Le nostre sono Route 66 senza troppo fascino e, purtroppo, sempre con la solita colonna sonora: i Pooh. Il babbo ha una sola cassetta e mette sempre quella, all’infinito. Alla partenza i Pooh. In viaggio i Pooh. Al ritorno i Pooh. Io dormo molto, ma la loro musica mi entra nella testa come quei corsi di inglese che si fanno nel sonno.

Anni dopo, alla Ducati, avrei incontrato per caso Roby Facchinetti, il cantante del gruppo. Lui, tutto gentile, mi invita a un loro concerto. Io rido.

«Perché ridi?»

«Grazie, ma ho già dato…»

Il nostro weekend è un flusso ininterrotto fatto di poche parole e tanti gesti, sorrisi e tensione, polvere e sporcizia. Sembra un gioco ma non lo è, perché le gare sono una roba serissima. Ma è la felicità.

Si parte il sabato appena finita la scuola, oppure la domenica mattina, sempre che il babbo arrivi puntuale. È uno dei miei problemi più grandi, molto più che impostare bene una curva o sportellarmi con un avversario. Lui, infatti, il sabato sera va a ballare, e certe volte si addormenta oppure fa tardi oppure non lo so. Così capita che la domenica mattina io sto lì come un cretino ad aspettarlo piangendo perché c’è la gara e noi rischiamo di perderla. Delle volte ha tardato di ore, ed è stato un vero casino. Sarà per questo che diventerò un maniaco della puntualità e della precisione, l’ennesimo caso nella mia vita in cui una differenza sostanziale col babbo ha influito su di me per opposizione. Magari non è ortodosso, ma certe volte insegnare è anche mostrare che cosa non devi diventare.

Quando finalmente partiamo, mi cambio durante il viaggio e poi funziona così: il sabato giri in moto fino a sera, ceni e giochi con gli altri piloti, vai a letto sfatto, ti alzi la domenica, giri, fai la gara, finisci, giochi ancora con gli altri piloti. Felice, zingaro, sporco. Soprattutto sporco. Sono sempre sporco e mi piace un casino, perché il pilota è sporco, cresce nello sporco, è esposto allo sporco, non può sfuggire a questo destino. Poi si evolve: io, per esempio, diventerò un tipo molto pulito e correrò pulito, sia io sia le mie moto. Ma lo “sporco dentro” resta un concetto di base che fonda l’essenza del mio motociclismo. Come quelle tipe che si dicono bionde dentro anche se sono more.

Quando la sera si riparte per casa, recuperata chissà come la benzina per il viaggio, mi accascio appena tocco il sedile del camper. Con i Pooh ad accompagnarmi il sonno, credo di non aver mai visto un chilometro di strada al ritorno. Quando arrivo distrutto con due occhiaie così, babbo mi deposita davanti a casa di mamma, le do un saluto veloce, senza nemmeno fare la doccia mi fiondo a letto e la mattina del lunedì quando mi sveglio, puntuale come i ritardi del babbo, ho l’herpes.

È la tensione.

Queste gare sono una botta tremenda, mi mettono addosso pressione e agitazione, e posso dire con certezza che lo stress per un campionato regionale di minimoto resterà per sempre molto superiore a quello di un Gran Premio di MotoGp. Così di solito entro in aula con tre o quattro herpes esplosi come bombe atomiche sulla faccia. La prima cosa che penso quando mi guardo allo specchio è che non potrò limonare, ma è un prezzo che pago sereno, anche perché mi riprendo in fretta e potrò rimediare il martedì, quando la mia settimana ricomincia piena zeppa di impegni: il martedì e il giovedì sera minimoto, il calcio due giorni la settimana, il cross quando voglio a casa.

È un piacere e una necessità. Ho un bisogno fisico di stare in movimento e aderire alla mia natura. Inutile dire, però, che a scuola nessun insegnante è pro-moto. Ovvio. Di base, togliere tempo allo studio non esiste; figurarsi se lo fai perché vai in moto. Ma non è un problema, perché anche qui ho le spalle coperte dal babbo. E infatti mollerò gli studi presto, a 14 anni, dopo un anno alla scuola geometri che avevo scelto solo perché stava vicino a casa ed era obbligatoria. Appena entro in classe il primo giorno so già che avrei smesso, non faccio mai un compito e vengo puntualmente bocciato.

Teoricamente è troppo presto, soprattutto perché non ho ancora una vera certezza sul mio futuro, solo tanta fiducia. Più che una scelta sarà un investimento su me stesso, o forse un azzardo. Perché, diciamolo con onestà, io quando mollerò la scuola avrò vinto solo una marea di gare in minimoto e un Challenge Aprilia. Un po’ poco per pensare di fondare un futuro da atleta professionista. Voglio dire: chi in questi giorni garantisce che approderò al Motomondiale e vincerò, e riuscirò a fare di questo la mia vita e la mia sicurezza economica?

Se però penso a ciò che diventerò, a cosa so e cosa non so adesso, e a come sono io rispetto agli altri, non vedo l’abbandono della scuola come un’occasione di rimpianto. Sfondando nelle moto mi creerò delle certezze economiche, ma soprattutto mi migliorerò come individuo, conoscerò tante persone che mi faranno crescere e maturare in un modo che la scuola non mi permetterebbe mai. Come nozioni, resto un ignorante. Ma le esperienze di vita mi hanno maturato molto di più rispetto a tanti miei coetanei.

C’è un luogo comune che dice che noi atleti professionisti diventiamo adulti in fretta, forse persino troppo presto. Vero, ma bisogna precisare: un conto è diventare adulti, un altro è maturare. Ovvio che prendere decisioni importanti ti spinge a crescere: è una legge di natura, sennò non avanzi mai. Che poi questo voglia dire maturare è un’altra faccenda. Certi miei colleghi, da questo punto di vista, restano dei neonati. Adulti più della loro età, forse, ma neonati dentro, protetti in un mondo non reale in cui, con i soldi, possono fare quello che vogliono. Ma maturare è un’altra faccenda.

Mollare la scuola è stata una decisione forte, dirompente, azzardata. E se avessi toppato? Fortunatamente non mi sono mai trovato nella condizione di doverci nemmeno pensare. Fortunatamente le persone che ho incontrato non sono persone che mi hanno fregato. Anche se di rischi, come tutti, ne ho corsi anch’io.

Alla fine è sempre una questione di modelli. Se penso a ciò che sta facendo il babbo in questi miei anni di bambino, sono certo che, al suo posto, io non ce la farei mai anche con tutta la volontà del mondo. Lui, invece, è salito dalla Sicilia senza niente, con l’unica vera forza di essere convincente con gli altri e avere un sogno: già prima che io nascessi, andava in giro a dire che sarei diventato campione del mondo. In pratica, io ho cominciato a correre prima di nascere. E anche questa è una sua promessa mantenuta. La sua perseveranza, anche nel suo disordine, nei suoi ritardi, nel suo raccontarsela spesso al contrario di come è davvero, è la ragione per cui arriverò dove arriverò. Tutto – anche per opposizione, perché ci sono un miliardo di cose che non condivido di lui – proviene dal babbo, da questi giorni sporchi e duri, dalla realtà che mi è stata mostrata subito senza finzioni né favole, dalla forza nascosta che spreme le nostre fatiche confuse. Insomma, dall’amore. Che poi è tutto quello che conta.

Il colpo della separazione dei miei mi resterà a lungo sotto pelle. Mi ha responsabilizzato e mi ha fatto diventare un bambino ancora più solitario. Quando da grande mi diranno che sono poco solare e che sono chiuso, mi verrà da ridere. Perché adesso sono mooolto peggio. Però grazie alle corse e alla mia vita piena riesco a tenere tutto sotto controllo, divertendomi e facendo sempre quello che desidero. Da questo punto di vista, la mia è un’infanzia fortunata perché, pur nelle difficoltà, posso seguire e sviluppare la mia natura. Se corro in moto, il resto non conta. Sento che non voglio distrazioni, e per molti aspetti sono già quello che diventerò. Voglio punti fermi e, nell’incertezza economica, mi tengo una sola certezza: la moto. Finché so che posso correre, finché so che babbo troverà la benzina per partire, io sono a posto. Per il ritorno, troveremo una soluzione.