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Paure

Io quando cado chiudo gli occhi. Non so più che succede, non so più dove sono, perdo il senso dell’orientamento, mi saltano le coordinate spazio-temporali. Sinistradestrabassoalto una cosa sola. Un attimo prima stavo guidando in controllo, quello dopo sono senza padrone, frullato nella terra di nessuno, eppure perfettamente cosciente. Questa sì è una bella bega: sapere, immaginare. Possedere nella testa un database di cadute, tue e degli altri, che ti comunica immediatamente che sei entrato nel tuo triangolo delle Bermude e non sai se ne verrai mai fuori.

È tremendo, soprattutto quando senti che sta per arrivare la ghiaia. Il passaggio dall’asfalto alla ghiaia è un esperimento chimico che può produrre qualsiasi effetto: il niente come il disastro assoluto, perché anche una stupida scivolata può frantumarti in un milione di pezzi.

Lì, io spero.

Ogni volta che cado, chiudo gli occhi e spero. Sto sbattendo dappertutto, so che posso colpire un ostacolo, che mi si può infilare qualcosa dentro la tuta, che potrò disintegrarmi se tra un attimo avrò la sfiga di passare un centimetro più sopra o più sotto di dove dovrei. Così, spero.

La paura di cadere, di base, è la maledetta paura di farsi male, ed è pazzesco come te la senti dentro mentre cominci a scivolare, rotolare, volare. È una questione di pancia e di testa. Il cervello più sveglio – quello che ti aiuta così tanto quando sei in sella – adesso diventa un nemico bastardo perché acuisce ogni percezione e prefigura gli scenari. Ovviamente, sempre i peggiori. Così, se farsi male è brutto, realizzare che potresti farti del male mentre sta succedendo è persino peggio: è il momento in cui hai meno controllo nella tua vita. Un casino, ma ci devi convivere. Perché la paura sta nella valigia di ogni pilota infilata tra le calze, le maglie e il dentifricio. Te la porti con te dalla prima all’ultima corsa della vita, e se per caso ti dimentichi di metterla in borsa lei ti viene a cercare comunque, manco avesse il GPS. Non significa che corri spaventato. Nessun uomo, anche se non è mai salito su una moto, dovrebbe vivere spaventato. Sarebbe la sua fine. Significa però che quei momenti, prima o poi, arrivano per tutti. E bisogna saperli maneggiare con molta cura.

Conosco diversi tipi di paure, ma quella della caduta è la peggiore. A differenza di tanti colleghi che quasi ci giocano, io la caduta non l’ho mai vissuta bene e la vivo sempre peggio a mano a mano che passano gli anni. Pedrosa – uno che ha decine di fratture e placche e viti sparse in tutto il corpo – un giorno ha detto che ascoltare la propria paura gli serve per capire fino a dove si può spingere. In generale, però, non credo che ti faccia andare più forte. La pressione sì che si trasforma in turbo, benzina pura che alimenta la prestazione. Sulla paura, invece, sarei più perplesso.

Credo sia normale per i piloti come me, che nella carriera sono caduti poco: hai l’impressione di averla sfangata troppe volte, e adesso ci stai sempre più attento. Deve avere a che fare con il cavallo bianco, tanto che spesso credo che lo stesso cadere sia effetto di un cedimento all’irrazionalità: la paura come causa principale del crash.

In questo io e Valentino siamo un po’ simili, credo. Lui, come me, dalla caduta cerca di stare molto lontano, si tiene sempre un margine, cerca di definire un’area di controllo, una specie di no - fly zone che separi la sicurezza dal pericolo. Per questo nei test, nelle prove libere, nelle situazioni non decisive difficilmente cadiamo. Mi sono chiesto spesso se è un problema, se questo trattenersi diventa poi un freno quando in gara servirebbe osare di più. A vedere uno come Márquez dovrei rispondere di sì. Lui, che con la caduta ha un rapporto quasi erotico, arriva al punto di cercarla, accarezzarla, blandirla, sfidarla: sfruttarla per capire dove sta il limite, con la sua classica scivolata in curva quando piega con le orecchie a toccare l’asfalto. In questo, Marc ha un vantaggio enorme su di noi. Poi, però, se guardo alle nature e agli stili di guida dei piloti devo pensare che non è proprio così. Chi garantisce che, spalmandoci al suolo più spesso, a me, a Valentino, ad altri più cauti sarebbe andata meglio? Come sempre è una questione di nature diverse e di equilibrio relativo: troppo controllo, poco controllo, giusto controllo. Si pendola sempre lì, sul filo, in continua sospensione, senza rete.

Io la paura vera l’ho incontrata la prima volta nel 2005 a Barcellona. Era l’anno d’esordio in 250 e alla curva otto sono uscito dritto per la tangente a 180 all’ora, stampato secco contro il muro. La violenza dell’impatto è bestiale, vengo rimbalzato a due metri di distanza, la moto è distrutta, finisco in Clinica Mobile con l’ambulanza. Sono cosciente e terrorizzato. Ogni parte del corpo fa male, sono convinto di essermi rotto tutto. È tremendo. Qualcuno intorno mi dice che se mi lamento è un buon segno, vuol dire che sono reattivo. Sarà, ma io ho un male della madonna e a un certo punto quasi svengo. Mi salva al volo un medico che mi infila un ago in vena.

Intorno ci sono il dottor Costa, il radiologo, Yuri, il Grizzly, Simone e il mio babbo. Dovrei conoscerli, ma mi sembrano alieni.

Costa mi dice: «Tranquillo, ho già visto che non è niente». Ma non mi condisci via così, caro dottore: «Claudio, cosa dici, mi sono distrutto!».

È un dialogo surreale. Gli altri parlano, io non li ascolto. La paura mi divora, ho le lacrime agli occhi. Francesco poi mi dirà che non ha mai visto un pilota così nel panico, né mai più lo avrebbe visto. Questa mi pare grossa, comunque sia mi fanno male il braccio, il polso, la clavicola, il bacino, il ginocchio, la schiena. Farei prima a dire che cosa non mi fa male. I capelli, forse.

Servono le radiografie, ma non voglio restare solo. Il Grizzly, vedendomi così sofferente, decide di rimanere con me. Mi calma e, già che c’è, mi tiene fermo durante i raggi. Va avanti in questo modo per mezz’ora, me ne fanno quattordici e se li becca tutti anche lui. Non so per quanto tempo me lo ha rinfacciato, io però sono fiero di avere un amico che per me è diventato persino radioattivo.

Alla fine non mi sbagliavo. Ho qualcosa dappertutto. Contusioni, piccole distrazioni tendinee, il dubbio di una frattura dell’apice di una vertebra dorsale, una sospetta lesione al tendine del ginocchio con ematoma. Dieci problemi su quattordici mi sembrano una buona media per lamentarsi. Se dovessi cadere in gara rischierei cose veramente brutte. Ma sono giovane, il mio obiettivo è soltanto migliorare, andare più forte, ricordare a tutti che sono campione del mondo: sono disposto a passare sopra anche alle cose gravi. La maledetta paura com’è arrivata passa in fretta, non ho neanche tempo di analizzare troppo. Yuri e Simone mi aiutano a indossare la tuta e ci mettiamo un quarto d’ora da quanto ho male, ma alla fine corro, faccio terzo e sono così contento che prometto a Francesco la mia tuta, che poi gli regalerò a fine campionato. Lui mi parla di cavallo nero e convivenza con il dolore. Io penso a cosa farei oggi in quelle condizioni: correrei lo stesso oppure no?

La paura di cadere è umana, e non ci rende né più né meno eroi, anche perché noi non siamo eroi. Considerando le nostre abilità e le nostre protezioni, mi sembra più eroe un avvocato in motorino sotto la pioggia sul pavé di Milano. E comunque la paura di cadere non è mai la paura di morire. Questo, semplicemente, non può accadere, perché se accade significa che è arrivato il momento di smettere. Quando si corre non è concepibile pensare alla morte, e non lo è nemmeno quando ti sfiora la morte degli altri in pista. La morte per noi semplicemente non esiste. Molti che non conoscono il nostro mondo la considerano la più grande bestemmia, la dimostrazione della nostra insensibilità. Naturalmente parlano per sentito dire, perché non è così: è solo che le nostre regole di ingaggio sono differenti e il patto originario che facciamo con noi stessi quando cominciamo questo sport ha altre condizioni.

Noi piloti conosciamo le regole del nostro gioco. Sappiamo ciò che rischiamo e forse è proprio questa la ragione – una delle ragioni – per cui corriamo. Accettiamo questo stato perché vogliamo essere liberi di fare ciò che desideriamo nella vita, scegliendolo. Ognuno può pensare ciò che vuole: giudicarci, criticarci, considerarci dei matti o degli arroganti, ma nessuno può impedirci di fare quello che vogliamo nel rispetto delle regole che ci siamo imposti e che condividiamo dentro un circuito. Non mi sembra strano, e nemmeno il vizio di una minoranza freak. Al contrario, credo che dovrebbe essere una regola buona per la vita di tutti i giorni: assumersi un rischio è una scelta, e se questa non interferisce nella sfera privata di un’altra persona andrebbe accettata sempre. Peace and love and affari tuoi: questa è la mia idea del motociclismo e della vita.

Poi è chiaro che correre in moto è più pericoloso di molti altri lavori. La vita, però, ci dimostra ogni giorno che tutto è solo una questione di destino. Io, dopo la morte di Marco Simoncelli, al destino ho pure dedicato un tatuaggio, e continuo a pensare che la morte – il modo e il momento in cui arriva – sia indipendente da ciò che fai nella vita. Anche per questo trovo assurdo che ci sia ancora qualcuno che, quando muore un pilota, chiede che le corse di moto vengano abolite. Ragionamenti senza senso, cazzate totali. In realtà, bisognerebbe scindere il dolore per la scomparsa di una persona dal lucido riconoscimento che la morte è un effetto possibile delle corse. Al limite, una conseguenza dell’amore.

Chi corre lo sa, e lo sapeva anche chi è morto correndo: se potesse parlare ce lo direbbe, magari sorridendo, così come spesso lo dicono per lui coloro che gli erano più vicini. “È morto facendo quello che amava” non è una frase di circostanza, ma la constatazione di una realtà. Un fatto di cronaca. E sono convinto che, se potessero tornare indietro, i piloti che non ci sono più rifarebbero daccapo tutto quello che hanno fatto.

Non è che sono un robot, e nemmeno uno stronzo. A volte anch’io mi chiedo chi me lo faccia fare. Ma alla fine la verità è che uno dei momenti più belli della vita è quando sei al limite del troppo: sto al confine dell’Oltre e sto godendo di brutto. Rischio ergo sum. Da questa condanna non si scappa, e non ci scappo nemmeno io che sono il pilota più razionale in circolazione. Ma non c’è contraddizione: rischia anche chi corre in controllo, perché il suo limite è l’orizzonte oltre il quale c’è il suo ignoto personale, che sia a 50 come a 350 all’ora, e perché comunque solo salire su una moto e farci una corsa è un’esposizione all’abbraccio del nulla. E poi mi domando: esiste una cosa bella che non comporti un rischio? Ciò che noi proviamo correndo a questo livello è il rischio del gioco con la vita; questo rischio ti mette addosso una paura della madonna; ma è questo rischio uno dei motivi principali per cui salti in sella e dai gas.

La mattina del giorno in cui Marco Simoncelli morirà ho un solo pensiero: questa è una gara che devo vincere. Amo Sepang, la moto è a posto, con Stoner e Pedrosa siamo tre Honda in prima fila: mi sento pronto per il colpo decisivo. Al via scatta Casey, poi Dani, poi io. Marco è dietro. Un giro. Poi, al secondo, la bandiera rossa. Torno al box, ho ancora il casco in testa e mi dicono che Marco è caduto. Resto lì seduto, senza capire. A un tratto, arriva Simone. È pallido, sconvolto, non l’ho mai visto così. Mi dice che forse posso anche cambiarmi: la situazione non sembra buona, Marco ha perso il casco per il colpo che ha preso. Io che non ho ancora visto le immagini sgrano gli occhi.

«Come, ha perso il casco. Non è possibile!»

Simone non risponde. Esce lento dal box.

Ci metto poco a sapere quello che è successo, in un attimo ne parla tutto il paddock. La notizia è talmente irreale che non reagisco. Le parole per dirla non bastano: non riescono a contenere il senso dell’accaduto, le frasi risuonano ma non hanno significato.

Lascio il box e vado nell’ufficio Honda, uno degli angoli più scrausi del circuito. Prefabbricato, parete spoglia, moquette vecchia e sporca, un tavolino di plastica, aria condizionata al massimo per contrastare la cappa che c’è fuori. È un tempo sospeso, sono confuso. Simone mi domanda come sto.

«Boh. È strano.»

«Strano?»

«Non provo niente, non sento emozioni.»

Simone si avvicina, capisce il mio stupore e soprattutto la mia preoccupazione. Perché non sento niente? È così che funziona l’incontro con la morte? Ho paura di non provare nulla. Simone mi mette una mano sulla spalla:

«La botta arriverà, Andrea. E quando arriverà vivila con la massima intensità, lasciatela scorrere dentro, non sfuggire la sofferenza creandoti rumore attorno. Sarà un momento importantissimo di vita, una profondità che non ti farà male.»

E la botta, infatti, arriva quando ritorno al box. All’improvviso scoppio a piangere come non ho mai fatto in vita mia. Disperato. Senza consolazione. Per un tempo che mi sembra infinito.

Poi decido di andare da Paolo. Sento che devo farlo. È una necessità che viene da dentro. E qui non è più l’incontro fra i nemici di una vita ma fra il babbo di Marco e l’ex compagno di giochi di suo figlio che non c’è più. Ci abbracciamo in lacrime, senza parlare. Lui mi stringe con le sue grandi mani, le barriere crollano in un istante. È strano, perché con Paolo fino a quel momento avevo avuto un rapporto persino peggiore che con Marco. Non ci sopportavamo tra figli, non si sopportavano lui e il mio babbo, tra i Dovizioso e i Simoncelli non c’era un incrocio che funzionava. A noi non piaceva l’irruenza di Paolo, gli inviti a Marco a essere duro, a sportellare, a giocare aggressivo, a volte sporco. Io ero l’opposto, e loro non sopportavano la mia immagine di ragazzo perfettino, un po’ professorale, sempre dentro le regole e con il palo nel culo. Nero e bianco, insomma, come rimarremo per tutta la carriera fra i grandi, in pista e nella vita: allegro e giocherellone lui, capace di godersi totalmente la guida; riflessivo, serio e posato io. Legare tra noi era impossibile, anche se il rispetto sportivo c’era perché era altrettanto impossibile negare che l’altro fosse forte.

Stretto a Paolo adesso piango e continuo a pensare che non è vero, che stiamo vivendo in una realtà parallela. Marco in vita sua aveva rischiato di tutto, lo avevo visto cadere in mille maniere pericolosissime, eppure si rialzava sempre, come fosse invincibile. Com’è potuto accadere? Il suo babbo e io, in silenzio, ci stiamo ponendo la stessa domanda. Per la prima volta ci capiamo, e capiamo che per anni ci siamo visti in modo distorto solo a causa della competizione e della rivalità. Per la prima volta siamo due persone reali, fuori dall’immagine sbagliata che avevamo l’uno dell’altro. È incredibile come la vita ti spinga a incaponirti su convinzioni senza senso.

Oggi sento la mancanza di Marco. Sento l’assenza di una persona che non ho mai frequentato ma che in fondo conoscevo molto bene, e che è stata fondamentale per crescere: combattere l’uno contro l’altro, avere nella testa l’altro anche quando eravamo distanti in pista, ci ha tirato fuori qualcosa che chissà se sarebbe emersa lo stesso. Mi è servito a capire che le relazioni personali sono complesse e importanti. E questa, pur nella sua forte conflittualità, è stata a suo modo una relazione. Perché le relazioni non sono solo quelle felici e leggere, ma anche quelle difficili, persino quelle che non esisteranno mai. La loro intensità produce effetti, impone riflessioni, anche cambiamenti.

Per Marco ho fatto un tatuaggio polinesiano. Ci sono il dio sole simbolo della vita, l’uccello fregata simbolo del destino e un geco. La scritta dice: SONO PADRONE DEL MIO DESTINO, MA SOLO IL DESTINO CONOSCE LA FINE DEL CAMMINO.

Oggi, ripensando a tutto ciò che era successo prima fra noi, vedo Marco con occhi completamente diversi. C’è solo un problema: è troppo tardi.

Tenere da qualche parte della tua mente la cognizione della morte è l’opposto che evocarla coscientemente e sfidarla. Il dottor Costa, per esempio, mi chiedeva follia. “Dare la vita per una corsa.” Era una metafora, ovvio. Ma io pensavo: che roba è? Lui ogni volta mi cita ancora Le Mans 2006, la gara in cui ho perso da Takahashi che, a sentire il dottore, era forte dieci volte meno di me… A un certo punto, all’ultimo giro, quello spegne la vena, fa il matto, io rimango calcolatore fino alla fine, “non colgo l’attimo”, come dice Costa, e lui mi batte di 98 millesimi. È successo anche contro altri meno veloci di me: De Angelis, Barberá, Bautista. Nessuno di loro era più forte o talentuoso di me. Ma io ero prigioniero della mia natura. Cavallo bianco, paura. Entrambi.

Ad altri piloti, invece, il richiamo della follia accende la scintilla. Gente come Capirossi aveva bisogno di sentirsi dire frasi tipo “puoi morire ma puoi correre e fare la storia”: questo gli esaltava il demone, la pressione scompariva, Loris non finiva neanche di farsi fasciare che già stava scappando in pista a correre. Non l’ho mai giudicato e non lo giudicherò mai. Ma so che con me il richiamo alla follia o alla morte ha sempre generato l’effetto contrario.

È talmente potente questa pulsione che in molti provoca l’effetto down quando non la sentono più. Non riescono più ad afferrare la vita e pensano che senza rischio non abbia più senso andare avanti. Conosco tanta gente che ha smesso di correre e soffre, in pura crisi di astinenza da adrenalina. Astinenza dalla paura.

Io non so che cosa accadrà a me. Sicuramente sarà difficile gestire la situazione e finché non mi ci troverò non saprò bene come fare, ma è chiaro che la differenza dovrò farla io. Qui è una questione di intelligenza: cavallo bianco a manetta, riflessione, lucidità. Quando finirà la MotoGp bisognerà avere obiettivi e altri sogni per non cedere a un’altra paura, quella del vuoto. Non posso garantirmi che supererò la transizione in scioltezza, ma penso di avere le idee chiare. Io già adesso lavoro per quello, per non scoppiare di testa quando smetterò. Per esempio, cercando anche di definire quali sono gli elementi negativi di questo mio mondo, quelli che non mi mancheranno. È un buon esercizio, perché ti fa capire in anticipo che proverai anche molto sollievo…

Noi piloti siamo fortunati, certo, ma viviamo anche momenti complessi. E se quando mi ritirerò non avrò più i boom di adrenalina, la fama e tutto il resto, so anche che un sacco di cose non mi scocceranno più. È un po’ quello che sosteneva Stoner, che aveva capito tutto in anticipo, anche se a modo suo, da australiano estremo. Quando diceva “amo le corse, non il mondo delle corse” faceva una distinzione sottile e intelligente, da persona con una testa funzionante, e non era poi così lontano dalla verità. Io non ho paura di perdere i falsi e i paraculi, gli inganni dei media e le inutili riunioni tecniche, i viaggi e gli alberghi, la delusione per la sconfitta e i dubbi sul mio valore. Questa conquista compenserà la paura di restare senza brividi e senza moto, di non farcela dopo, di avere nostalgia di quello che eri, di perderti a guardare le fotografie fondo seppia di un’epoca che non c’è più. La potrei capire, ma sinceramente non credo che mi colpirà. In questo, vivere in sella al cavallo bianco sarà una bella fortuna: lui saprà fare il suo lavoro…

Per tanti anni ho avuto paura di non farcela. Non è paura fisica, ma c’è eccome, e ti rode dentro come un tarlo tutti i giorni, più o meno consciamente. Per quello che ne so, ce l’hanno tutti i piloti, anche se sono pochi quelli con il coraggio di ammetterlo. L’ansia da prestazione, i momenti complessi di una gara, fino alla mia perversione massima, quella che ho persino vergogna a riconoscere: arrivare al punto di una gara in cui avrei preferito cadere piuttosto che andare avanti e fare un pessimo risultato.

Sei in crisi, ti urlano le vesciche sulle mani, ti esplodono le braccia, ti bruciano i piedi sulle pedane, ti manca il fiato, senti che non ce la fai più, che qualcuno ti sta andando via e non lo riprenderai mai, i primi sono a una clessidra di distanza, sai benissimo che non arriverai dove volevi, la corsa è andata, lo stomaco si stringe, la delusione ti mangia, e ti stai sui maroni te, la moto, le corse, questa merda di vita da globetrotter che, senza vittorie, ti pare sempre più quella del criceto sulla ruota… Che poi la ruota del criceto sarà hard o soft, da asciutto o da bagnato? Sei nel pallone, sei frustrato, sei sicuro che sei finito. E allora, di botto, pensi: cazzo, sarebbe meglio se cadessi.

È una roba orribile, tanto orribile che te la ripeti perché forse non hai capito bene; in gara c’è rumore, ci può stare.

Sarebbe meglio se cadessi.

Hai capito bene, invece. E tutto è molto semplice, nel suo orrore: hai una paura e un orgoglio talmente grandi che piuttosto che prendere paga ti butteresti per terra.

Forse allora mi sbaglio. La paura peggiore non dev’essere quella di cadere, se sarei davvero disposto a sdraiarmi e farmi male piuttosto che perdere. Ma questo è ciò che succede quando la realtà inganna il sogno, non riesci ad afferrare quello che cerchi e il cervello va fuori giri, perde lucidità, va a rimorchio delle situazioni anziché dominarle. Perché è chiaro che razionalmente tutto questo non ha senso: com’è possibile che un pilota preferisca cadere piuttosto che stare in piedi? Eppure mi è successo.

La paura di non farcela è stata mia compagna per anni.

È orribile. Ti segue anche a casa. Se vivi di corse non puoi non esserne condizionato anche quando sono finite. Qualcuno non dorme, qualcuno non mangia, qualcuno va in depressione profonda. Io non ho mai subìto reazioni estreme, ma ci sono stati momenti in cui, per davvero, la paura mi stava mangiando l’anima.

In quel 2009, il mio primo anno in HRC, vedevo solo il muro davanti, mi sentivo inferiore, sentivo la fatica, la difficoltà di raggiungere il massimo obiettivo. Il limite era qualcosa di tangibile che mi rovinava la vita e mi bloccava il respiro. Non vedevo la luce. La cercavo, invece ero nel buio. Inseguivo la leggerezza ma la gravità continuava a tirarmi giù. Io poi, razionale come sono, non mi racconto mai balle, dunque avevo il quadro ben chiaro. Non ce la posso fare, questi non li batterò mai. Una paura definitiva, che avrebbe potuto uccidermi come atleta. Oggi quella paura non ce l’ho più, ma non la dimentico mai.

Non dimentico neanche come stavo per convincermi che il mio ruolo fosse solo quello: pilota da podio, mai da primo gradino.

La paura di vincere.

Se un pilota si abitua alla propria immagine, poi il problema è capire quando se ne deve sbarazzare. Sei hai paura di esplorare terreni nuovi ti adegui, ti accontenti, sei contento per un terzo posto, non attraversi mai il ponte che collega la tua zona di conforto al misterioso. Il rischio allora è che, se ti capita di trovarti in testa a una gara e non sei attrezzato, basta poco perché chi è più abituato di te a queste situazioni ti faccia “buh!” e ti rispedisca al tuo posto con le orecchie basse: un sorpasso duro, una tirata da 3 decimi in un giro e ciao.

Dipende sempre dal cavallo bianco. Sai valutare bene gli altri, il loro livello e i rapporti di forza in campo, elabori convinzioni sulla base della logica. Insomma: se Stoner è più forte di te, ti ha sempre battuto, e tu hai una moto satellite e lui una ufficiale, finisci per pensare che ti batterà per sempre. Sei il risultato di un’equazione. E se per caso gli sei davanti, finisci nel loop devastante che ti porta a confermare le tue ipotesi di partenza: non posso vincere diventa “che succede se lo faccio?”.

Come uscirne? Per esempio dando il massimo. Questo è un concetto ritrito e vago che tutti gli sportivi usano quasi meccanicamente.

Darò il centouno per cento.

Che significa davvero? Con Simone ne ho parlato spesso. La sua tesi è: se sei un tennista numero cento del mondo e giochi con il numero uno, è molto probabile che tu perda; la differenza fondamentale per te è se giochi di merda oppure no. Nel primo caso uscirai furibondo, senza aver dato il massimo, senza crescere. Se invece giocherai il tuo tennis migliore, se non altro sarai soddisfatto di te; e magari potresti anche avere vinto la partita.

È una buona teoria, anche se nel mio sport la componente tecnologica è tale che – se vai a combattere la Honda con i freni trovati nell’uovo di Pasqua – hai zero virgola zero chance di batterla. E allora lì come capisci qual è il tuo meglio? Come metti in relazione la macchina e l’uomo? Dove capisci fino a che punto potevi o non potevi fare qualcosa? E, soprattutto, quanto ti consola sapere che eri al massimo quando sai in partenza che non avevi possibilità? E perché fare questo sforzo se poi da fuori vedranno solo il risultato finale e non il processo nascosto, dunque ti criticheranno senza argomenti?

La frustrazione nasce qui. E anche lei fa una bella paura. Perché io di frustrati che vincono non ne ho mai conosciuti in vita mia.