12

We want you

La prima volta che salgo su una Ducati è nel 2006. Sono ancora in 250, e nell’aria c’è una vaga ipotesi di passare in MotoGp già l’anno prossimo. A Bologna stanno cercando un pilota che sostituisca Sete Gibernau e tra i candidati ci sono anch’io: italiano, matricola di belle speranze, talento sicuro, serio lavoratore, un titolo mondiale in tasca. Il curriculum c’è tutto.

Livio Suppo, all’epoca general manager di Ducati, chiama Simone. Dice che avrebbe piacere di farmi conoscere la moto di persona, come fosse una ragazza: vi metto in contatto, poi magari arriva il crush. Io continuo a pensare alla HRC, il vero obiettivo della mia carriera. Oltretutto la Ducati, in questo momento, non è che sia particolarmente brillante. Però accetto, se non altro per cortesia.

Combiniamo un incontro durante il Gran Premio di Brno. Una cosa carbonara, la sera tardi, quando è sceso il buio. Io e Simone usciamo dal mio camper, ci guardiamo in giro furtivi, ci mancano solo la calzamaglia di Diabolik, la pila e la chiave universale. Ridicoli: sembriamo due banditi che stanno andando a fare una rapina. Ma il fatto è che nessuno ci deve vedere, perciò evitiamo il viale centrale del paddock, passiamo nel retro delle hospitality, scavalchiamo fili e transenne, e finalmente arriviamo.

Nel box Ducati ci sono Suppo e i meccanici. Ciao, come va, poi giro un po’ intorno alla moto, scambio due parole con lo staff, infine monto in sella. Così a secco tutto è astratto, sembra di stare in una sala giochi a Riccione. A quel punto, però, Suppo dice: «Dai, accendiamo il motore». Strano. La moto è ferma sui cavalletti, io probabilmente non la guiderò mai e forse lui lo sa già. Perché insiste così tanto? Forse per impressionarmi? O per farmi capire quanto ci tengono? Non faccio in tempo a darmi una risposta che i meccanici hanno già eseguito.

Bang!

Nel chiuso del box è come se decollasse un jet. Al rombo dei motori sono abituato, ma questa volta è davvero una botta gigantesca. Dura un attimo, ma mi è sufficiente. Scendo senza dire nulla. Ci salutiamo. Ci diamo generici appuntamenti.

Con Simone adesso percorriamo a ritroso la strada nascosta dell’andata.

«Che ne pensi?»

«Mah. Lo sai che a me interessa la Honda.»

«Ok. Ma toglimi una curiosità: hai provato qualcosa?»

«Stranamente sì.»

«Cosa?»

«Paura.»

Non è questo il motivo per cui rinuncerò alla Ducati, ma perché tecnicamente la vedo come un salto nel buio. Il mio obiettivo è restare nell’orbita Honda, e penso che nel 2007 sarà meglio correre ancora in 250 – magari cercando di vincere il Mondiale – e proseguire il mio percorso che mi porterà alla HRC ufficiale. Il giorno dopo è quello che dico a Suppo:

«Grazie, ma preferisco un’altra stagione in 250.»

Ducati, poi, ingaggerà Stoner, il più straordinario ripiego della storia dello sport. A Bologna, infatti, a parte l’abboccamento con me, prima avevano intavolato trattative serie con Hayden e Melandri. Casey è arrivato solo dopo i loro no, e ha fatto la storia del motociclismo. Ora non so Nicky o Marco, ma io non ho mai avuto rimpianti per il mio rifiuto. Non ero pronto. E sono contento di aver avuto il coraggio di dirmelo.

Per ritrovarci con la Ducati ci vogliono sei anni, non più in un box ma tra i corridoi dell’aeroporto di Monaco di Baviera, di ritorno dall’America. A Laguna Seca ho appena fatto un grande quarto posto, ma il risultato è stato polverizzato dai segnali inequivocabili sul mio futuro. L’idea mia e di Simone, infatti, era di passare nel 2013 al team ufficiale Yamaha. È un pensiero logico: con la Tech 3 sto facendo benissimo e ho riverniciato la mia immagine dopo le stagioni in Honda; in più, Spies come compagno di Lorenzo in Yamaha sta andando male, e infatti al termine del 2012 chiuderà dietro di me in classifica. L’idea di una squadra Lorenzo-Dovizioso per la stagione 2013 ha sempre più senso.

Finalmente, penso in queste settimane, le mie qualità verranno riconosciute. In realtà, proprio il fatto che a questi risultati non corrispondano ancora gesti di apertura da parte della dirigenza dovrebbe insospettirmi. Infatti già in Olanda, tre gare prima, Simone annusa l’aria:

«Qui c’è qualcosa che non mi torna.»

La Yamaha non prende posizione e, come scoprirò tanto tempo dopo, il grande capo Lin Jarvis in quei giorni fa già intendere a Simone che forse sarebbe meglio lasciar perdere e cercare altrove.

Ora, io conosco una sola cosa che viaggia più veloce di noi piloti in un circuito: le voci. E infatti l’ipotesi che Valentino voglia mollare e tornare dov’era inizia a girare nel paddock e sui giornali. Io però voglio credere ancora di avere una chance e la situazione mi sembra sempre fluida, tanto che al Sachsenring un incontro tra Rossi e i vertici Audi pare riaprire degli spiragli. “Loro hanno un grande entusiasmo e ne hanno trasmesso un po’ anche a me” dice Valentino ai media. Nel giro di poche settimane capiremo tutti che sono solo parole di facciata.

Cerco di non pensarci. Mi concentro sull’America e mi godo il tour che abbiamo organizzato in Dodge io e Francesco, da Los Angeles a San Francisco, con tappa esagerata al party di Wayne Rainey nella sua fantastica villa nell’entroterra fra Monterey e il circuito di Laguna Seca. Naturalmente so bene chi è Rainey, ma il Grizzly tira dritto e mi racconta milioni di aneddoti che non conosco, facendomi da guida nel motociclismo vintage con il suo solito entusiasmo. Un’altra delle nostre differenze: io vivo nel presente, non conosco a menadito la storia del mio sport, ho in mente vaghi flash dei piloti che ho visto in tv o, più raramente, dalle tribune; lui invece sa tutto, ha passato l’infanzia a pane e “Motosprint”, si mangia con gli occhi ogni impresa dei campioni del passato e spesso mi consiglia di guardare i loro video sperando di trasferirmi un po’ della sua eccitazione di tifoso. È convinto che un pizzico in più di storia potrebbe servirmi anche in gara.

Il party, comunque, è un gran bel trip: Rainey è un mito Yamaha, con le sue vittorie, il suo drammatico incidente, l’aura di eroe che giustamente lo accompagna. È una bella esperienza che mi fa sentire più vicino alla mia prossima moto ufficiale…

Invece, appena arriviamo al circuito, esplode forte quello che prima era solo un sussurro: Valentino vuole ritornare in Yamaha. Alla Ducati si sa come stanno andando le cose; Vale e la moto, insieme, hanno prodotto il più grosso flop della storia della MotoGp; lui è deluso, cerca un rilancio e non vede posto migliore che il suo vecchio box.

“Loro mi fanno promesse e mi danno pacche sulle spalle, ma progetti definiti non ce ne sono” dice Valentino ai giornalisti.

È una sentenza. Due più due fa sempre quattro, soprattutto per me. Dunque chi resta fuori dai giochi? Io, chiaramente. È palese infatti che – per quanto Rossi possa aver fallito con la Ducati o addirittura, come dicono i soliti che sparano sentenze senza sapere nulla, possa essere bollito – la Yamaha preferisce lui a me. Del resto, preferirebbe lui a chiunque altro, per mille motivi che fanno gola anche agli organizzatori: se Valentino che lascia la Yamaha nel 2011 è stato un botto clamoroso, Valentino che ci ritorna per la grande rivincita lo sarebbe ancora di più. Il mio film termina qui. Quello che pensavo fosse il mio posto se lo è già prenotato lui. Le porte della Yamaha mi si chiudono davanti per ragioni indipendenti da me, ma comunque si chiudono.

Dopo la gara, il volo di ritorno dall’America non è un bel volo. Ed è quando atterro a Monaco, dove facciamo scalo, che esco dalla lounge e incontro Gabriele Del Torchio, l’amministratore delegato di Ducati. Non ho mai saputo se è stato davvero un incrocio casuale oppure se lui lo aveva preparato. Poco importa. Ci incamminiamo insieme verso il gate per Bologna e, dopo due parole di circostanza, lui va dritto al punto:

«Io e te potremmo fare due chiacchiere per il futuro, non credi?»

Resto lì immobile, sorpreso di brutto. Prendo tempo, sospeso fra la curiosità di sentire che cos’ha da dirmi e la delusione nel realizzare che la via per la Yamaha allora è davvero chiusa. Non parlo. Trascino il mio trolley e continuiamo a camminare, io in mezzo tra Francesco e Del Torchio. Il capo Ducati, che sa fare bene il suo mestiere, non si scompone e continua:

«Vienimi a trovare, Andrea, perché noi ti vogliamo.»

Mi fa pensare allo zio Sam che puntava l’indice per reclutare i soldati americani.

We want you!

Ma io, sinceramente, sono perplesso.

Mi vedevo già vestito di blu con la scritta Yamaha e ora mi si prospetta di passare sulla stessa moto con cui un grande come Valentino sta facendo delle figuracce planetarie, in un’azienda che il miglior pilota di tutti accusa di incapacità un giorno sì e l’altro pure. Che eredità andrei a raccogliere? E, soprattutto, in quale vicolo cieco mi andrei a cacciare? Restando in Tech 3, d’altra parte, che cosa potrei fare? La moto la conosco bene e con un anno di esperienza potrei sfruttarla ancora meglio: ma come posso sfidare Valentino e Lorenzo se non avrò gli stessi loro materiali? Se mi sono dovuto pure comprare i freni, che speranze posso avere sul famoso “pari trattamento”?

Ovviamente a Del Torchio non racconto niente di tutto questo. Gentile e diplomatico, dico che la cosa mi onora, lo ascolto raccontarmi che in Ducati sono convinti di avere imparato dai propri errori – e ci sta, perché sono un’azienda seria – e che vogliono proseguire la sfida del pilota italiano con moto italiana. Oltretutto con uno come me che, avendo buona fama di collaudatore e avendo già guidato Honda e Yamaha, potrà portare un po’ di esperienza utile, o il cosiddetto database. Un discorso corretto, che non fa una piega. Lo apprezzo, anche se non sono troppo convinto.

Con Del Torchio saliamo sull’aereo, ci salutiamo, ognuno va al suo posto: “Ci si sente”. In volo Francesco espone la sua morale, che ha un senso:

«È semplice, Andre: te sei uno dei pochi che cambiando moto, factory o no, riesce sempre a cavarne qualcosa di buono e a migliorarla. Gli servi.»

«Sì ma… è vincere?»

Silenzio. Nell’aria solo il rumore del motore e la voce del comandante che annuncia che stiamo per atterrare a Bologna, guarda caso Borgo Panigale.

La trattativa, nelle settimane successive, non è complicata: le nostre onde portavano lì, come se entrambi non avessimo altra scelta. Volenti o nolenti, io e Ducati dobbiamo piacerci. Il confronto sul contratto, come sempre, è intenso ma corretto. Ognuna delle parti pensa al proprio interesse e non mi scandalizzo. Alla fine i termini dell’intesa biennale mi vanno molto bene. Accetto.

A Indianapolis, dove nel frattempo prendo un altro podio, terzo, Simone mi informa che il contratto è pronto. Lo firmo a Praga, dove ci troviamo sulla via di Brno per il Gran Premio successivo. Sono decine e decine di pagine scritte fitte, l’opposto dei due foglietti di Poncharal. Una differenza anche simbolica notevole. Francesco va a stamparle di nascosto al business center del nostro alberghetto fuori dal centro, come se davvero potesse esserci qualcuno che ci spia. Chissà perché quando c’è di mezzo la Ducati tutto assume i contorni del noir… Comunque sia, penso quando Francesco torna con il plico e la biro, da qui non si torna più indietro. E firmo. Adesso sono cazzi miei.

Nell’ultima parte dell’anno con la Tech 3 i risultati non mancano, e questa è una delle cose che mi renderà più fiero di me in tutta la carriera. È la conferma che io ci sono, e che con una moto clienti faccio il massimo che potrei fare, anzi quello che probabilmente nessuno riuscirebbe a fare. Così mi trovo su uno strano doppio binario. In pista, con il team, mi diverto molto: devo solo guidare senza pensieri, c’è un clima da motocross leggero e senza i fronzoli di un team ufficiale. Umanamente, insomma, è l’ideale.

Fuori pista, però, lo spirito mi finisce spesso sotto gli stivali, sono triste, e onestamente, quando faccio la valigia per andare alle corse, non so dove troverò la grinta per correre. Il presente è transitorio, e il futuro? Quante incognite ci sono nell’aria? E quanti rimpianti?

Nelle prime due stagioni in Ducati ci penserò a lungo. Spesso mi troverò a guardare le Yamaha in pista e le troverò così belle, pulite, prive di increspature sul loro binario perfetto.

Mamma mia che moto! Guarda come gira in quella curva! Guarda lì come esce in scioltezza! Che cosa potrei fare io lì sopra?

Ora invece, tra una gara e l’altra, mi domando: che cosa farò sulla Ducati? Mi preoccupano soprattutto le parole che Valentino dice a ogni weekend: se uno come lui ne parla così male, mica si sarà inventato tutto. Andiamo a correre per fare cosa? Non ho risposte. E io senza risposte sono come una moto senza ruote.

Nel trittico d’Oriente non mi tengo più e con Francesco continuo a litigare. Sono nervoso, basta poco per farmi girare le palle in un nanosecondo. Tra Malesia e Australia facciamo due giorni di stop a Singapore. Dovrebbe essere una vacanza. Simone e Francesco si divertono, ridono, bevono, prendono il sole, mi pigliano per il culo dicendo che con me sembra di portarsi in giro un trolley pieno di sassi. Io mi incupisco ancora di più:

«Che cazzo avrete da ridere non lo so…»

In Giappone faccio un altro quarto e a Sepang, come sempre, mi si accende qualcosa. Giro bene in prova, nel warm up asciutto sono davanti a tutti, ho un passo gara mostruoso, non mi intacca la fiducia neanche una caduta da niente. A volte questi intoppi mi destabilizzano, invece mi sale dentro una botta di sicurezza mai vista. Guardo i miei al box e la sparo forte:

«Adesso a questi gli vinco una gara prima che mi lascino a piedi.»

Sono tutto orgoglio e incazzatura, rabbia e adrenalina. Se devo andarmene, vi lascerò con un bel ricordo. Anziché riprendermi le mie cose, come succede quando due si lasciano e uno va via di casa, sarò io a farvi un regalo finale. Un’uscita da signori, anche se poi, tecnicamente, in Tech 3 non ce l’ho con nessuno.

Invece, come sempre in Malesia, arriva la pioggia, anzi il nubifragio. È un casino, si rifà la partenza, finisco tredicesimo e il terzo posto di Stoner mi fa arrabbiare il doppio perché Francesco ha passato gran parte del weekend a fargli terapia: hanno un buon rapporto da sempre, Casey aveva un problema e aveva chiesto al Grizzly se gli dava una mano. A me, invece, non sta funzionando niente, mi aggrediscono anche i sentimenti più orrendi. La sera in albergo nel centro di Kuala Lumpur io e Francesco neanche ci parliamo. Guardo le Petronas Towers illuminate nella notte e penso che mi è sfuggita di mano anche l’ultima occasione per una vittoria in Yamaha: non sarebbe stata una vittoria qualsiasi, ma una specie di testamento del rider offeso. Che situazione di merda.

A un tratto il Grizzly rompe il silenzio: «Comunque, Andre, te esci a testa alta».

Taccio. Non mi basta. Non me ne frega niente.

Salire sulla Ducati, dopo, è una bella botta. Già non è quello che volevo, in più pare proprio che non funzioni. Da fuori era difficile giudicare compiutamente il suo fallimento, perché da fuori non conosci mai i dettagli. La moto la puoi osservare, immaginare, ascoltare quando suona. Ti fai delle idee in base alle voci che senti in giro, alle sensazioni che cogli in pista pedinandola, cose così. Vaghe, approssimative. Una piccola certezza però me la coltivo: e cioè che sia facile fare meglio di Valentino, come poi effettivamente sarà.

Non sono presuntuoso, ma realista. Anzitutto, non ho pressione. E poi io e Ducati abbiamo una comunione d’intenti che potrebbe – dico potrebbe – farci lavorare bene: siamo entrambi in un momento difficile e abbiamo entrambi la voglia di riconquistare una posizione forte in questo ambiente. Loro non hanno più né struttura né moto, io non avevo più un team ufficiale. Probabilmente, fra i due quella messa peggio è lei, ma in generale mi sembra che abbiamo esigenze simili. E poi siamo entrambi arrabbiati. Molto.

Alla lunga, penso che questo sia ciò che nel tempo farà la differenza. Non è un caso, infatti, che gli altri piloti passati in Ducati siano saltati per aria e io no. Tutti sono arrivati convinti di poter fare bene senza sforzo, ma la mettevano giù troppo semplice e quando hanno capito che era così dura hanno mollato. Io no. Io sapevo da dove partivamo, sono rimasto sempre in sella, ho attraversato ogni genere di difficoltà.

Dire che cosa avrei fatto con la Yamaha oggi non è possibile, né lo sarà mai: quella era una moto pronta, funzionale, sicuramente più adatta al mio stile e alla mia visione del motociclismo. Però, appena ho metabolizzato lo sbandamento iniziale, ho deciso di sforzarmi e guardare il lato positivo della faccenda.

Dovizioso che arrivava terzo con la HRC per tutti era come se fosse arrivato decimo. E probabilmente sarebbe stato lo stesso se fossi arrivato secondo o terzo con la Yamaha. Dovi trasparente, bravosiperò, eccetera eccetera. Con la Ducati, invece, pur attraverso sofferenze, sbattimenti e la tentazione di mollarla lì perché non vedevo la luce, sono arrivato dove sono ora. Lì dove anche un secondo posto nel Mondiale verrà festeggiato come un primo. Perché alla fine questo è uno dei grandi insegnamenti dell’avventura con la Ducati: vincere non è solo questione di arrivare primi. Anche perché, sennò, correrebbe uno solo.

Queste sono le belle parole di adesso. Quando però ci metto il sedere sopra è tutta un’altra storia. Lì è il momento della rivelazione, un appuntamento al buio che finalmente si concretizza: come sarà questa specie di matrimonio combinato?

Ecco, lasciamo perdere.

Il primo test a Valencia non mi fa capire niente perché le condizioni del tempo sono variabili e creano solo confusione. Il secondo a Jerez non lo faccio perché ho male al collo: forse che lui ha capito tutto prima?

Siamo su una delle piste che non sopporto e che cancellerei dalla geografia del Motomondiale. L’umore è quello che è. Appena entro in pista, il tempo di uscire dalla prima curva, raddrizzare la moto e staccare, mollo il gas e mi fermo. Il collo si è bloccato: il mio classico problema dopo quella caduta a Barcellona in 250. Sono kappaò. Resto due giorni incriccato sotto le mani di Francesco. Non riesco neanche a voltarmi, nessuna terapia anti-infiammatoria riesce a fare effetto, devo essere sedato. Ho un male furibondo, ma la cosa peggiore è che nessuno capisce che cosa mi stia accadendo.

Tecnicamente lo avremmo capito dopo un bel po’: io ho sempre avuto una postura particolare, un po’ troppo eretta, da “raddrizzato cervicale” come dice Francesco. In pratica ho un’inversione della lordosi cervicale, la curvatura all’indietro è appiattita. Secondo i medici mi conferisce una postura addirittura statuaria, ma ne farei volentieri a meno viste le beghe che mi provoca dal punto di vista funzionale. Fra un microtrauma e l’altro, un microstress della guida e l’età che avanza, questo è il risultato: eccessivo esaurimento dei dischi e delle aderenze legamentose, limitazione della libertà articolare del collo. Questo crac, insomma, non è dipeso dall’ultimo movimento, ma è l’esito di un percorso graduale di lenta “erosione”. Purtroppo, sarà qualcosa di incurabile che mi trascinerò per tutta la carriera: anche un piccolo colpo fa sì che i muscoli vadano in protezione e il collo mi si blocchi. E può restare così per dodici ore ma anche per cinquanta. Naturalmente, a completare la sfiga, il problema si rivela maggiormente quando sto in carena. Non proprio un bell’affare per un pilota.

A Jerez il dolore è così acuto che non ne vengo fuori. Mi bombardano di tutto ma non succede niente. La bega dell’esordio sulla moto nuova non aiuta a rilassarsi. Forse è il mio corpo che si è messo in difesa.

Lo staff Ducati mi domanda se è il caso di preparare la moto per domani.

«Non se ne parla.»

Sono out. Spappolato e demotivato. Dolore fuori e rabbia dentro. Il test salta. Ma questo è niente rispetto allo choc della prima uscita vera sulla Ducati, al terzo test.

È gennaio 2013, siamo a Sepang, il collo è abbastanza sotto controllo. Salgo in sella, percorro la pit lane, entro in pista, do un po’ di gas e mi dico: non ci credo. È uno scherzo. Adesso qualcuno mi ferma e mi dice: ti stavamo prendendo per il culo, ecco la vera moto per te. Invece niente. È tutto vero.

Ci sono problemi tecnici che neanche pensavo potessero esistere in natura. Infatti, alla prima curva seria, il dramma: non gira! Porca puttana, la moto non curva! E va bene che sono abituato a Honda e Yamaha, due moto che, pur con qualità diverse, entrano in curva che è un piacere e potresti invitarle a ballare il tango se ci stessero. Ma questa proprio viaggia su pianeti sconosciuti, e sicuramente inospitali. Forse potrebbe essere adatta a una gara tutta dritta, tipo sul lago salato: vai sparato e stai sicuro che, quanto a potenza, non ti batte nessuno. Ma si dà il caso che nel nostro sport sono previste le curve e, se non riesci a farle neanche nel giro di uscita mentre non stai spingendo per niente, vuol dire che sotto c’è qualcosa di grosso. Sono allibito. E mi torna in mente Valentino quando aveva confessato che il suo primo giro sulla Ducati era stato uno choc. Caro Vale, adesso siamo in due…

Ma come diavolo fa una moto a non voltare? Bella domanda. Il problema è che negli anni di Rossi in Ducati hanno provato a fare di tutto, ma senza risolvere la questione. Non solo: la pressione alle stelle, l’ansia da prestazione, le aspettative altissime e le critiche feroci li hanno spinti a tentare l’impossibile velocemente e male. Tipico di quando vuoi recuperare in fretta dai disastri. Ma qui la questione non è di dettaglio, bensì di struttura complessiva della moto. Se è sbagliata l’Idea, è impossibile venirne fuori. Se è sbagliata l’Idea, non puoi operare grossi cambiamenti di botto, ma devi procedere piano, con metodo, con il tempo. Ma loro tempo non ne avevano. Erano sul ring, alle corde, sotto una cascata di cazzotti. Procedevano a spanne. Al punto che – non lo posso sapere con certezza ma ne sono abbastanza convin to – forse la moto che ho trovato io dopo i due anni di Valentino è persino peggiore di quella guidata da lui la prima volta.

Brutta storia. Sono sulla mia pista preferita, con una moto factory, all’inizio di una teorica svolta della mia carriera, eppure ho la netta impressione che sarà una stagione di merda. Giro dopo giro la preoccupazione cresce, ma al box cerco di restare positivo. Salvare la facciata è fondamentale per non mandare subito tutto a ramengo. Tanto non ci sono alternative, tanto un’altra moto non c’è e non c’è neanche un altro lavoro. Dunque non mi devo lamentare: sono un professionista e il negativo non si combatte con il negativo ma prendendo i casini per il verso giusto, cercando rapporti produttivi, provando sempre ad avere il quadro complessivo della storia che stai vivendo.

Anche la struttura dirigenziale ha qualche problema. Fragile, senza direzione. Filippo Preziosi – il progettista, la figura storica della prima fase di Ducati in MotoGp, l’artefice del titolo mondiale con Stoner nel 2007 poi sacrificato sull’altare del fallimento di Rossi – se n’è andato. Adesso c’è il tedesco Bernhard Gobmeier, che è chiaramente un pesce fuor d’acqua e non riesce a tenere sotto controllo la vera variabile impazzita: gli ingegneri.

L’ingegnere italiano è una categoria a parte, che un giorno andrebbe studiata dalla scientifica nei laboratori di CSI. Preparato lo è, pure troppo. Ma, senza un capo forte come lo era Preziosi, tende a viaggiare in anarchia, vuole prendersi il potere delle idee, rifiuta il confronto con gli altri e, sostanzialmente, rischia di combinare casini della madonna. Quando arrivo in Ducati mi accorgo che ognuno pensa di avere la soluzione giusta, ci sono i gruppetti, ognuno rema per sé e non ascolta gli altri. Evidentemente i due anni del fiasco con Valentino hanno lasciato un segno profondo. Non serve un premio Nobel per capire che così non usciremo mai dal caos.

Per me tutto questo non esiste. Non è così che si lavora. Ma tant’è. L’ingegnere italiano alla Ducati, per tradizione storica, ritiene che il pilota sia credibile fino a un certo punto, e quando me ne rendo conto mi torna alla mente un vecchio ritornello che gira da anni nel paddock: alla Ducati gli ingegneri ascoltano i piloti per fare il contrario. Deve averlo detto Capirossi una volta, e adesso capisco bene perché. Facciamo meeting su meeting, passiamo da una riunione all’altra, sembra che stiamo sviscerando la composizione dell’atomo. Vittoriano Guareschi, uno dei due team manager sopravvissuti all’epurazione post Rossi, cerca faticosamente di mediare, ma non si viene a capo di nulla. Addirittura si pensa di rimettere in pista la moto usata da Stoner prima del biennio di Valentino. Follia.

Parliamo, parliamo, parliamo, ma so già che non mi credono. Per gli ingegneri se non c’è la conferma dei numeri stiamo parlando del nulla. Faticano a capire che la realtà può prendere altre direzioni rispetto ai calcoli e questo riesce a irritare anche me che pure sono un tipo preciso e, tendenzialmente, a loro un po’ somiglio. In linea generale, insomma, gli ingegneri non mi piacciono ma servono. Così io e Simone proviamo almeno a inserirne nella struttura qualcuno che conosco e di cui mi fido, gente di provata esperienza, tipi un po’ meno ingegneri degli altri. Vorrebbe essere un contributo alla crescita di tutti, ma veniamo rimbalzati. Che futuro ci può essere così?

La mia impressione iniziale – “Qui si potrà lavorare be ne” – si mostra presto una sonora cazzata. E la morale, prevedibile, è che la stagione fa schifo. Relativamente parlando, in pista non vado male, perché il più delle volte tiro fuori il meglio possibile da ciò che ho. Come facevo con il tubone giallo fra i salotti del babbo, così faccio con questo cavallo rosso selvaggio e indecifrabile. Ma il nostro non è il Mondiale MotoGp, è semplicemente la Coppa Panigale. La vinco, ma sai che gioia.

Il meglio è un quarto posto a Le Mans grazie alla pioggia e un quinto al Mugello: il resto è mediocrità totale, lontano anni luce dai primi, il vero segnale che, al di là dei piazzamenti, qui non c’è una visione. Mediamente piglio dei gran quaranta secondi di distacco, che in MotoGp sono ere geologiche: in pratica i primi arrivano, festeggiano, vanno sul podio, prendono la coppa, bevono lo champagne, baciano le miss, chiedono loro il numero di telefono, subiscono le interviste, si docciano, si rilassano, si fanno la birretta, vanno a cena, e a quel punto arrivo io al traguardo con la mia moto, incazzati uno con l’altra.

“Questa moto è la nostra tomba” penso ogni mercoledì quando preparo la borsa per partire da Forlì pieno di rabbia e frustrazione. Sono allo sbando. Il pilota nel suo labirinto. Giro in tondo. Non solo non vedo l’uscita, ma neanche una piccola luce, manco per sbaglio, e in più mi tocca pure sentir dire che bisognava prendere un altro Stoner perché è evidente che io non sono il pilota adatto all’ultimo salto di qualità.

L’ultimo salto di qualità?

Non ci capisce più niente nessuno. Così diventa difficile anche sperare. Certo, se lo avessi immaginato quella mattina all’aeroporto di Monaco non so se avrei deciso di venire. Ma poi mi dico che è un pensiero del cavolo. L’unica è lavorare per uscirne fuori con le proprie forze. Rimorsi e rimpianti, a questo punto, non hanno senso.