Fa un caldo porco. Il sudore mi cola nel casco. La tuta mi si appiccica alla pelle. Ho le vesciche alle mani. Le piante dei piedi mi bruciano negli stivali. Il cuore mi sta per scoppiare. Sono eroico e spappolato come un improbabile Dorando Pietri a motore. E sono incazzato come un puma.
Dovrei essere già arrivato da mo’, lì bello al parco chiuso che festeggio il secondo posto, stringo la mano a Valentino che ha vinto e poi saluto i meccanici, gli amici, il babbo, Simone, il Grizzly, l’Ale, e parlo alla tv, dico le solite cose ma con il sorriso a 320 denti, e poi bevo, mi apro la tuta sul davanti, mi rinfresco. Soprattutto mi rinfresco. Invece sono qui, stanco e furioso, nel caldo maledetto di questo posto al confine del nulla che spingo la moto verso il traguardo come un povero cristo che ha bucato lo scooter in piazza Saffi. È una roba senza senso, anche perché io non ho la minima colpa. Mentre spingo, e provo a correre e cerco di prendermi almeno qualche punto buono per la classifica, le altre moto mi sfrecciano di fianco cattive come Tir in autostrada. Non so se ridere o se piangere, se rassegnarmi e ordinare un Camogli all’autogrill o cercare almeno di bucare loro le gomme. Ma oggi va talmente di sfiga che se lanciassi un chiodo nell’aria tornerebbe indietro e mi si infilerebbe nel culo. È una storia così assurda che sembra quella di un altro. Invece è la mia.
Ma com’è potuto succedere?
Il 2015, un anno prima, comincia con un flash. È l’anno della prima moto fatta tutta nuova da Gigi. Nell’attesa di salirci sopra sento un’ansia che non avevo da tempo. E fin dal giro d’uscita capisco che abbiamo fatto uno step enorme: incredibilmente, la moto ha cominciato a voltare in curva! Non è perfetta, ovvio. Il suo Dna resta lo stesso, ma siamo su un altro pianeta rispetto all’altra. È una sensazione stupenda, quasi un’illuminazione, un po’ come quando John Belushi vede la banda.
E se Gigi avesse fatto il miracolo? Infatti, pronti via, ecco tre secondi posti. È la dimostrazione che stiamo lavorando bene. Quando uso il noi, i giornalisti mi chiedono quanto c’è di merito mio in questa crescita. È una bella domanda, perché la questione del ruolo del pilota e delle sue indicazioni è sempre delicata. A fine 2017 Gigi dirà che nel nostro successo c’è molto di Dovizioso. È vero, persino ovvio, ma sentirlo mi stupirà perché siamo alla Ducati, questa è la terra degli ingegneri e Dall’Igna, da autentico capo, vuole sempre assumersi responsabilità di successi e disfatte. Vincere per Gigi è una specie di religione che non lascia spazio quasi a nient’altro. Ma stavolta è chiaro che qui c’entro qualcosa anch’io: negarlo sarebbe andare contro la storia e la cronaca. Sono qui da due anni, sono partito da zero, ho visto un dragster trasformarsi in una moto: saranno servite anche le mie indicazioni, o no?
Il punto, però, non è questo. Nel 2015 non siamo già in condizione di farci i complimenti e analizzare la distribuzione dei meriti. Dobbiamo ancora lavorare un casino, perché va bene, forse siamo fuori dal loop negativo, ma la moto rimane lontana da dove dovrebbe essere. E non è il solito cosiddetto pessimismo alla Dovizioso: è che io, in passato, ho provato le moto che funzionavano e so come vanno. Non è il caso nostro.
Nonostante questo, dopo il secondo posto in Qatar nel primo Gran Premio dietro Rossi, qualcuno sostiene che ho perso una grande occasione per vincere. Il classico esempio di ignoranza: i critici che credono di sapere e non sanno un cazzo parlano senza avere la minima idea di come funzionano le moto e il lavoro nei box. Come fanno a essere così sicuri che un altro pilota avrebbe fatto meglio di me? Un altro chi, poi?
Il problema sono sempre le etichette: secondo questi geni dal cervello pigro, quando un pilota fa certi risultati una volta li deve fare uguali per tutta la vita. Il mio secondo posto in Qatar è un capolavoro, ma fallo capire ai soloni ripiegati sui loro pregiudizi: per loro, un altro top rider al posto mio avrebbe vinto. Non sanno nulla. Però da fuori è comodo riesumare “il solito Dovizioso”, una delle cagate più colossali che si possano concepire. Nella loro testa nessuno può mutare, forse perché proprio loro sono i primi a non saper cambiare idea. E continueranno con questa litania fino a che, nel 2017, dovranno per forza rassegnarsi. La realtà può mutare, ragazzi. E a volte nella vita si può anche cambiare idea.
Un tempo, ascoltare certe idiozie mi faceva infuriare di brutto, oggi sono in grado di passarci sopra, e sarà una delle mie forze in questa fase molto delicata. Perché in realtà la gara di Losail è una roba da paura e tornare a combattere lì davanti è una scarica di felicità inattesa. Rossi, alla fine, dice che è stata una delle gare più belle della sua vita, con lui primo, io secondo, il mio nuovo compagno Iannone terzo e nessuna Honda sul podio. È il mondo sottosopra, come in un sogno, meglio di un sogno.
Io parto dalla pole, scatto in testa e non vado mai sotto il secondo posto: sono un martello preciso e costante, ma soprattutto faccio certe traiettorie strette che mi fanno strabuzzare gli occhi. Dov’è finita la Desmo selvaggia? Se c’è ancora, si sta nascondendo bene. Carena contro carena attacco prima Lorenzo, poi Valentino che è partito decimo ma è risalito come sa fare lui nei suoi giorni buoni. Gli ultimi tre giri sono da panico. Rossi passa me che passo lui che passa me. A un certo punto penso che se non ci fermerà la bandiera a scacchi andremo avanti a darcele per sempre. Per vincere sì, ma anche solo per passione, una roba da romanzo: dopo il rigore più lungo del mondo ecco a voi la sportellata più lunga della storia. Prendersi a carenate in questa maniera è un orgasmo puro, anche perché sono anni che non mi capita.
C’è più cavallo bianco o cavallo nero? Non lo so. Ma di certo le idee le ho chiare dall’inizio alla fine: devo arrivare davanti all’ultimo giro, perché se io sono più veloce in rettilineo, Valentino lo è nei tratti guidati. La teoria è corretta, ma non riesco ad applicarla. Succede. Annuso la vittoria e la perdo di vista. Ma per oggi va bene così lo stesso. Almeno a me.
A Austin faccio il bis. Parto meglio, davanti a Márquez, ma lo so che è un’illusione. Qui lui è il re, vince sempre, non ci sono santi: secondo me questa pista non l’ha disegnata il famoso architetto tedesco Tilke, ma Marc in persona. Infatti al quinto giro passa e si capisce subito che non ce ne sarà più per nessuno. Io, però, tengo botta anche quando Valentino mi attacca. È l’unico momento davvero esaltante di una gara tutto sommato piatta, molto tecnica, di pensiero: tre botte di sorpassi e controsorpassi, un contatto sfiorato al punto che un centimetro in più e si cadeva in terra tutti e due. È la battaglia che lancia definitivamente Márquez, perché mentre io e Valentino ci rallentiamo a vicenda lui guadagna 2 fondamentali secondi. L’obiettivo resta allora il secondo posto, e me lo prendo a sei giri dalla fine: cambio passo e svernicio Valentino in scioltezza. È il colpo decisivo. Lui non sa reagire. Al traguardo penso che gli ho reso il gancio al mento che mi ha dato lui in Qatar. Peccato che sopra di me ci sia Márquez. Ma, ancora, va bene così lo stesso.
Terzo giro, terza bambolina in Argentina. Siamo all’estremo Nord, più di mille chilometri da Buenos Aires, tra acque termali e case sgarrupate, però il circuito è nuovo e la pista non male. Io mi prendo un altro secondo posto grazie alla caduta di Márquez a due giri dalla fine. Con Valentino se le stava dando di santa ragione, ma va al tappeto, Valentino vince, sale sul podio con la maglia di Maradona e poi racconta: “Ho 66 punti, ho fatto tre gare perfette eppure il Dovi è secondo ad appena sei punti…”. È un modo per dire che sono un candidato al Mondiale. Grazie, ma dentro di me so che sta esagerando: non abbiamo i mezzi tecnici per farcela. Però un sassolino davanti ai giornalisti me lo tolgo comunque: “In passato mi davate del lamentone, invece sapevo dove si doveva intervenire. Adesso diamo fastidio a tanti…”.
Sono passi avanti enormi, ma non bastano. E infatti la stagione si ferma praticamente qui. A Jerez faccio nono: non la sopporto da sempre, è quasi un effetto matematico. A Le Mans sono terzo, poi al Mugello potrei giocarmi la vittoria ma la moto mi fotte. È il problema tipico di chi, dovendo rincorrere i giapponesi, lavora più sulla prestazione immediata che sulla rifinitura dei materiali e sullo sviluppo. Così al Mugello usiamo corone al limite, che a un certo punto mi abbandonano. Che roba è? Semplice: gli altri hanno lavorato meglio, mentre noi siamo sempre borderline.
Tra la caduta e la rottura della moto c’è una bella differenza, ma la sostanza è che ti girano i maroni comunque. Io nella mia vita di rotture ne ho avute poche, e questo perché ho avuto la fortuna di lavorare sempre con meccanici bravi e l’abilità di impostare una guida delicata, precisa, attenta a rispettare freni, frizione, pedane, staffe. Dev’essere il background della minimoto. Stavolta, però, non serve a niente. Sono incazzato, ma che cosa posso farci davvero? So che non siamo nella stessa situazione dei giapponesi. So che se vogliamo combattere con loro dobbiamo prenderci dei rischi, affrettare i tempi, provare a entrare in pista anche con pezzi al limite. Una filosofia che i giapponesi non applicherebbero mai. Noi, pur di provare ad andare più forte, ci prendiamo rischi che per loro sarebbero inconcepibili. Di per sé non è un fattore negativo ed è un metodo determinato dalla nostra cultura, la via migliore per agire in emergenza. A suo modo, un valore aggiunto.
Dal Mugello entro in un pessimo loop negativo e faccio due zeri, un dodicesimo, un nono e un sesto. Sono diventato la controfigura di me stesso. Il Dovizioso di inizio stagione è scomparso, non sempre per colpe mie, ma conta poco. A Barcellona cado perché a un certo punto, in piena derapata con tanto angolo, l’elettronica mi dice ciao. Mai successo, ma gli ingegneri mi mettono dei numeri sotto il naso e sostengono che sono stato io a chiedere troppo all’elettronica. Mi puzza, molto anche. Ma questa è la loro interpretazione: come sempre, non è mai a favore del pilota.
Ad Assen, invece, mi frena un guaio alla sella. Era superalleggerita e cede. Pazzesco, ma anche qui è l’effetto di un problema di gioventù della moto. L’italianità che – a differenza di Yamaha e Honda che prima collaudano tutto fino alla nausea – non si fa grossi problemi a viaggiare al limite sui dettagli e a rischiare anche se si trova in affanno. Impensabile per i giapponesi: un pezzo non testato loro non lo portano nemmeno nel box. Qui no: si tenta, se va va e sennò ci abbiamo comunque provato. Sono le tipiche situazioni che da fuori non si vedono, ma che per un pilota fanno tutta la differenza del mondo.
È un grande paradosso, perché quando invece le cose funzionano si racconta, giustamente, che la creatività italiana è molto meglio della metodica lentezza dei giapponesi. Dunque, chi ha ragione? Qual è la qualità migliore? Il caso è aperto, anche perché io sono certo che, se si fossero trovati al posto della Ducati, i giapponesi non sarebbero riusciti a risolvere i guai così in fretta. Sono solo culture diverse. E, come tali, nessuna è migliore delle altre in assoluto, ma solo in rapporto alle condizioni di ogni singola gara.
Essere incolpevole, ovviamente, non mi consola e l’aria diventa pesante. In Germania cado per un errore mio: sono confuso, non guido più bene, vado nel pallone. Qualcosa non funziona. Leggo lo spartito ma suono gli accordi errati: sbaglio anche a Indianapolis, poi a Brno vado fuori pista e Iannone mi passa. L’involuzione è palese, e viene interrotta da un terzo posto a Silverstone ma è sull’acqua, dunque ha valore relativo. Nelle ultime sei gare non salgo mai più sul podio, vivo un triste declino di prestazioni e di rapporti interni. A fine campionato Iannone è davanti in classifica, la luce si rioffusca, comincio a conoscere meglio le persone e le dinamiche: il rosso giardino dell’Eden non è più così luminoso. Certi comportamenti cambiano, certe spalle si voltano, certi abbracci si irrigidiscono.
Che tristezza. Stanno nello sport da una vita, eppure alla fine sono risultatisti pure loro. Fanno ragionamenti basici: Dovizioso non fare risultato, Iannone salire nel borsino. L’applausometro in Ducati adesso è tutto per lui, io sento addosso solo cattive sensazioni. Sto rischiando di buttare nel cestino tre anni di duro lavoro per far uscire questa moto dalla sua inferiorità tecnica. Anzi: mi sa che sto proprio rischiando il posto.
Da persona trasparente e non politica mi irrigidisco anch’io, e passo un inverno preoccupato. Ma qui, se non altro, imparo la lezione del 2005. Allora avevo sbagliato completamente nel periodo di pausa, pensando di risolvere i problemi semplicemente nascondendoli sotto il tappeto. Adesso riesco davvero a chiudere porte e finestre ai fattori esterni. Grazie a tutto il lavoro mentale cominciato nel 2009 sono un altro, ho una diversa coscienza del mio ruolo e, soprattutto, di me stesso come persona. Forse è proprio questa la caratteristica che distingue il campione dall’atleta normale: la sua abilità nel resettare la stagione precedente attraverso la riprogrammazione, più lavoro, cambiamenti negli allenamenti, ridefinizione di piccoli dettagli di vita. Una sola cosa di queste può servire ad arrivare all’inizio del nuovo campionato con una mente libera e migliore. Nell’inverno 2015 ci riesco, e mi presento al primo test del 2016 in buone condizioni. Più pronto. Più aperto. Deciso a combattere.
Che poi, a dir la verità, non ho scelta. La moto, purtroppo, è uguale, i rapporti interni anche. L’unica soluzione è cercare di cambiare me stesso, cioè accettare la situazione e andare a caccia delle soluzioni che possano permettermi di cambiarla.
Nei tre test invernali sento un po’ più di feeling e mi sembra di essere pronto. Il problema è che mi pare lo pensi anche Iannone. Essermi stato davanti l’anno prima lo ha caricato a molla: ora è deciso a fare ancora di più la differenza, convinto che il cosiddetto apprendistato sulla moto ufficiale sia finito e che questo ormai sia il tempo di esplodere. Dal suo punto di vista, è un ragionamento corretto: se all’esordio con la moto ufficiale sono stato davanti al mio compagno più esperto, che cosa accadrà adesso che conosco il mezzo e sono cresciuto? E soprattutto: che cosa accadrà adesso che, chiaramente, tutta la dirigenza sta dalla mia parte?
Ormai è evidente che è Iannone il cavallo su cui intende puntare la Ducati per il futuro. La sua incomprensibile aura dentro il team offusca la mente anche di persone con cui poi – smascherato l’inganno – instaurerò un ottimo rapporto. In questi giorni i capi e gli sponsor non vedono la realtà, i comportamenti scorretti e l’arroganza di Iannone. È come se tutti fossero ipnotizzati dal fumo che alza. In un certo senso, lui è la perfetta metafora di quest’epoca in cui spesso non conta ciò che fai, ma il racconto che ti inventi. L’immagine, insomma. E non dico quella fuori pista, che alla resa dei conti è irrilevante e non mi va di giudicare. Io dico quella dentro, fatta di inutili aggressività, esagerazione, spericolatezze che teoricamente dovrebbero essere molto da ducatista, ma in realtà hanno poca logica. Iannone è senz’altro uno dei piloti più veloci su piazza e ha un bel manico. Ma i suoi giri sparati in prova non sono un indicatore del nostro potenziale in gara, bensì fumo negli occhi di tecnici e media. Lui contro di me non vuole solo vincere, ma umiliarmi. E così, se capita che sia davanti io, finisce per perdere il focus. Un giorno anche in Ducati lo capiranno. Oggi, però, mi sembra di essere l’unico che vede il re nudo.
Sono un dead rider walking. Tanto che la settimana prima della gara d’esordio in Qatar qualcuno in Ducati prende Simone da parte e gli consiglia di cominciare a guardarsi in giro per una soluzione alternativa nel 2017. L’azienda ha già fatto l’accordo con Lorenzo: l’idea è rinnovare con Iannone come secondo pilota e lasciare me a spasso. Simone, per fortuna, mi svelerà il retroscena solo a metà stagione, dopo che al posto di Iannone avrò rinnovato io. Ma non sarà un “tutto è bene ciò che finisce bene”. L’episodio resta agli atti come esempio di scarsa visione tecnica e travisamento della realtà. Non lo dimenticherò mai.
Come spesso accade, il mio grande alleato è la realtà. In Qatar Iannone arriva pompatissimo. Al terzo giro siamo davanti: lui primo, io secondo. Lo passo. Lui alla curva successiva cerca di infilarsi dove non c’è spazio. Una cosa senza senso. All’inizio, con una gara ancora tutta da correre, mentre siamo in testa, da compagni di squadra: assurdo. La mia fortuna, che poi non è una fortuna ma più o meno un’arte, è che me la sentivo. Infatti riesco a tirare su la moto in tempo per evitare il contatto, e resto in piedi.
Senza specchietti, senza GPS, con la visuale laterale oscurata dal casco, sentire una moto che ti arriva dietro non è semplice. Un po’ ti aiuta il diverso rumore, un po’ vai a sensazione: conosci bene il circuito, sai che in quel punto potrebbe esserci un contrattacco. E poi, soprattutto, sai con chi hai a che fare, conosci le tattiche di tutti, hai studiato – o hai già provato sulla pelle – come combattono i tuoi avversari, e in qualche modo ti prepari.
Poco dopo lui cadrà. E mi sembra un primo segnale importante: poteva fare podio e cade, non male, no? Io, intanto, faccio secondo dietro Lorenzo, che mi passa al nono giro e non si fa più beccare. Bravo, imprendibile, chapeau. Sono comunque soddisfatto. Non solo la moto ha un motore che fa davvero paura, ma tengo fino in fondo anche con le gomme finite e in volata sistemo Márquez di un paio di decimi: lui, al solito, mi sorpassa all’ultima curva, ma io rispondo, riesco a entrargli davanti in rettilineo e a tenere la posizione fino al traguardo. Tanto per dire che quello che succederà poi nei nostri duelli del 2017 non è un caso.
È una gara esagerata, quasi perfetta. Dalla moto e da me stesso ho pescato il massimo possibile, ma anche stavolta riesco a percepire nel box qualche mugugno. Secondo qualcuno, anche stavolta avrei dovuto vincere…
Dovuto?
Quindici giorni dopo, Argentina. La corsa è divisa in due run con il cambio di moto obbligatorio per ragioni di sicurezza: il sabato è esplosa la gomma di Scott Redding e la Michelin preferisce non rischiare. Dopo il pit stop, Márquez riparte a cannone e non si fa più vedere. All’ultimo giro la lotta per il secondo posto sembra una storia fra Valentino e Iannone, ma questo, con una staccata lunga, spinge fuori Vale e io mi ritrovo secondo. Ora che la storia è fra me e Iannone, lui decide all’improvviso di cambiare sport e passa al bowling. Così tenta un ultimo disperato attacco all’interno per sorprendere il compagno, cioè me, che avendo la stessa moto sono ovviamente il suo primo nemico.
Vecchia storia del nostro sport. Il tuo compagno ha la tua moto, teoricamente i tuoi stessi mezzi: se ti batte, non puoi cercare scuse e dire che aveva dei vantaggi tecnici. Perciò devi stargli davanti in tutti i modi. E quindi puoi anche arrivare ventesimo, ma se lui è dietro va bene ugualmente. Però un conto è la cultura della moto, la tradizione che ci portiamo nel sangue dalla prima corsa in minimoto: quella la condivido anch’io. Un altro conto è ciò che fa Iannone adesso: completamente un’altra storia, una manovra senza senso, contro le leggi della fisica, della logica e della sportività. Insomma, una cazzata epocale.
Infatti, appena produce la grande pensata la sua moto è già lì che si corica e mi centra in piena fiancata destra. Stavolta, però, non è come in Qatar. Non resto in piedi. Vado al tappeto senza sapere perché e percome. Le immagini delle on board camera, più tardi, saranno evidenti: io sto piegando, poi all’improvviso nell’inquadratura entra un pazzo che mi stende. Tyson nei suoi k.o. sapeva essere più delicato.
Rotolo, per una volta più stupito che preoccupato, e quando mi ritrovo col sedere per terra alzo il pollice come a complimentarmi, ce l’hai fatta a fare la minchiata. Potrei incazzarmi, dirgliene quattro, andare allo scontro fisico. Penso che se gli saltassi addosso nessuno mi direbbe niente. Il tribunale dello sport parlerebbe di un evidente caso di legittima difesa. Ma non è la mia natura. Che invece mi spinge a ignorarlo, rialzare la moto e portarla a spinta al traguardo, dove arrivo tredicesimo e mi prendo tre punti.
Rispetto al secondo posto – o anche al terzo, perché no, se Iannone fosse stato capace di passarmi regolarmente – c’è una bella differenza. Ma la differenza più grande è quella dei comportamenti: io, disarcionato senza regole, non piango, ricomincio e arrivo comunque alla fine, a piedi e a testa alta; lui si leva il casco, si sistema i capelli e si siede su una sedia di plastica bianca da pizzeria, triste come il suo sorpasso mancato.
Ecco come siamo arrivati fin qui, a spingere la moto in questo caldo porco d’Argentina.
Passato il traguardo, Fabio, uno dei miei meccanici, mi tende la mano e mi aiuta a scavalcare il muretto perché da solo non ce l’avrei mai fatta. Subito dopo decido di non fare casino, ma non è solo diplomazia e buon carattere. È che, nel disastro della situazione, sono un po’ contento perché senza che io facessi niente Iannone si è rovinato con le sue mani. Intuisco che è la svolta, e ha fatto tutto lui! Non in una, ma in due gare di fila, ha sbagliato e pagato. Sta dimostrando di non essere il pilota che la Ducati si aspettava lui fosse. Con Simone decidiamo di adottare il basso profilo con i media ma di iniziare a spingere internamente approfittando degli errori altrui e costruendo il nostro futuro sui risultati. La missione è chiara: io devo lavorare bene in pista, Simone fuori.
Il giovedì successivo, a Austin, viene organizzata una riunione con i team manager, Dall’Igna e noi piloti. E, nonostante quello che è successo prima, i capi si inventano una norma strana. La premessa è che saremmo potuti andare più forti entrambi senza ostacolarci. La conclusione è che d’ora in poi, quando uno sorpasserà l’altro, l’altro, per un giro, non potrà tentare la risposta.
Sono allibito.
«Scusate, ma chi è che ha sbagliato, io o lui?»
«Non è quello il punto.»
«A me pare di sì. Perché così vengo penalizzato io che sono più bravo a fare la strategia di gara.»
Mi rispondono parlando di necessità di collaborazione, di aiutarsi per andare più forte entrambi, di esigenze di squadra superiori a quelle del singolo. A me, però, continua a sfuggire il nodo della questione: è o non è vero che lui mi ha buttato per terra? E dunque di cosa stiamo parlando realmente?
«Non esiste. Non potete limitare me in un mio punto forte perché lui ha sbagliato!»
I capi non sentono ragioni. Gigi chiude il caso dicendo che d’ora in poi dovrà essere così e basta: nessun controsorpasso immediato, si attende un giro. Mi sembra palese che vogliono proteggere Iannone e dargli un’altra chance.
A conti fatti, nel resto della stagione una situazione simile non si verificherà più. Per fortuna, altrimenti non so che fine avrebbe fatto la teoria del controsorpasso ritardato. La situazione, comunque, è diventata insostenibile. Io e Iannone non ci parliamo – non che prima andassimo a cena insieme… – e anche fra i capi Ducati si apre una lotta interna fra chi pensa che sia giusto dargli ancora fiducia e chi crede che si sia giocato l’ultimo jolly; fra chi teorizza che “tutti meritano un’altra opportunità nella vita” e chi addirittura sostiene che Iannone andrebbe lasciato a casa subito. L’atmosfera è pesante. E attira anche la sfiga.
In Texas mi stende Pedrosa. A Jerez rompo il motore. A Le Mans, invece, sbaglio io perché ormai è impossibile scansare questa tensione esagerata: io non guido bene, Iannone mi passa, scappa ma esagera e cade; io punterei anche al podio, ma sbaglio e cado con Márquez. Un disastro. Finché al Mugello mi viene presentata l’ipotesi del nuovo contratto. Una cosa irrispettosa.
È una proposta non negoziabile e mi dicono di dare la risposta entro ventiquattr’ore. Il loro teorema è chiaro: abbiamo preso Lorenzo e la nostra nuova stella polare è lui. Chi resta al suo fianco non conta. Che sia Iannone o che sia Dovizioso, varrà comunque come un due di picche. L’unica differenza è che vestirà rosso anziché nero.
Io e Simone ci sentiamo presi in giro. Da persone tranquille, abituate a ragionare, ci ritagliamo però qualche ora per sbollire la rabbia e definire con calma i contorni della situazione. Soprattutto, ci chiediamo che cosa è più giusto per il nostro futuro: rompere per principio e orgoglio o farsi passare un altro magone tenendo presente il grande quadro? Forse c’è qualcosa di più importante. Che, come sempre, non sono i soldi. Ducati me ne ha dati tanti quando la moto non funzionava. Oggi, se me ne dà così pochi, c’è una moto che va forte e cresce. Forse c’è un equilibrio in questo. E comunque le priorità sono altre.
Intanto, la voglia di vincere. Quali sono le moto buone per vincere, eventualmente disponibili? Ci sarebbe la Suzuki, che però non è competitiva. Ci sarebbe la Honda, che ci ha fatto un’offerta subordinata al fatto che Pedrosa possa andare via, cosa che non succede. Alla fine, la moto più interessante per poter vincere resta la Ducati. Lasciarla per un gesto di orgoglio sarebbe insensato. Poi c’è da finire una storia tecnica e umana: sento che ci sono ancora capitoli importanti da scrivere, è un peccato non crederci e lasciarla interrotta sul più bello. E, infine, c’è la sfida di affrontare Lorenzo con la stessa moto. Io non vedo l’ora di averlo come compagno: come stimolo e come occasione per saldare conti sportivi passati che risalgono alla 250.
Dunque, con Simone decido di accettare. Senza potere di negoziazione, accordandoci per meno della metà di quello che prendevo. E in questo strano accordo funziona come collante la sintonia tra Simone e Paolo Ciabatti, il direttore sportivo: sanno usare entrambi toni pacati, limano certi aspetti delicati dell’intesa e alla fine trovano il punto di incontro.
In futuro si sottolineerà molto la differenza con l’ingaggio di Lorenzo, oltre dieci volte superiore al mio. La sproporzione non mi scandalizza. In un certo senso, può essere una questione di valore di mercato: lui ha cinque titoli mondiali in tasca, io appena uno che risale alla notte dei tempi. Da qui in poi non ci sarà una volta in cui recriminerò sulla questione, lasciandomi tirare dentro nella polemica. Il punto cruciale, casomai, è un altro: la consistente diminuzione del mio stipendio. Quello sì è il vero segno di una mancata riconoscenza. Ma, ancora una volta, mi ripeto che c’è un grande quadro. Ci passo sopra e dico sì alla proposta. Simone sorride:
«Va bene così, Andrea. Ho iniziato la stagione con le braghe calate, in Argentina ho cominciato a tirarmele su. Adesso posso di nuovo uscire per strada…»
Alla mia squadra dico che voglio accettare questa nuova sfida. Non mi piace lasciare un lavoro a metà. Non voglio interrompere un progetto avendo sofferto più di quanto ho guadagnato. Loro capiscono. Approvano. Ci stanno. Insieme decidiamo di intraprendere l’ennesima avventura: altri due anni partendo in salita.
Non so che cosa sarebbe successo se io e Iannone avessimo entrambi accettato la proposta Ducati, e alla fine tutto questo conta poco. Quello che conta per me è il processo compiuto. Avere performato sotto pressione, essere stato lucido nelle analisi, avere lavorato bene in pista restando immune all’emotività inutile. Iannone si è lasciato andare al suo carattere, ha fatto lo sborone, mi ha preso per il culo perché un giorno avevo male al collo, le ha provate tutte per abbattermi, fisicamente e moralmente. Io, invece, dal mio carattere non mi sono mai fatto sopraffare, non mi sono buttato giù e ho pensato solo a fare bene il mio lavoro in pista e fuori.
Sono partito in netto svantaggio e ho ribaltato il campo con le mie positività di pilota e la lucidità nello sfruttare gli sbagli altrui, senza fare chiasso per rinforzare le mie teorie. Io non sono uno sborone, se ci provassi mi verrebbe pure male, e non c’è niente di peggio che uno sborone sfigato. Le mie armi sono state testa bassa, allenamento e lavoro mentale. Questo è il coronamento di un percorso e, nello stesso tempo, l’inizio di un altro.
La base del 2017 è stata scritta in questi giorni, perché poi non dimentico che, in tutto questo casino, è chiaro che alla Ducati non interessa più di tanto chi c’è nel box a fianco di Lorenzo. O forse sì? Alcuni, infatti, scriveranno che io sarei più accomodante, in un certo senso più debole. Mi sembra un modo volgare di confondere la persona perbene con lo sfigato, mi viene da ridere e mi verrà da ridere ancora di più quando entreremo in pista io e Lorenzo con la stessa moto. Non avrò mai dubbi sul fatto che gli starò davanti: che fossimo io primo e lui secondo, o io ventesimo e lui ventunesimo. Questa Ducati è mia. E nessuno me la toglie.