Stiamo atterrando. Sotto c’è Doha. Dalla prima volta che ci siamo venuti, nel 2004, è cambiata in modo esagerato. Costruiscono un grattacielo al giorno, una linea di metro a settimana, ogni mattina ti svegli e devi prendere un’altra tangenziale. Ormai di quello che c’era quattordici anni fa si riconosce poco: il circuito, la Corniche, il mare. Ma tanto a noi piloti, come sempre, interesserà poco. Il nostro è un percorso obbligato, intorno potrebbe esserci sabbia o ghiaccio e non noteremmo la differenza. Sarà così anche stavolta.
Il comandante ci informa sulle solite cose, io smanetto distratto tra le foto nel telefono. Ho voglia di arrivare, andare in albergo, guardare un film, riposarmi: domani è giovedì, dopodomani si ricomincia. Non ho fretta, ma meglio non perdere troppo tempo.
Sul telefono compare la foto che mi ha inviato ieri un amico. Credo sia un messaggio di auguri, anche se lui non usa questa parola perché, come tutti, pensa che porti sfiga. È un’immagine del giugno 1994, lo dice la scritta nell’angolo in basso a sinistra. C’è un palco da concerti nella campagna, un’asse tenuta insieme da tubi di ferro protetta dal cellophane. Sopra, appoggiato a un grande altoparlante, sta un signore con un giubbotto beige. In mezzo, davanti a un pianoforte, ci sono il presentatore che parla al microfono e un altro signore con in mano un mazzo di medaglie: ai suoi piedi un po’ di coppe ancora da consegnare. Sotto il palco, sulla destra, un tipo coi baffi applaude convinto un ragazzino, che poi sarei io.
Sono in piedi su un banco di scuola che immagino debba funzionare da podio. Ho jeans chiari, una felpa gialla, una medaglia al collo, i capelli ricci e una faccia che conosco bene: mezzo divertito e mezzo imbronciato, osservo con partecipe distacco la coppa che tengo tra le mani. Mi sembra un oggetto scontato e misterioso. Una cosa tipo: “Ovvio che ho vinto”. Ma nello stesso tempo: “L’ho vinta io davvero ’sta roba?”. Ho 7 anni. Sono il piccolo re romagnolo delle minimoto. So di esserlo ma non ne sembro troppo convinto.
Sorrido. Mi cade l’occhio sul giornale italiano spiegazzato ai miei piedi. L’ho sfogliato prima di partire: c’era scritto che sono il vero avversario di Márquez per il titolo e il grande favorito per questa prima gara dell’anno. Neanche “uno dei”. No. Il favorito. Ci credono o me la gufano?
Mi viene da ridere pensando a come in un anno siamo passati da un estremo all’altro, ma va bene così. È quello che ho desiderato per una vita, sarebbe da deficienti lamentarsene adesso. Entrare nei pronostici, poi, è quasi più potente che vincere in sé. Vincere una volta può succedere a tanti. Essere considerato per il futuro e avere una buona quota dai bookmaker significa invece essere diventato interessante, possedere sostanza, aver compiuto il passaggio da potenziale exploit a certezza. Non essere più quello che quando parla in conferenza stampa gli altri piloti si distraggono perché non sei un vero competitor. Avere dimostrato, insomma, che tutto è possibile se ti ci applichi.
Perché poi non è un vincente chi arriva primo. Quello è un accessorio che non cambia l’essenza. Ovviamente le vittorie mi hanno aiutato, ma se l’anno scorso mi hanno festeggiato tutti come se avessi vinto il Mondiale, mentre invece sono arrivato secondo, penso sia per altre ragioni: il duro lavoro, la riflessione sui miei limiti, non voler stare al centro dell’attenzione, una certa inclinazione alla normalità che la gente ha apprezzato. Un giorno un giornalista mi ha fatto notare che ha sentito complimenti nei miei confronti da suo padre ottantenne e da suo figlio che va alle medie. Mi ha definito trasversale. Io non so se sono trasversale, ma mi sembra una figata pazzesca. E credo dipenda sempre dalla stessa ragione: con umiltà, non ho mai mutato la mia natura per arrivare dove sono.
E la cosa più esagerata è stata convincere i tifosi della Ducati. Perché io, di base, sono il pilota meno ducatista del mondo. Non ho mai avuto, né mai avrò, il cliché alla Bayliss, alla Fogarty, alla Capirossi. Tendenzialmente sono uno che all’asfalto sta incollato come un chewing gum sotto la poltrona al cinema, il contrario del matto che corre coi denti nella piastra, artiglia i manubri, fa numeri della madonna, porta a casa quello che riesce, che magari è meno di quello che potrebbe ma chissenefrega perché ha dato l’anima ed entusiasma la folla. E allora come cavolo ho fatto a conquistarli, proprio io, così diverso dai loro storici modelli di riferimento?
Ma quello ducatista è un popolo a parte, unico, non legato in realtà a un pilota singolo ma ai valori che lui incarna. Un po’ come i tifosi nel calcio, i ducatisti tifano la maglia e al pilota chiedono di non essere sovrastato dall’ego ma di dimostrare senso di appartenenza. Normalmente, questo può apparire di più con uno stile spericolato, la tuta sporca, le corse lacrime e sangue, la spettacolare ignoranza: l’assolo di chitarra duro e cattivo al posto del suono limpido e corale di tutta la band. Con me, però, hanno capito che quei valori potevano essere trasmessi anche con uno stile diverso. Hanno capito che il punto fondamentale non è essere selvaggio a priori, ma essere sincero. Forse succede anche negli uffici tutti i giorni: non è che quello che alza fumo e parla e ha la fronte sudata lavora per forza di più di quello che sta silenzioso e fa il suo senza sbandierarlo. La differenza la fa la sostanza, ma fallo capire a chi giudica e comanda.
Ogni tanto, se c’è qualcosa da discutere con gli ingegneri, delle modifiche da vedere o una riunione, capito in fabbrica alla Ducati. Più che altro è perché ho la fortuna di abitare a ottanta chilometri da Borgo Panigale: andare a Tokyo se stai alla Honda non è facile uguale. Però quando sono lì mi interessa davvero conoscere chi si fa il mazzo e rende possibile ciò che avviene nei weekend di gara. Mi pare normale, oltre ogni retorica dell’azienda come una famiglia eccetera eccetera. Loro e i tifosi hanno apprezzato il fatto che non sono uno di quelli che dicono solo “io, io, io”, e non mi sono messo contro nessuno, e soprattutto, alla lunga, passando per un bel tot di problemi, dopo un periodo buio ho riportato i risultati e ho restituito loro una speranza sportiva.
Dopo un lungo periodo buio…
Le cicatrici che hai addosso non sono solo quelle che si vedono sul corpo. Io, per fortuna, sono sempre caduto poco, e al babbo piace andare in giro a dire che è perché sono uno dei piloti più intelligenti di tutti. Discorsi molto da babbo, perché per me invece la vera spia di intelligenza di un pilota è la capacità di adattarsi alle necessità e saper cambiare pur rimanendo fedele alla propria struttura, tecnica e mentale.
Comunque, se io sono caduto poco realmente, la mia è stata una carriera piena di cadute metaforiche. Dopo che vinco il Mondiale 125, cado una prima volta in 250 e cado una seconda quando Lorenzo vince il titolo che speravo di vincere io. Mi rialzo in MotoGp con la Honda satellite, ricado il primo anno con la Honda ufficiale. Mi rialzo l’ultimo anno ma non è sufficiente: ricado quando sono obbligato ad andare alla Yamaha satellite, mi rialzo brevemente con dei buoni risultati, ma ricado quando capisco che potrei fare anche mille podi però in Yamaha ufficiale posto per me non c’è. Già sul fondo, faccio il miracolo di scavare in Ducati, perché per due anni stiamo nel marasma e non si vede la luce. Ma poi mi rialzo di nuovo, fino a oggi.
Le cicatrici di questa altalena le ho tutte dentro, ma non le considero né medaglie da esibire né fonti di rimpianto o di tristezza per quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Pugnette totali. Chissenefrega. Io adesso sono sereno, stracontento di averle e fiero di averle curate. In equilibrio e pronto come questo aereo che sta posando le ruote sulla pista.
Non posso sapere come andrà questa stagione. Quante gare vincerò, se ne vincerò, e come finirà il Mondiale, come si evolverà la mia moto, e quella degli altri, e le gomme, e l’elettronica, e come reagiranno i miei muscoli, il mio cuore, e quali contratti arriveranno, quali nuove cazzate mi toccherà ascoltare dagli esperti, quanti nuovi applausi mi meriterò di sentire.
Non lo posso sapere e, soprattutto, non mi preoccupo. Perché io adesso sto a posto così.
Mi slaccio le cinture. L’Ale è al mio fianco. Bella, amica, fondamentale. Dietro c’è Omar, da quest’anno il mio amico sul campo. Stanotte il Grizzly arriverà da Siena, Simone da Londra, gli amici da casa. Mancherà solo il babbo: finché non gli costruiranno la Forlì-Doha per il camper qui non verrà, ma tanto lui c’è sempre lo stesso.
Do un bacio all’Ale e ci alziamo. La porta si apre. Fuori c’è il sole, e una luce che illumina.
Possiamo cominciare.