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A tariffa oraria
Kilian
Febbraio 2018 - Chicago
Plop
Plop
Plop
Il ritmo cadenzato della goccia d’acqua che cade dal rubinetto che perde mi fa compagnia, via via che il tempo trascorre, in questo rimbombante silenzio, il suono si fa sempre più forte e fastidioso; eppure non mi alzo dal letto.
Afferro la bottiglia di whisky
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, quello scozzese, e lascio che mi bruci nella gola ormai abituata. Mastico i resti del distillato in bocca, fisso il soffitto, continuando a interrogarmi sul mio futuro. Il ritorno a casa è stato più difficile, questa volta, dopo quanto accaduto non posso più continuare a servire la mia patria, l’ho capito all’ultima missione, il prezzo da pagare si è fatto troppo alto per i miei nervi tirati. Ogni dannata notte sogno quella notte di due anni fa, ogni dannata notte mi sveglio urlando in un lago di sudore, ogni dannata notte muoio un altro po’.
Lasciare la carriera militare non è stato facile e lavorare dietro a una scrivania dal mio paese, senza esser sul campo a dare il mio concreto contributo, non potevo accettarlo e adesso scopro quanto sia complicato trovare un lavoro per qualcuno che ha fatto ritorno dalla guerra. Combatti per gli americani, rischi la tua vita, ma quando rientri sei guardato con sospetto, come se potessi trasformarti in una macchina di morte da un momento all’altro.
Nessuno si fida di un veterano, forse ne hanno persino ragione, i miei scatti improvvisi, i momenti in cui il mio cervello si stacca dal presente per tornare a un passato doloroso, non sono certo un buon biglietto da visita per la civiltà moderna.
Pensavo di aver trovato la nuova strada, quando ho conosciuto Lauren, l’avevo vista come la mia ancora di salvezza… da quando era entrata nella mia vita le cose giravano meglio, avevo persino trovato un buon lavoro manuale come operaio edile e me la cavavo bene, grazie anche alla psicoterapia, ma ora lei non c’è più, se n’è andata e quello spazio vuoto nell’armadio non fa che ricordarmi la sua assenza. È colpa mia. Cazzo, è tutta colpa mia, è fuggita da un mostro e ha fatto bene.
Così come il suo arrivo aveva portato una ventata positiva, la sua dipartita ha spolverato via anche ciò che di buono era rimasto e ora, dopo essermi presentato ubriaco fradicio sul posto di lavoro qualche mattina fa, mi ritrovo di nuovo disoccupato.
Accarezzo con i polpastrelli la medaglietta che ancora porto appesa al collo, sfioro l’idea di arruolarmi di nuovo, in fondo non mi interessa nemmeno più di morire. Mi spaventa vedere morire gli altri… e ripenso a Mitch e al suo sangue che mi sporcava la faccia. Ripenso a quel bambino che adesso è sottoterra perché io ho premuto il grilletto. Non posso vivere di nuovo quest’inferno.
Plop
Plop
Plop
Un suono che penetra nelle orecchie e, col suo effetto ipnotico, mi fa ripercorrere ogni singolo errore commesso nel corso della mia infima vita.
Solo il rumore del cellulare che suona mi riporta al presente. Mi allungo fino ad afferrare lo smartphone e resto imbalsamato a guardare la foto di mia madre che mi chiama, incerto se rispondere o
rifiutare.
Sospiro, non merita che io la tratti così.
«Pronto, mamma» butto fuori affaticato, passandomi la mano sugli occhi stanchi e gonfi.
«Ehi, hai una voce terribile» esordisce. «Stai per caso bevendo alcol?»
«Non sono un cazzo di alcolista, bevo qualche volta» rantolo indolente, stanco persino di discutere.
«Ma sei arrivato a lavoro sbronzo, se non è un problema di alcolismo questo non so–»
«Mamma, mi hai chiamato per rimproverarmi? Non serve, sono un uomo adulto» ringhio, con la testa che mi scoppia.
La sento sospirare arresa, so di farla preoccupare e me ne dispiace, ma ho bisogno di macerare nella mia solitudine.
«Hai mangiato la quiche di funghi che ti ho portato ieri per il pranzo?» domanda infine.
«Sì» mento, è più facile che dirle che ne ho toccato a malapena una forchettata.
«Comunque ti chiamavo perché ho fatto alcuni dipinti a un uomo di nome Carl Benson e, parlando, è venuto fuori che ha un bar e sta cercando qualcuno che copra dei turni scoperti.»
«Oh, mi stai proponendo di fare domanda?» biascico, giocando a lanciare la pallina da tennis contro al muro e riprendendola al volo.
«Sì, è un’opportunità. Non dovresti fartela sfuggire.»
«Già, sarà entusiasta di aver un barista depresso che scatta a ogni rumore improvviso.»
«Kil…»
«Non chiamarmi così!» Lo grido alla cornetta, la sento sussultare e allora il senso di colpa arriva puntuale. «Mi dispiace, mamma… mi dispiace» gemo, massaggiandomi le tempie. Sono un enorme stronzo.
«Lo so, ti chiedo scusa, io… io… non penso mai all’assonanza di questo stupido diminutivo.
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»
«No, no, non devi scusarti, non è colpa tua se sono tanto suscettibile» recupero, ammorbidendo la voce. «Andrò a quel bar.»
«Davvero?!» squittisce, improvvisamente rallegrata per aver vinto la battaglia. Il senso di colpa è sempre un ottimo metodo per far leva su di me. «Ti lascio l’indirizzo, hai carta e penna?»
«Ho le note sul cellulare.»
Un’ora per buttarmi giù dal letto, darmi una ripulita e indossare maglietta e jeans puliti, per poi raggiungere in moto il bar in cui mia madre spera che lavori.
Sbuffo, ma nonostante il mio pessimo umore e il poco ottimismo sull’esito di questo colloquio mi decido ad entrare.
All’interno c’è qualche persona che si gode il pomeriggio a mangiare fish&chips e qualche cameriera si affaccenda per portare ai tavoli le ordinazioni.
«Buonasera, è da solo, desidera un tavolo?» Una ragazza gioviale mi si avvicina, noto che ad altri che sono entrati quasi in contemporanea a me non è stata riservata la stessa cortesia e questo mi fa ben capire che, la morettina, sta cercando una scusa per attaccare bottone. Le sorrido smagliante, potrei decidere di scoparmela. Tuttavia, l’immagine dell’apprensivo volto di mia madre, mi fa propendere per fare la cosa giusta.
«Sto cercando Carl Benson» la informo, lei mi squadra e arriccia i capelli lunghi all’indice.
«Per il posto di barista?» indaga con un lampo negli occhi.
«Proprio per quello.» Annuisco, portando il giubbotto di pelle sulla spalla.
«Carl è quello laggiù.» Mi indica un signore dalla testa calva e due grossi baffi rossicci.
«Ti ringrazio» pigolo con un occhiolino.
*
Tre mesi. Sono tre mesi che pulisco il bancone e servo da bere a branchi di ragazzi che vengono qui a far casino, specie nei giorni in cui si gioca il campionato nba
. Ho scoperto che detesto essere sottoposto, almeno nel mondo normale, tra i civili; mentre nell’esercito obbedivo agli ordini senza storcere il naso, qui l’obbedire mi va stretto. Voglio di più e, per qualche perversa ragione, nonostante tutti i difetti, questo posto mi sta salvando da me stesso, mi sta dando qualcosa per cui alzarmi la mattina. In tutto questo, lo stipendio è da fame.
«Allora, hai trovato un idraulico per quel problema a casa?» Jenny, la cameriera che ci prova da quando ho messo piede qui dentro, mi arriva alle spalle saltellando.
«Come sai che ho problemi alle tubature?»
«Carl» risponde, spillando la birra nel boccale, prima di guardarmi con quei grandi occhi verdi. «Mi ha raccontato che hai chiesto un aumento, sai che non sa tenere la bocca chiusa.»
«In compenso sa tener chiuso il portafoglio» borbotto.
«Già, mi ha anche detto che non ha potuto concedertelo.» Mi lancia un sorriso, sistema le pinte sul vassoio e trotta via.
Sbuffo. «Desidera qualcos’altro?» domando alla distinta signora sui quarantacinque anni vestita con un costoso completo di sartoria italiana, arricchito di gioielli.
«Un altro Martini
, per favore.» Esibisce un sorriso perfetto e prende lo stecchino su cui è infilzata l’oliva verde e, fissandomi dritta negli occhi, se la infila tra le labbra, alludendo a ben altro.
«Le piacciono le olive…»
«Non quanto i bei ragazzi» ammicca, colma di malizia.
Stringo gli occhi per metterla a fuoco e mi sporgo sul bancone. «Ci sta per caso provando?» diretto.
«È più complicato di così.» Si allunga verso di me, stringendomi l’avambraccio con le sue unghie curate. «Ho sentito che hai bisogno di soldi.»
«Non credo che la riguardi» freddo mi ritraggo e afferro il vermut dry.
«Non sono un’impicciona, ma ne hai parlato a dieci centimetri da me.» La osservo, mentre miscelo i liquori. «Non sono l’unica donna a cui piacerebbe star sotto di te, se capisci a cosa alludo.»
«Non ha peli sulla lingua.» Schiocco la lingua, posandole di fronte il bicchiere.
«Non è mia abitudine, negli affari vado diretta.»
«Che c’entrano gli affari col sesso?» Ridacchio sprezzante.
«Non sarai davvero tanto ingenuo?» Sorride di nuovo scuotendo il capo. «Il sesso fa fare gli affari migliori.»
«E che vuole da me?»
«Ti piace fare sesso?» chiede, lasciando il rossetto rosso sul bordo di vetro.
«Che domande, sono un uomo.»
«E ti piace fare soldi?» Sollevo un sopracciglio, sempre più confuso. «Grazie a me potrai avere entrambe le cose.»
«Parla chiaro» mormoro a bassa voce vicino al suo orecchio. «Non mi sono mai piaciuti gli indovinelli.»
«Ho una specie di agenzia, non un’agenzia tipica, certo… ma molto redditizia e ti permetterebbe non solo di pagare un ottimo idraulico, ma anche di permetterti qualche sfizio.»
«E…» La incito a continuare con una ferma occhiata.
«Ti sto proponendo di far sesso per denaro, di fare il gigolò.»
«Come?!» Interdetto la guardo, certo di aver capito male. «Stai scherzando?!»
«No, le donne pagheranno molto per quegli occhi di ghiaccio.» Fa un occhiolino e il tarlo inizia a divorarmi il cervello.